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Cosa succede in Venezuela | Guaidó e Maduro si contendono il potere

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@periodistadigital

Il Venezuela è molto più vicino di quello che possiamo pensare e non è una questione geografica: oltre ai tantissimi italiani che vivono a Caracas e dintorni, ed ai venezuelani che stanno arrivando in Italia, il paese rimane centrale per gli equilibri geopolitici mondiali. Anche per questo, i fatti in Venezuela riscuotono sempre un grande interesse da parte dei media. Vediamo gli ultimi sviluppi e cerchiamo di capire meglio qual è la situazione.

Il 23 gennaio 2019 l’opposizione ha organizzato una manifestazione anti-governativa che ha richiamato nelle piazze di Caracas, Barquisimeto, Maracaibo, Barinas e San Cristóbal migliaia di cittadini. Durante la manifestazione Juan Guaidó, uno degli ultimi leader dell’opposizione rimasti in libertà e da pochi giorni Presidente del Parlamento, si è auto-proclamato Presidente ad interim del Paese, con l’obiettivo di convincere Maduro a presentare le proprie dimissioni e proclamare nuove elezioni democratiche.

Maduro ha denunciato l’accaduto come un colpo di Stato appoggiato dagli Stati Uniti, e da allora in Venezuela si susseguono scontri con morti, feriti e arrestati. Questi gli sviluppi più recenti.

Il Colpo di Stato mancato

Dopo mesi di mosse tattiche indirizzate soprattutto a cercare l’appoggio dell’esercito e il consenso internazionale, il 30 aprile 2019 Juan Guaidó ha preso l’iniziativa più significativa da quando si è proclamato Presidente.

Guaidó ha pubblicato un video su Twitter nel quale invitava i cittadini e i soldati a unirsi a lui per portare a termine l’Operazione Libertà. Nel video appariva circondato da numerosi militari e affermava che l’esercito era passato dalla sua parte. Subito sono seguite numerose manifestazioni nelle strade e si sono verificati violenti scontri fra le forze dell’ordine e i sostenitori di Guaidó.

La presa di posizione del Presidente ad interim è probabilmente stata spinta dalle garanzie date dagli Stati Uniti su un possibile piano di fuga preparato da Maduro in caso di rivolta dell’esercito e dalla conferma del pieno sostegno dei paesi limitrofi riuniti nel “Gruppo di Lima” (Argentina, Brasile, Canada, Cile, Colombia, Costa Rica, Guatemala, Honduras, Panamá, Paraguay, Perú), che pochi giorni prima avevano espressamente chiesto alla Forza Armata Nazionale del Venezuela di manifestare la propria lealtà a Guaidó e cessare “di servire come strumento del regime illegittimo per l’oppressione del popolo venezuelano”.

In piazza a partecipare alle proteste c’era anche Leopoldo López, in passato uno dei più agguerriti oppositori di Maduro, liberato dai militari passati dalla parte del Presidente del Parlamento dagli arresti domiciliari a cui era stato condannato.

La risposta di Maduro non si è fatta attendere e, sempre da Twitter, ha lanciato un appello ai suoi sostenitori:

(“I nervi d’acciaio! Ho parlato con i comandanti in tutte le regioni del paese e hanno manifestato la loro totale lealtà nei confronti del Popolo, della Costituzione e della Patria. Chiedo la massima mobilitazione popolare per assicurare la vittoria della pace. Vinceremo!”)

Gli scontri sono proseguiti fino al giorno successivo con un tragico bilancio di quattro morti, fra cui due adolescenti, e un centinaio di feriti.

Lo stesso López è stato costretto a rifugiarsi nell’ambasciata cilena, dove ha chiesto asilo politico per sé e la sua famiglia. Maduro è poi apparso la sera in diretta televisiva attorniato dai suoi ministri e dai generali dell’esercito rimasti a lui fedeli dichiarando che il tentativo di “Colpo di Stato” era stato represso e che il Paese è ancora pienamente sotto il suo controllo.

Il Presidente venezuelano ha anche smentito di aver pianificato la propria fuga a Cuba e di aver desistito solo sotto richiesta delle autorità russe presenti in Venezuela.

L’equilibrio delle forze

Nonostante i proclami, il tentato e mancato colpo di Stato ha mostrato che Guaidó non ha il sufficiente appoggio all’interno dell’esercito per togliere il potere a Maduro. Lo slancio iniziale dell’autoproclamazione stava venendo meno, e per questo Guaidó ha forse accelerato un tentativo bluffando un po’ sulle reali forze in campo. Guaidó è appoggiato infatti da una frangia minoritaria dell’esercito, riconoscibile dai laccetti azzurri portati dai soldati attorno al proprio braccio.

Il suo punto di forza è nel riconoscimento che gli arriva da molti paesi stranieri, che però non intervengono concretamente come lui vorrebbe.

Dall’altra parte, Maduro continua ad avere il pieno controllo sui capi dell’esercito e il sostegno della Russia che comunque non sembra disposta a difenderlo con un intervento diretto delle proprie forze militari. Il clima rimane quindi molto incerto e entrambe le parti sembrano non sapere come dare una svolta alla situazione. Intanto, Leopoldo López si è spostato con la famiglia dall’ambasciata cilena a quella spagnola, nella speranza di ottenere una protezione internazionale che garantisca l’incolumità dei propri cari.

Il 9 maggio è stato invece arrestato a Caracas il vice Presidente del Parlamento Venezuelano Edgar Zambrano per l’accusa di alto tradimento e cospirazione per aver appoggiato il tentato golpe di Guaidó. I servizi segreti controllati dal governo hanno provato a prelevarlo con la forza dalla sua auto, senza però riuscire a farlo scendere dal veicolo. Le autorità hanno quindi usato una gru per sollevare di peso l’auto e portarla nel carcere della Capitale. Immediata la risposta di Guaidó su Twitter:

(“La dittatura ha rapito il vicepresidente dell’Assemblea Nazionale per mano della sua polizia politica. […] l’Assemblea è l’unico potere eletto che rappresenta il volere del popolo. Con questa azione l’usurpatore mira a colpire l’unica istituzione democratica legittimata dal voto popolare”.)

Anche gli Stati Uniti hanno condannato l’accaduto, promettendo ripercussioni per il governo venezuelano. Tuttavia, la situazione rimane in stallo, anche se Maduro continua a colpire duramente tutti gli alleati più vicini a Guaidó in patria.

Anche se sono in molti a scongiurare una tale eventualità, il rischio concreto è che solo un intervento esterno possa ribaltare la situazione a favore dell’auto-proclamato Presidente, mentre Maduro, pur evidentemente indebolito, continua a tenere salda la propria leadership sui capi dell’esercito, unica garanzia che gli permette di mantenere il controllo del Paese nell’attuale situazione.

La posizione dell’Italia

Dopo mesi di ambiguità e posizioni altalenanti sui fatti del Venezuela, il Governo italiano per bocca del Presidente Conte si è espresso in favore di Juan Guaidó, anche se non proprio in maniera netta. In una lettera pubblicata su La Stampa Conte afferma:

Riconosciamo legittima l’Assemblea Nazionale e il suo Presidente Guaidó. Il Presidente Maduro non ha invece legittimità democratica. L’Italia lavora sempre per l’opzione politica.

Rimane tuttavia cauto rispetto alla legittimazione dello stesso Guaidó come Presidente ad interim: “Il mio governo non l’ha riconosciuta, tuttavia, quale presidente ad interim del Paese, non solo per ragioni di ordine giuridico-formale, ma anche perché consapevole del rischio di contribuire alla radicalizzazione delle rispettive posizioni, favorendo la spirale di violenza con il risultato di rendere ancora più drammatica la condizione della popolazione.”

Una presa di posizione che quindi non scioglie del tutto il nodo del Governo italiano sulla posizione da assumere rispetto al Venezuela. Fra le varie potenze occidentali, l’Italia è stata l’unica a non schierarsi apertamente con il Presidente del Parlamento venezuelano e questo ha complicato i rapporti di politica estera anche con gli alleati.

Le dichiarazioni di Conte in risposta agli avvenimenti recenti non pare abbiano comunque convinto tutti e il nostro Paese rimane per molti ancora ambiguo rispetto all’atteggiamento assunto verso quello che sta succedendo in Venezuela.

Il filo

Conoscere quello che succede nel mondo ci rende persone più consapevoli. Ci aiuta a collocare le nostre vite dentro un contenitore più grande, una scatola di senso che ci mette in relazione con persone e contesti lontani eppure sempre più vicini. Ci fa capire meglio le ragioni di fenomeni che sono presenti anche nelle nostre vite, come le migrazioni e i viaggi.

Per questo abbiamo voluto aprire finestre sulla situazione politica, sociale ed economica di molti paesi del cosiddetto “sud del mondo”. Lo facciamo con un attento e costante lavoro di ricerca dei nostri autori e, quando possibile, raccogliendo informazioni di prima mano grazie a contatti che vivono e lavorano nei paesi che raccontiamo. Questo sguardo dal campo è possibile anche grazie alla collaborazione con l’Associazione Mekané, che si occupa di cooperazione internazionale e ha un’estesa rete di contatti con cooperanti in molti paesi. Buona lettura!

Africa: Tunisia, Algeria, Libia, Nigeria, Eritrea, Senegal, Mozambico, Sud Sudan, Zimbabwe.
Asia: Afghanistan, Pakistan, Siria.
Centro e Sud America: Venezuela, El Salvador, Guatemala, Haiti.

Cosa succede in Venezuela dopo la proclamazione di Guaidó

Il viaggio di Guaidó in America Latina

Dopo settimane di manifestazioni e botta e risposta a distanza con Maduro, l’auto-proclamato Presidente ad-interim ha deciso di provare a raccogliere i semi del proprio consenso internazionale per sbloccare l’apparente situazione di stallo politico a suo favore.

A fine febbraio 2019 Juan Guaidó è partito dal Venezuela, contravvenendo alla sentenza del Tribunale Supremo di Giustizia che gli impediva di lasciare il Paese, e ha iniziato il suo viaggio per l’America Latina in cerca di aiuto concreto da parte degli Stati vicini che avevano manifestato il loro appoggio alla sua causa.

Il suo tour lo ha portato in Colombia, Brasile, Paraguay, Argentina e Ecuador ma gli incontri istituzionali non hanno avuto l’effetto sperato: gli aiuti umanitari verso il Venezuela continuano a rimanere bloccati ai confini del Paese per volontà del governo centrale, che probabilmente teme in qualche modo un “Cavallo di Troia” di fattura statunitense, e nessuno degli interlocutori di Guaidó è parso disposto a partecipare concretamente a un eventuale intervento esterno per rovesciare Maduro.

Anche gli Stati Uniti rimangono cautamente in attesa, limitando la loro attività a semplice tramite diplomatico per il Presidente ad-interim.

Il ritorno di Guaidó in Venezuela

A inizio marzo Guaidó è tornato in gran segreto a Caracas, ma all’aeroporto ha trovato lo stesso un bagno di folla dei suoi sostenitori ad accoglierlo con tanto di bandierine con scritto “Yes, you can”.

Continuiamo per le strade, la mobilitazione continua! Siamo qui, in Venezuela!

ha esordito appena vista la folla. Per il momento Maduro ha deciso di non procedere all’arresto del leader dell’opposizione per evitare reazioni violente da parte dei suoi sostenitori e dare agli Stati Uniti un pretesto più o meno legittimo per un intervento diretto dopo gli avvertimenti delle ultime settimane.

Gli Stati Uniti hanno infatti promesso che in caso di minacce, violenze o intimidazioni aperte verso Guaidó vi sarà una “reazione rapida”, che non esclude anche un’opzione militare.

Subito dopo il suo rientro, Guaidó ha fatto sapere che viaggerà per tutto il Paese per raccogliere attorno a sé tutte le forze di opposizione e aumentare le pressioni per far rovesciare Maduro.

Nonostante le manifestazioni e l’impegno dell’opposizione, il governo di Caracas rimane infatti ancora saldo al suo posto forte ancora dell’appoggio dell’esercito e di un apparato burocratico che non trova al momento alcun interesse nell’appoggiare Guaidó.

Il blackout

Giovedì 7 marzo tutto il Venezuela è stato colpito da un grande blackout che ha lasciato al buio completo ben sedici Stati federali, con sei che invece mantengono solo una parziale distribuzione dell’energia elettrica.

Attorno alla vicenda non c’è ancora molta chiarezza e anche le informazioni sono frammentate. In un primo momento, il Senatore statunitense Marco Rubio aveva rilanciato la notizia di 80 neonati morti in un ospedale a causa del blackout. Notizia poi smentita dalle istituzioni e agenzie locali, mentre il deputato dell’opposizione venezuelana e medico José Manuel Olivares parla di 21 morti accertate.

Il governo, per bocca del ministro della Sanità Carlos Alvarado, ha smentito qualunque voce su pazienti ospedalieri morti a causa del blackout e ha sottolineato che si tratta di “notizie tendenziose che cercano di creare angoscia nella popolazione”.

La situazione rimane critica e al momento il governo non sembra in grado di rispondere velocemente in maniera efficace alla crisi. Dopo quasi una settimana, ancora buona parte del Paese rimane al buio e diverse compagnie aeree hanno cancellato voli diretti in Venezuela.

Juan Guaidó ha chiesto al Parlamento Venezuelano di dichiarare lo Stato di Emergenza Nazionale, mentre Maduro ha deciso di tenere chiuse scuole e uffici.

Le cause del blackout non sono ancora del tutto chiare: alcuni osservatori nazionali ed internazionali danno la colpa alla scarsa manutenzione e alla mancanza di investimenti da parte del governo nella rete di infrastrutture, mentre l’esecutivo parla di un vero e proprio atto terroristico ai danni della Nazione. Il ministro della Comunicazione Jorge Rodriguez ha fatto sapere che “con la forza della verità e della vita il brutale attacco terroristico contro il popolo. Insieme vinceremo!”.

È chiaro che il blackout è l’ennesima occasione per l’opposizione di evidenziare l’incapacità dell’attuale regime e fare pressione per sbloccare gli aiuti internazionali bloccati al confine. Per cavalcare la nuova ondata di malcontento, Guaidó ha chiamato a raccolta tutti i cittadini venezuelani a Caracas per l’ennesima grande manifestazione contro il governo di Maduro che “non ha idea di come risolvere la crisi elettrica che lui stesso ha creato”.

Guaidó e l’Italia

Nella sua ricerca di consenso internazionale, il Presidente ad-interim venezuelano ha inviato anche in Italia una delegazione che lo scorso febbraio ha incontrato il Ministro degli Affari Esteri Italiano Enzo Moavero Milanesi. Il governo italiano, infatti, è l’unico in Europa a non essersi apertamente schierato né con il regime di Maduro né con l’opposizione venezuelana.

L’ambiguità dell’Italia ha lasciati interdetti anche i membri della delegazione venezuelana in visita che al termine del vertice col ministro degli esteri hanno ribadito che

Il governo italiano non comprende la tragedia che vive il popolo venezuelano, la tragedia che stanno vivendo oltre centomila italiani in Venezuela.

Tramite la stessa delegazione, Guaidó ha fatto pervenire ai media italiani una lettera in cui manifesta tutta la sua perplessità sulle posizioni del governo:

“Con profondo sconcerto non comprendiamo le ragioni della posizione politica italiana. Non capiamo perché il Paese europeo a noi più vicino non prenda una posizione chiara e netta contro il dittatore Maduro e non chieda, con forza, libere elezioni, sotto l’egida della comunità internazionale, e lo sblocco degli aiuti umanitari. […] Siamo sicuri che il popolo italiano è dalla nostra parte, dalla parte della democrazia, della libertà e della giustizia. Abbiamo bisogno del sostegno italiano, abbiamo bisogno di una comunità internazionale coesa per costringere Maduro a fare un passo indietro, rispettare la nostra Costituzione e far sì che, in qualità di Presidente provvisorio, possa indire nuove elezioni. Abbiamo bisogno che l’Italia sia al nostro fianco”.

Cosa succede in Venezuela: gli avvenimenti di gennaio 2019

Le elezioni presidenziali del maggio 2018 avevano sancito la conferma di Nicolás Maduro alla guida del Paese, con il 67,7% di preferenze.

Solo il 46,1% degli aventi diritto si era però recato alle urne: rispetto alle elezioni del 2013, si è registrato un calo dell’80% dell’affluenza a causa soprattutto del boicottaggio portato avanti dalle opposizioni per protesta contro i metodi anti-democratici del Presidente uscente.

L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani aveva denunciato fin da subito la mancanza di trasparenza delle votazioni e alcuni stati – tra cui Stati Uniti, Canada, Brasile e Argentina – si erano affrettati a non riconoscere il risultato delle elezioni.

Lo scorso 10 gennaio Maduro si è quindi insediato per il suo secondo mandato presidenziale e nel Paese le proteste, mai veramente cessate in questi anni, si sono fatte più decise. Il 23 gennaio l’opposizione ha organizzato una manifestazione anti-governativa che ha richiamato nelle piazze di Caracas, Barquisimeto, Maracaibo, Barinas e San Cristóbal migliaia di cittadini stremati dalla crisi e dalla povertà dilagante in tutto il Venezuela.

Proprio durante la manifestazione, Juan Guaidó, uno degli ultimi leader dell’opposizione rimasti in libertà e da pochi giorni Presidente del Parlamento, si è auto-proclamato Presidente ad interim del Paese con tanto di giuramento davanti alla folla.

In nome della difesa della Carta Costituzionale, Guaidó ha voluto applicare l’articolo 233 della Costituzione venezuelana che conferisce al Presidente dell’Assemblea nazionale l’incarico di Presidente pro tempore nel caso in cui sia necessario tutelare l’ordine democratico e per convocare nuove elezioni libere.

L’obiettivo sarebbe quello di convincere Maduro a presentare le proprie dimissioni in maniera pacifica e guidare il Paese in una transizione democratica fino alla nuova consultazione elettorale.

Chi è Juan Guaidó

Ingegnere e figlio della classe media Venezuelana, Juan Guaidó fin da studente manifesta la propria opposizione al chavismo: fra il 2007 e il 2008 aderisce alle proteste studentesche contro Hugo Chávez, per poi fare carriera nel partito centrista e progressista di Leopoldo López, Voluntad Popular.

López è stato uno dei principali oppositori del regime venezuelano e dal 2014 si trova agli arresti domiciliari con l’accusa di aver causato la morte di alcuni manifestanti durante le prime violente proteste contro Maduro.

Nel corso di questi anni, la leadership del partito è quindi passata di mano in mano via via che i vari esponenti di rilievo o venivano arrestati o fuggivano dal Paese. Quando all’inizio dell’anno a Voluntad Popular è toccata la presidenza del Parlamento secondo la regola di rotazione interna, Guaidó era dunque rimasto fra i pochi in grado di ricoprire l’incarico.

Pochi avrebbero scommesso su un exploit del giovane e semi-sconosciuto leader 35enne: eppure già l’11 gennaio, appena un giorno dopo l’insediamento di Maduro, durante un comizio in una delle quotidiane manifestazioni anti-governative, aveva pubblicamente dichiarato di essere pronto ad assumere l’incarico di Presidente in quanto considerava Maduro un “usurpatore illegittimo”.

Dichiarazioni che si sono poi concretizzate durante la manifestazione del 23 gennaio, da lui stesso indetta e pienamente appoggiata da La Mesa de la Unidad Democrática, la coalizione che racchiude l’opposizione venezuelana.

Le reazioni alla mossa di Guaidó

Dopo l’annuncio dalla piazza di Guiadó, Maduro ha risposto affacciandosi dal balcone presidenziale rivolgendosi alla folla dei suoi sostenitori riuniti in una contro-manifestazione:

Siamo la maggioranza, siamo il popolo di Hugo Chavez. Siamo in questo palazzo per volontà popolare, solo la gente ci può portare via, è in corso un Colpo di Stato.

Il Presidente ha chiesto le immediate dimissioni di Guiadó e ha poi lanciato forti accuse di intromissione agli Stati Uniti. Ha dato un ultimatum agli USA invitandoli a ritirare i propri diplomatici dal Paese entro 72 ore, rompendo così “ogni relazione diplomatica e commerciale con il governo imperialista”.

Nel frattempo nelle piazze è scoppiato il caos con continui scontri fra manifestanti anti-governativi, sostenitori di Maduro e forze di polizia. Il bilancio più recente parla di 14 morti causati dalla repressione dei militari e, secondo quanto raccolto da El Mundo, sarebbero ben 218 arresti dall’inizio delle manifestazioni.

Mentre il Venezuela è in subbuglio, America Latina e Occidente si affrettano a prendere posizione in favore di Guaidó. Uno dei primi a manifestare il proprio sostegno al Presidente auto-eletto è stato Trump, tramite il suo account Twitter.

“I cittadini del Venezuela hanno sofferto troppo a lungo nelle mani del regime illegittimo di Maduro. Oggi riconosco ufficialmente il Presidente dell’Assemblea Nazionale Venezuelana, Juan Guiadó, come Presidente ad Interim del Venezuela.”

Poco dopo, manifestazioni di sostegno sono arrivate anche dai Paesi vicini, ormai da tempo preoccupati della situazione venezuelana e delle conseguenze catastrofiche portate dalla gestione di Maduro: Brasile, Paraguay, Colombia, Argentina, Perù, Ecuador, Cile, Guatemala e Costa Rica sono dalla parte di Guaidó.

Alla schiera di sostenitori si aggiungono anche Canada e Unione Europea, la quale ha manifestato la propria posizione tramite le parole del suo Alto rappresentante Federica Mogherini: “L’Ue chiede con forza l’avvio di un processo politico immediato che porti a elezioni libere e credibili, in conformità con l’ordine costituzionale. Il popolo venezuelano si è pronunciato in massa per la democrazia e per la possibilità di determinare liberamente il proprio destino. La sua voce non può essere ignorata. L’UE sostiene pienamente l’Assemblea Nazionale in quanto istituzione democraticamente eletta.”

Sul fronte internazionale pro-Maduro si sono apertamente esposti Messico, Cuba, Bolivia, Turchia, Cina, Russia, Siria ed Iran.

Particolarmente dure le parole di Mosca che, in una nota del ministero degli Esteri, arriva a delineare lo scenario da vera e propria guerra civile: “La deliberata formazione di un doppio potere porta direttamente al caos e alla distruzione delle basi dello Stato venezuelano. Condanniamo fermamente coloro che spingono la società venezuelana nell’abisso di una sanguinosa guerra civile.”

Forte sostegno personale anche dal Presidente turco Erdogan che, come riportato dal portavoce della presidenza turca, in una telefonata privata con Maduro avrebbe detto:

Fratello mio Maduro, tieni duro, ti stiamo accanto!

Cosa può succedere in Venezuela?

A poche ore dall’annuncio di Guaidó, è difficile prevedere cosa può succedere. Il Venezuela è in perenne subbuglio e le manifestazioni continuano incessantemente, come anche gli scontri con le forze dell’ordine.

Maduro non sembra voler indietreggiare di un passo e pare abbia dalla sua parte ancora sia l’esercito che i tribunali. Ma in una situazione del genere lo scenario può cambiare velocemente: il forte sostegno internazionale a Guiadó può spingere molti fedeli del Presidente a voltargli le spalle in cambio di un trattamento di favore nel caso la sua caduta appaia inevitabile.

Proprio per questo motivo, l’auto-proclamato Presidente ad Interim ha offerto l’amnistia sia a Maduro che “a tutti coloro che siano disposti a mettersi dalla parte della Costituzione per recuperare l’ordine istituzionale”.

Tutto il mondo rimane con gli occhi fissi sul Venezuela in attesa di vedere se Maduro e Guiadó riusciranno a trovare una soluzione pacifica o se la repressione armata del governo spingerà altri attori internazionali a intervenire per “ripristinare la democrazia”.

Cosa succede in Venezuela: Aggiornamento 12 marzo 2018

Le prossime elezioni in Venezuela

Le elezioni venezuelane si terranno il prossimo 22 maggio. I cittadini del Venezuela saranno chiamati a votare il nuovo Presidente dopo la riforma costituzionale di Maduro con la creazione dell’Assemblea Costituente, che lo scorso anno ha di fatto sostituito il Parlamento delle sue funzioni. Proprio a causa di questi presupposti, le opposizioni riunite sotto la MUD, Mesa de la Unidad Democratic, hanno deciso di boicottare la votazione e non presentare candidati. Secondo i loro portavoce a seguito dell’atteggiamento ostile di Maduro e delle poche garanzie offerte dal dittatore non ci sono i presupposti per delle elezioni regolari. Tuttavia, all’interno dell’opposizione non tutti la pensano allo stesso modo e si è creata una vera e propria spaccatura: in febbraio Henri Falcón, ex governatore dello stato di Lara, ha ufficialmente presentato la propria candidatura alle Presidenziali contro Maduro, atto che gli è costato l’espulsione dalla MUD.

A seguito dell’allontanamento, una piccola parte delle opposizioni è fuoriuscita dalla Mesa in suo sostegno per appoggiare la sua candidatura. Su richiesta di questa minoranza le elezioni sono state spostate al 22 maggio, mentre il termine iniziale era previsto per il 22 aprile. Il rinvio permetterà ai candidati dell’opposizione di avere più tempo per fare campagna elettorale e garantirà a milioni di venezuelani esiliati di registrarsi per votare dall’estero.

Non è da escludere che l’ONU riesca anche ad inviare i propri osservatori per vigilare sulla bontà del voto. Maduro ha già espresso da tempo la sua volontà di presentarsi per un nuovo mandato e il voto non si preannuncia troppo combattuto: i suoi principali avversari politici sono ormai da mesi in prigione, in esilio o interdetti a ricoprire incarichi pubblici. Alla scadenza della presentazione delle candidature, il 2 marzo, non si sono quindi presentati altri candidati contro il Presidente uscente, ma non è ancora chiaro se altre opposizioni della MUD stiano pensando di dare il proprio sostegno al fuoriuscito Falcón.

Una criptovaluta per evitare il default

A febbraio il Venezuela ha ufficialmente emesso la sua criptovaluta nazionale: il petro. L’idea nata in seno al governo venezualano per aggirare le dure sanzioni finanziarie imposte al Paese è diventata realtà sotto la forte spinta di Maduro stesso. Il piano prevede il conio di 100 milioni di petro, per un valore complessivo corrispondente di circa 6 miliardi di dollari. Ad ogni petro corrisponderà un barile di petrolio, il pilastro dell’economia venezuelana, e potrà essere usato e scambiato come tutte le altre criptomonete.

Sono in molti a dubitare della bontà dell’iniziativa, data la disastrosa situazione economica del Paese: l’inflazione del Bolivar, la moneta nazionale, è arrivata al 3.000 % e l’economia reale è al collasso completo. Lo scorso anno il Venezuela era già stato dichiarato in default dall’agenzia di rating Standard&Poor e solo l’intervento di Cina e Russia ha evitato la bancarotta. I più critici affermano che il Venezuela non sia neanche in possesso di tanto petrolio da poter garantire il valore del petro così come è stato pensato: si tratterebbe di greggio non ancora estratto dal pozzo Ayacucho 1 nell’Orinoco e per di più non in completa disponibilità per il governo, in quanto viene estratto da una joint venture di aziende private. Secondo Jorge Millan, deputato venezuelano e una delle voci più critiche della misura: “Il petro non è una criptovaluta, è una vendita forward del petrolio nazionale”.

Maduro starebbe starebbe quindi vendendo il petrolio venezuelano non ancora estratto ad un prezzo completamente fuori mercato per raccogliere moneta estera forte e contrastare il debito pubblico. La strategia del presidente ha l’obiettivo di aggirare le sanzioni imposte dagli USA che limitano il commercio di petrolio col Venezuela, di fatto il sistema di garanzia del petro viola comunque i termini delle sanzioni. Il Tesoro americano ha infatti già dichiarato che qualsiasi acquisto o scambio di petro verrà considerato dall’autorità come una violazione delle sanzioni imposte da Stati Uniti ed Europa, di quella che Maduro considera “una guerra sporca contro il Venezuela”.

Crisi umanitaria e violenze nel paese

Le violenze fra opposizione e forze governative non fanno altro che alimentare una situazione di crisi ormai apparentemente irreversibile. Nel 2017 si sono registrati 30 mila omicidi, di cui 6 mila solo a Caracas. Proprio la capitale nel 2017 è stata confermata come città più pericolosa del mondo. Alla violenza si aggiunge anche la piaga dei sequestri di persona col fine di ricatto: 400 denunce all’anno, con 16 mila casi totali secondo stime non ufficiali, per la maggior parte non denunciate per diffidenza verso le forze dell’ordine. Alla criminalità dilagante si aggiunge anche la crisi alimentare che da mesi sta colpendo il Venezuela.

I supermercati sono a corto di beni di prima necessità e molti cittadini non riescono neanche a permettersi di comprare cibo a causa dell’inflazione. Il governo sta cercando di contrastare la fame investendo sulla ridistribuzione di reddito: Maduro ha annunciato nuovi investimenti nel programma nazionale dei voucher alimentari, del salario minimo e delle tabelle salariali. Questo è già il secondo aumento del salario minimo introdotto quest’anno, ma i livelli di inflazione sono tali da azzerare comunque il potere di acquisto dei cittadini malgrado l’aumento di disponibilità economica.

A causa della scarsità dei beni di primaria necessità e della loro razionalizzazione, molti cittadini hanno cominciato a consumare cibo per animali, più economico e di facile reperibilità. Ci sono addirittura testimonianze che riportano consumi di carne di cane e gatto da parte delle famiglie più disperate. Migliaia di venezuelani, spinti allo stremo dalla fame e dalla paura, stanno emigrando nei Paesi limitrofi. La meta principale scelta dai migranti è la Colombia: si stima che ogni giorno circa 30.000 venezuelani varchino il confine colombiano, per un totale di circa 600.000 dall’inizio della crisi. Diverse realtà internazionali stanno cercando di aprire un ponte umanitario per cercare di aiutare la popolazione civile. Il governo di Caracas continua però negare l’esistenza di una crisi umanitaria e rifiuta gli aiuti esteri, addossando le colpe della povertà del Venezuela sulle sanzioni che gli USA e l’Europa hanno imposto al Paese.


5 link per saperne di +

1. Il + scioccante

Migliaia di Venezuelani in fila per fuggire dal Paese. Dal New York Post.

2. Il + avanti

Intervista di Formiche.net a Roger Santodomingo, giornalista e produttore venezuelano, che analizza gli scenari possibili per il Paese con o senza Maduro.

3.I + economici

Approfondimento sulla criptovaluta venezuelana da parte del Sole 24 Ore e del Guardian.

4.Il + animalista

Un’inchiesta de La Stampa racconta la situazione negli zoo venezuelani e di come la gente sia arrivata a mangiare il cibo dei propri animali da compagnia.

5.Il + filobolivariano

L’ex inviata del Manifesto Geraldina Colotti è stata recentemente in Venezuela e racconta una storia decisamente diversa dai media mainstream. Seguendo il suo profilo Facebook si possono avere tutte le informazioni su incontri ed eventi pro governo di Maduro. Qui un pezzo che attacca duramente l’opposizione a Maduro, definita impresentabile e corrotta.

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Cosa succede in Venezuela: Aggiornamento 15 novembre 2017

Pocket Nius: da sapere in breve

1. Il PSUV (Partito Socialista Unito del Venezuela, di cui Maduro è presidente) ha vinto nettamente le elezioni del 15 ottobre, portandosi a casa 18 governatori su 23. L’affluenza alle urne ha superato il 61%.

2. L’opposizione a Maduro continua a litigare e aumentano le divisioni dopo che quattro dei cinque governatori eletti nelle regionali hanno prestato giuramento davanti all’Assemblea Costituente per entrare in carica, smentendo nei fatti quanto dichiarato prima delle elezioni. Giurando davanti alla Costituente i governatori dell’opposizione l’hanno di fatto riconosciuta come legittima.

3. Nel 2018 si vota per eleggere un nuovo presidente: i litigi degli oppositori sembrano ridare a Maduro qualche chance di essere rieletto.

4. I movimenti di piazza e gli oppositori più radicali contro il presidente venezuelano non credono più nella soluzione pacifica e invocano un intervento (armato) straniero.

5. L’agenzia di rating Standard & Poor’s ha annunciato a sorpresa il ‘default selettivo’ del paese venezuelano per il mancato rimborso di 200 milioni di dollari di bond: una decisione con molte ombre che rischia di dare un ulteriore brutto colpo all’economia venezuelana e penalizza anche gli Stati Uniti. Ma il default potrebbe essere roba di un giorno, grazie all’intervento di Russia e Cina.

Le elezioni del 15 ottobre

Lo scorso 15 ottobre si sono tenute le elezioni amministrative venezuelane e il partito di Maduro ha vinto nettamente: 18 governatori su 23 sono stati eletti fra i fedelissimi del Presidente. L’affluenza alle urne ha superato il 61%, con almeno 10 milioni di votanti, una delle cifre più alte registrate negli ultimi 18 anni. L’astensione è rimasta comunque relativamente alta al 38,86%.
I partiti di opposizione hanno deciso di partecipare alle elezioni malgrado da mesi stessero contestando l’autorità del Presidente e non riconoscessero legittima l’Assemblea Costituente che da agosto ha esautorato del tutto il Parlamento venezuelano dei suoi poteri. Alcuni leader più radicali hanno fortemente spinto per boicottare le elezioni e questo ha diviso l’opposizione al suo interno ancora di più: i movimenti che da mesi manifestano nelle piazze hanno visto la partecipazione alle elezioni come una legittimazione indiretta delle istituzioni volute da Maduro, soprattutto perché per molti il risultato era già stato scritto. All’indomani della pubblicazione dei risultati, sono state infatti mosse da più parti accuse di brogli e di controlli poco affidabili ai seggi. Mesi di lotte vanificati da una legittimazione popolare al potere assoluto del Presidente hanno spinto i leader dei manifestanti a prendere le distanze dai partiti politici d’opposizione. Negli scontri dalla primavera ad oggi sono morte più di 120 persone e i feriti sono stato più di 2.000.

Le contraddizioni dell’opposizione

Il solco all’interno fra i partiti e i manifestanti si è fatto ancora più profondo quando quattro dei cinque governatori dell’opposizione eletti nelle regionali hanno prestato giuramento davanti all’Assemblea Costituente per entrare in carica. Questo atto rappresenta una grande contraddizione con quanto dichiarato fino a poco tempo fa: le opposizioni riunite avevano definito l’Assemblea “illegittima e illegale”, ma prestare giuramento davanti ai suoi eletti di fatto la legittima. Lo stesso leader di Azione Democratica, partito dei quattro governatori, Henry Ramos Allup aveva dichiarato prima delle elezioni: “Nessuno dei nostri candidati, se eletto governatore, presterà giuramento davanti a quella truffa incostituzionale che chiamano Assemblea Costituente”.

Le forti contraddizioni e le divisioni all’interno della coalizione anti-Maduro rischiano di avvantaggiare notevolmente il Presidente in vista delle elezioni presidenziali previste per il 2018. Sono diversi i leader e i movimenti che minacciano di uscire dal gruppo compatto di opposizione dopo il “tradimento” di Azione Democratica. Lo scorso 9 novembre l’Assemblea Costituente, inoltre, ha approvato la “legge contro l’odio”: chi diffonde messaggi che istigano alla violenza o all’odio attraverso televisione, radio o social media rischia una pena di 20 anni di carcere. Il provvedimento è accusato di voler mettere a tacere i movimenti più radicali rimasti tra le opposizioni contro il governo.

Soprattutto fra i movimenti di piazza vi è ormai la convinzione diffusa che non vi sia più speranza di mandare via Maduro e i suoi fedelissimi attraverso la via pacifica e democratica. In un’intervista a cura di Alberto de Filippis di Euronews, un portavoce dei “soldati di flanella” esprime un pensiero apparentemente molto diffuso fra i manifestanti: “Credo che ora come ora il dialogo sia impossibile. Credo in un intervento che sia degli Stati Uniti o dell’Onu, perché come abbiamo detto questo è un narcoregime e noi non abbiamo armi. A che cosa serve se ogni volta che scendiamo in strada uccidono 150 ragazzi, come se niente fosse? […] È impossibile cacciare un dittatore semplicemente dicendogli di andar via. Non voglio che arrivi qualcuno e uccida tutti, ma personalmente credo che l’unica possibilità per questo Paese sia che, non so, le forze dell’Onu, arrivino e arrestino i narcotrafficanti.” Gli esponenti del gruppo sono considerati dai venezuelani pro governo dei golpisti a tutti gli effetti. L’intervento straniero si è per ora limitato a manifestazioni di solidarietà da parte dell’Europa e all’imposizione di sanzioni finanziarie degli USA verso il Venezuela. Queste ultime sarebbero, inoltre, indicate da Maduro fra le cause dell’imminente prossimo default finanziario del Paese.

Il default

Lo scorso 4 novembre in un discorso trasmesso dalla televisione nazionale, Maduro ha annunciato “un rifinanziamento, una ristrutturazione del debito estero e di tutti i pagamenti che deve effettuare il Venezuela”. Il rimborso di circa 1,1 miliardi di dollari su un bond dell’azienda petrolifera statale Pdvsa, scaduto la scorsa settimana, è stato l’ultimo debito che il Venezuela ha onorato prima del tentativo di rinegoziazione del debito di questa settimana.

L’incontro che si è tenuto il 14 novembre  a Caracas fra il governo e i creditori non è però andato a buon fine: l’agenzia di rating Standard & Poor’s ha annunciato il ‘default selettivo’ per il mancato rimborso di 200 milioni di dollari di bond. Di queste cedole in scadenza 120 milioni sono state emesse dalla Repubblica del Venezuela mentre altri 80 milioni da Pdvsa. Il debito totale ammonta invece a ben 60 miliardi di dollari, che a questo punto potrebbero non venire più rimborsati con gravi danni per i creditori soprattutto americani e canadesi. Come fa notare Roberto Da Rin sul Sole 24 ore, ci sono diverse ombre su questa scelta dell’agenzia di rating, che ha riservato al Venezuela un trattamento molto diverso rispetto ad altri Paesi in situazioni ben più critiche. Ma i colpi di scena non finiscono mai e ad un giorno dall’annuncio di default pare che l’insolvenza sia rientrata grazie all’intervento di Cina e Russia.

Il Presidente Maduro fa ricadere i problemi finanziari del Venezuela sulle sanzioni finanziarie imposte dagli Stati Uniti: «Caracas ha sempre pagato fino all’ultimo centesimo, con grandi sacrifici, ed è nostra intenzione continuare a farlo, ma per questo deve cessare la persecuzione finanziaria delle banche e degli organismi internazionali». L’erede di Chavez ha anche aggiunto che il suo Paese non dichiarerà mai il default sul debito estero, malgrado le agenzie di rating lo considerino già di fatto insolvente. La tensione fra il governo venezuelano e i mercati finanziari quindi continua ad essere elevata e l’economia venezuelana sempre in caduta libera.


5 link per saperne di +

1. Il + filobolivariano

L’ex inviata del Manifesto Geraldina Colotti è stata recentemente in Venezuela e racconta una storia decisamente diversa dai media. Seguendo il suo profilo Facebook si possono avere tutte le informazioni su incontri ed eventi pro governo di Maduro.

2. Il + fotografico

Oscar B. Castillo è un fotogiornalista venezuelano che sta seguendo la crisi economica e politica del suo paese. Partecipa alle proteste dei manifestanti e agli scontri con la polizia; fa la fila con gli abitanti per ricevere i pasti e altri beni di prima necessità, e assiste ai funerali delle persone uccise durante le manifestazioni, ascoltando le parole dei loro amici e parenti.

3. Il + conigliesco

I conigli non sono solo dei “simpatici animali domestici” e in Venezuela possono contribuire anche all’alimentazione della gente: lo ha sottolineato il presidente Nicolas Maduro, nel presentare appunto un “Piano Coniglio” contro la crisi nel paese.

4. Il + riassuntivo

In un video di 7.30 Vox prova a riassumere i motivi della crisi venezuelana con un taglio più economico.

5. Il + internazionale

Il Guardian riporta il discorso del ministro degli esteri venezuelano all’Onu, in cui Jorge Arreaza ha accusato Trump di agire “come fosse l’imperatore del mondo”.


Cosa succede in Venezuela: Aggiornamento 3 ottobre 2017

Pocket Nius: da sapere in breve

1. Attorno al Venezuela si stanno riproponendo due fronti opposti che sanno un po’ di guerra fredda: gli Stati Uniti di Trump e i paesi Nato da una parte, contro Maduro, Cina, Russia e Iran dall’altra, a sostegno della Repubblica Bolivariana.

2. Dopo le sanzioni economiche decise da Trump contro il Venezuela, Maduro ha dichiarato che il paese sta abbandonando il dollaro in favore dello yuan cinese.

3. Proprio la Cina è tra i principali sostenitori del presidente in difficoltà: lo dimostrano gli accordi di cooperazione politica e le dichiarazioni di Pechino.

4. Sul fronte interno le cose non migliorano: il possibile tavolo di trattative tra governo e opposizioni è saltato.

5. La crisi umanitaria nel paese è forte: curiosa una delle soluzioni attuate dal governo, il Piano Coniglio. Però non sembra funzioni granché, dato l’amore dei venezuelani per i simpatici animaletti.

Le tensioni internazionali sul Venezuela

Lo scorso 25 agosto, gli Stati Uniti hanno imposto nuove sanzioni contro il Venezuela. L’iniziativa degli USA ha fatto seguito alle dichiarazioni di Trump che aveva promesso “azioni economiche” contro Nicolas Maduro. Le misure mettono al bando il trading del debito di Caracas: alle istituzioni finanziarie americane è stato impedito di comprare e vendere nuovi bond emessi dal governo venezuelano e da Petroleos de Venezuela, la compagnia petrolifera di Stato. Le sanzioni prevedono anche il divieto di gestire bond esistenti posseduti dal settore pubblico venezuelano e il pagamento di dividendi al governo stesso.

La stretta di Trump verso lo Stato sudamericano non si è limitata alla finanza: lo scorso 25 settembre il Presidente americano ha annunciato una nuova serie di restrizioni per i viaggiatori venezuelani diretti negli Stati Uniti. Le stesse restrizioni colpiranno le persone provenienti da Paesi identificati come “a rischio”: Somalia, Yemen, Syria, Libya, Iran, North Korea e Chad. Le nuove direttive riprendono sotto molti aspetti il “muslim-ban“, all’epoca dichiarato incostituzionale dalla Corte Suprema, ma mettono da parte la discriminazione religiosa prendendo in considerazione più generalmente i “nemici dell’America”.

Per rispondere alle prese di posizione USA ed evitare le sanzioni, il Venezuela ha cominciato ad abbandonare il dollaro come principale moneta di scambio per il petrolio. Maduro, al canale televisivo Telesur ha dichiarato:

Stiamo già vendendo petrolio e tutte le nostre merci utilizzando un paniere di valute e determiniamo il prezzo con gli yuan.

La scelta della moneta cinese non è un caso: negli ultimi tempi, la Cina si è rivelata un importante interlocutore per il Venezuela e il Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV) e il Partito Comunista Cinese (PCC) hanno recentemente stretto degli accordi di cooperazione politica. I primi risultati di questa inedita alleanza si sono visti già all’interno del Consiglio dei diritti umani della Nazioni Unite. La Cina è infatti fra i capofila dei 57 Paesi che hanno firmato una dichiarazione in supporto della sovranità e indipendenza del Venezuela:

Condanniamo ogni azione che violi la pace, tranquillità e la stabilità democratica e che minacci la sovranità, incluse le recenti minacce di un possibile intervento militare. Esprimiamo il nostro supporto per il governo costituzionale della Repubblica bolivariana del Venezuela nel suo impegno a preservare la pace e il mantenimento delle istituzioni democratiche del Paese.

Fra i firmatari spiccano, prevedibilmente, Paesi che non provano particolari simpatie per gli USA: Cuba, Cina, Bolivia, Russia, Iraq, Siria, Palestina, Libia, Ecuador, Vietnam, Sud Africa, Iran solo per citarne alcuni. Sembra che le dure dichiarazioni di Trump non abbiano fatto altro che polarizzare la tensione internazionale attorno al Venezuela, richiamando le attenzioni dei Paesi ostili all’America in difesa di Maduro.

Un dialogo interno difficile

Lo scorso 27 settembre, governo venezuelano e opposizione avrebbero dovuto presentarsi a un tavolo conciliatore in Repubblica Dominicana alla presenza di una delegazione di conciliazione delle Nazioni Unite. Ma l’incontro è andato deserto a causa del passo indietro fatto dai quattro partiti d’opposizione Acción Democrática, Un Nuevo Tiempo, Primero Justicia e Voluntad Popular riuniti nel Tavolo dell’Unità Democratica (Mud nella sua sigla in spagnolo). Secondo il comunicato rilasciato dal Mud e diramato ai cancellieri del Messico, Cile, Paraguay, Bolivia, Nicaragua e Repubblica Dominicana

Non c’è un ambiente propizio per continuare le conversazioni.

Secondo le opposizioni, il governo venezuelano non avrebbe fatto niente di quanto richiesto per avviare un nuovo dialogo, sopratutto riguardo alla liberazione dei prigionieri politici. Dopo l’ennesimo tavolo di riconciliazione saltato, è difficile immaginare gli sviluppi della situazione: Maduro continua ad accusare l’opposizione di macchinare contro il Paese con l’aiuto degli USA, mentre i rappresentanti del Mud considerano il Presidente venezuelano ormai alla stregua di un vero e proprio tiranno. E nel caos politico più totale, a pagare il prezzo più alto sono, come sempre, i civili.

La crisi umanitaria

Moltissimi cittadini venezuelani stanno cercando di sfuggire alla fame prendendo d’assalto il confine con la Colombia: è stato stimato 25.000 persone al giorno attraversino il Ponte Internazionale Simon Bolivar che collega i due Paesi. Nel tentativo di contribuire a risolvere la crisi umanitaria, il governo colombiano ha rilasciato una sorta di permesso di mobilità transfrontaliero, che consente ai venezuelani di entrare in Colombia senza passaporto. Pare che le richieste pervenute a Bogotà ammontino già a 700.000. Le stesse statistiche ufficiali di Caracas parlano di 300.000 persone trasferitesi nel Paese confinante dall’inizio della crisi.

L’incapacità del governo venezuelano nel far fronte alla situazione si è fatta ancora più palese dopo la presentazione del così detto “Piano coniglio” promosso dal Presidente Maduro. In un intervento televisivo, il Presidente venezuelano ha invitato la popolazione ad attuare l’allevamento domestico di conigli per far fronte alla crisi alimentare:

I conigli hanno un peso pari a 2,5 chilogrammi di peso di carne con alta proteina, e senza colesterolo. […] Inoltre, si riproducono come… conigli.

La distribuzione degli animali in supporto all’avvio del “Piano coniglio” era iniziata in quindici località sparse su tutto il territorio nazionale, ma ben presto ci si è resi conto che il progetto stava naufragando velocemente. Il ministro dell’agricoltura Freddy Bernal ha imputato il fallimento a problemi di origine culturale: nelle comunità dove sono stati inviati i coniglietti, le famiglie si sono affezionate agli animali e si sono rifutate di mangiarli. Per rispondere a questo fallimento, sarebbe già stata sottoposta al vaglio del ministro una nuova strategia di comunicazione, che comprende anche dei cartoni animati, per trasmettere l’idea che i conigli “non servono a tenere compagnia ma a saziare la fame”.


Cosa succede in Venezuela: Aggiornamento 14 agosto 2017
Lo scorso 30 luglio in Venezuela si sono tenute le elezioni per l’elezione dell’Assemblea Costituente incaricata di riscrivere la Costituzione chavista del Paese. Il giorno delle elezioni si sono verificati violenti scontri fra i manifestanti dell’opposizione e la polizia che hanno provocato la morte di 14 persone. Tutto questo sotto l’occhio impassibile del governo che continua a definire la situazione “normalizzata” malgrado le quotidiane scene di guerriglia urbana.

La nuova costituente

Venerdì 4 agosto si è insediata la nuova Assemblea Costituente del Venezuela, voluta dal Presidente Nicolas Maduro ma fortemente osteggiata dalle opposizioni. L’Assemblea è composta da 545 membri, tutti apparentemente allineati alla condotta del Presidente venezuelano, come ha riportato il the Guardian. La costituente è così composta: 181 membri su 545 sono rappresentanti eletti di determinati gruppi sociali (pensionati, indigeni, contadini e studenti); i 364 membri rimanenti sono stati eletti attraverso le elezioni organizzate nei distretti municipali. I candidati totali erano circa seimila. Per quanto riguarda l’affluenza, secondo i dati rilasciati dal governo, avrebbe votato il 41,5% degli aventi diritto, pari a 8 milioni di persone. Secondo l’opposizione, che aveva chiesto di boicottare il voto, il tasso di astensione avrebbe invece raggiunto addirittura l’88%. Anche la società che ha gestito il voto discorda con le cifre rilasciate dal governo, ma ancora non sarebbero stati diffusi altri dati. Dal giorno delle elezioni la tensione è cresciuta in tutto il Paese: 14 sono stati i morti provocati dagli scontri e fra loro anche il candidato alla costituente per l’opposizione Jose Felix Pineda Marcano, ucciso nella propria abitazione. Gli avversari di Maduro hanno alzato prepotentemente la voce dopo i fatti gravi del 30 luglio, ma la repressione non si è placata: oltre agli scontri in piazza, i due leader dell’opposizione Antonio Ledezma (sindaco di Caracas) e Leopoldo López sono stati portati via dai servizi segreti venezuelani due giorni dopo il voto e costretti nuovamente agli arresti domiciliari.

L’opposizione internazionale

Dalla prigionia, Leopoldo Lopez ha invitato la comunità internazionale a non riconoscere legittima la nuova Assemblea Costituente e a prestare il proprio supporto nella resistenza a Maduro. Molti Paesi dell’America Latina hanno accolto l’appello di Lopez prendendo le distanze dall’iniziativa del Presidente colombiano: Messico, Colombia, Perù, Argentina e Cile parlano infatti di voto “illegittimo”. Anche gli Stati Uniti hanno condannato le violenze e stanno valutando l’ipotesi di imporre sanzioni contro l’industria petrolifera venezuelana. Gli USA sono i primi importatori del greggio venezuelano e una stretta commerciale rischierebbe di peggiorare ancora di più un’economia ormai più vicina che mai al collasso. Il portavoce del Dipartimento di Stato, Heather Nauert in una nota ufficiale ha espresso la posizione della Casa Bianca rispetto alla crisi venezuelana:

L’America prenderà misure ferme contro i membri del Governo venezuelano e il resto degli architetti dell’autoritarismo nel Paese, inclusi i partecipanti all’Assemblea Costituente come risultato dell’elezione di ieri. Esortiamo i governi di tutto il mondo a prendere misure energiche per fermare coloro che minano la democrazia, negano i diritti umani e sono responsabili della violenza e della repressione o partecipano a pratiche corrotte.

Anche il Presidente Trump è intervenuto sulla questione e non ha usato mezzi termini per definire la posizione dell’America nei confronti del Presidente Maduro:

Abbiamo molte opzioni per il Venezuela, e non escludo l’opzione militare. Il Venezuela non è così lontano dai, e la gente nel paese sta soffrendo e morendo.

La dichiarazione, rilasciata al termine di un incontro con il segretario di Stato Rex Tillerson e l’ambasciatore USA all’Onu Nikki Haley, e il rifiuto di Trump a un colloquio telefonico con Maduro, hanno provocato una spaccatura diplomatica fra Stati Uniti e Venezuela. Secondo il ministro della difesa venezuelano Vladimir Padrino:

La minaccia degli Usa di utilizzare la forza in Venezuela è una pazzia. Si tratta di un atto folle, di un atto di supremo estremismo.

A condannare la condotta di Maduro è anche il Vaticano. La Santa Sede, su volontà di Papa Francesco e per mano della sua Segreteria di Stato, ha rilasciato un comunicato ufficiale in cui si chiede apertamente al Presidente venezuelano di fare un passo indietro: nella nota viene espressa “profonda preoccupazione per la radicalizzazione e l’aggravamento della crisi” e viene chiesto di “evitare o sospendere le iniziative in corso come la nuova Costituente”. La nota fa anche presente che Papa Francesco “segue da vicino tale situazione e i suoi risvolti umanitari, sociali, politici, e anche spirituali”.

Gli oppositori di Maduro continuano a mobilitarsi e sembra che alcuni militari abbiano tentato di rovesciare Maduro con un vero e proprio Colpo di Stato. Domenica 6 agosto viene diffuso on-line un video dove il capitano Juan Caguaripano annuncia la rivolta militare contro “la tirannia assassina di Nicolás Maduro” col sostegno di diversi ufficiali e truppe attive. Poco dopo la pubblicazione del video, un gruppo di soldati venezuelani ha attaccato una base militare di Valencia, nel nord-ovest del paese, apparentemente come primo atto di rivolta. I militari lealisti del governo di Nicolas Maduro sono riusciti tuttavia a difendere la base militare, bloccando l’insurrezione e arrestando sette persone. Diversi esponenti del governo venezuelano hanno riportato la vicenda come vero e proprio “attacco terroristico”.

Le prime mosse della nuova Costituente

Appena dopo l’insediamento, la nuova Assemblea Costituente si è attribuita poteri assoluti scavalcando l’autorità di tutte le altre cariche dello Stato. L’assemblea ha eletto come proprio Presidente Delcy Rodriguez, ex ministra degli Esteri e forte sostenitrice di Maduro. Eletta all’unanimità, la Rodriguez ha definito “fascisti” quelli che si oppongono a Maduro e ha affermato che l’Assemblea si rifiuterà di subire “interferenze straniere”. Inoltre, la costituente ha subito confermato Nicolas Maduro come Presidente, Capo di Stato e di governo e Comandante in Capo delle Forze armate nazionali.

Il primo atto dell’assemblea è stata la rimozione con voto unanime della procuratrice generale Luisa Ortega Diaz, unica carica dello Stato rimanente in aperto contrasto col Presidente. Il suo incarico sarà ricoperto da Tarek William Saab, molto più allineato con la strada indicata da Maduro. Secondo le dichiarazioni del Presidente Venezuelano, la Costituente rimarrà in carica per i prossimi due anni col compito di redigere una nuova Costituzione e, nel frattempo, sostituire di fatto il Parlamento nelle sue funzioni principali.

Questa è una dittatura

è stato il commento di Luisa Ortega l’indomani delle elezioni e poco prima di essere destituita dal suo incarico. Le violente proteste di strada contro Maduro durano ormai da quattro mesi e sono costate la vita ad almeno 120 persone. Tuttavia, il leader venezuelano continua a godere di una forte popolarità fra i suoi sostenitori e della lealtà dei generali, che gli garantisce la totale immunità nei confronti degli oppositori interni.


Cosa succede in Venezuela: Aggiornamento 25 giugno 2017
Le proteste nelle piazze contro il Presidente Maduro non si sono mai interrotte da aprile e il bilancio delle vittime continua a salire: dall’inizio delle manifestazioni, secondo i dati della Procura Generale, sono già morte 66 persone. Maduro continua a rimanere saldo alla guida del Paese nonostante il Parlamento sia da mesi controllato dall’opposizione. Nel frattempo, i Paesi dell’OSA (Organizzazione degli Stati Americani) si sono riuniti per discutere la crisi venezuelana.

Venezuela: proteste e violenze senza fine

L’ultima vittima degli scontri fra manifestanti e forze governative è stato Neomar Lander, 17enne ucciso lo scorso 25 maggio da un proiettile che lo ha raggiunto al petto. La morte di Neomar ha scosso profondamente l’opinione pubblica del Paese. La Chiesa venezuelana ha preso posizione, condannando apertamente l’atteggiamento delle forze dell’ordine nella gestione delle proteste.

Il numero di manifestazioni nate spontaneamente in tutte le città venezuelane è aumentato esponenzialmente nell’ultimo mese con l’aggravarsi della crisi umanitaria: secondo i dati diffusi a maggio, negli ultimi tre anni la mortalità infantile é aumentata del 30% e la mortalità per parto o problemi in gravidanza é del 65%. Per una donna in venezuelana mettere alla luce il proprio figlio è di fatto diventato un pericolo e due terzi dei Venezuelani riescono a mala pena a fare due pasti al giorno.

Il fatto che le proteste siano scoppiate non solo nelle grandi città, da sempre principali motori di attivismo fin dai tempi di Chavez, ma anche e sopratutto nei piccoli centri urbani e nelle periferie, è indice di quanto la situazione si sia fatta disperata. Le migliaia di cittadini scesi in piazza non hanno più niente da perdere e le minacce della polizia non servono a placare i morsi della fame.

La posizione di Maduro

Il Presidente venezuelano ha recentemente scritto una lettera a Papa Francesco in cui chiede al Santo Padre di fare di mediatore nel conflitto istituzionale scoppiato con l’opposizione. La situazione rimane in stallo, con Maduro saldamente attaccato al potere e le opposizioni unite nella MUD che cercano una via istituzionale per destituirlo.

In questo caos più totale, al momento è la Procuratrice generale Luisa Ortega Diaz a dover garantire il corretto funzionamento della macchina istituzionale. All’inizio di quest’anno, la Diaz aveva fatto ritirare dalla Corte Suprema la sentenza con cui esautorava il Parlamento dalle sue funzioni e recentemente ha chiesto il rinvio a giudizio di ben otto magistrati della Suprema Corte.

Il commento della procuratrice all’iniziativa riprende quanto molti aspetti già espressi in occasione del ritiro della sentenza:

Non può accadere che la Corte Suprema dica: ‘Oggi non mi piace l’Assemblea Nazionale e la cancello’, domani, ‘Non mi piace la Procura generale e la cancello e via dicendo. Sarebbe la morte della legge se permettiamo a questi giudici di rimanere in carica perché hanno cercato di smantellare lo Stato.

La procuratrice generale ha più volte evidenziato che tale provvedimento ha il puro scopo di tutelare “la salute istituzionale del Paese”. In risposta all’iniziativa della Diaz, Maduro all’inizio di maggio ha lanciato la convocazione di un’Assemblea costituente per cambiare la Costituzione in una direzione più “chavista”.

Il Presidente sa bene che non ha alcuna speranza di essere rieletto e il rinvio delle elezioni non potrà perdurare ancora molto col mantenimento dello Stato di emergenza. Per questo motivo sta cercando di sfruttare la sua attuale posizione per cambiare le regole del gioco a suo favore. Le sue intenzioni sono ormai chiare per tutti: l’attuale Costituzione del Venezuela fu scritta da Chavez in persona e da lui stesso definita “la migliore del mondo”.

Provare a cambiare un’eredità così importante lasciata dal suo venerato predecessore è una chiara manifestazione della sua volontà di non voler lasciare la guida del Paese. Da questa consapevolezza è scaturito l’inasprimento e l’escalation di violenza nel Paese. Le elezioni per scegliere i delegati per l’assemblea costituente sono state fissate per il 10 luglio, anche se le opposizioni stanno richiedendo con fermezza il ritiro del provvedimento. Non è ancora chiaro quale sarà la partecipazione dei cittadini e se i manifestanti permetteranno l’apertura dei seggi. Se la situazione non dovesse distendersi nei prossimi giorni, l’election day rischia di diventare un pericoloso palcoscenico per le proteste e la repressione violenta della polizia venezuelana.

Le posizioni internazionali

L’Organizzazione degli Stati Americani (OSA) sta monitorando la situazione in Venezuela, ma non ci sono al momento prospettive per un intervento diplomatico esterno. Quattordici Paesi capeggiati dal Messico hanno presentato la propria proposta, nella quale si chiedeva al Presidente Maduro di “riconsiderare” la propria iniziativa di riforma costituzionale. La proposta di dichiarazione non è però riuscita a raccogliere i 23 voti necessari (su 35) per essere adottata dall’Assemblea: hanno votato a favore 20 Paesi, 5 contrari e 8 astenuti.

Il rappresentante venezuelano ha volontariamente abbandonato l’assemblea prima del voto, dichiarando che i Paesi stranieri non hanno diritto di prendere decisioni riguardo il futuro del Venezuela.

Un’altra proposta, in cui si promuoveva l’apertura di un canale politico di dialogo con Caracas, era stata presentata anche dal gruppo delle nazioni dei Caraibi. Questa ha però ottenuto solo l’appoggio di 8 Paesi, segno che anche gli altri Stati sudamericani non riescono a definire una linea comune per rispondere alla crisi politica e umanitaria in corso in Venezuela.


Cosa succede in Venezuela: Aggiornamento 1 maggio 2017

Dalla crisi umanitaria alle accuse di golpe verso Maduro. Il Venezuela sta attraversando un periodo di grande incertezza, macchiato anche dal sangue dei manifestanti oppositori del governo. Cerchiamo di capire perché la situazione è degenerata e quali sono state le reazioni della politica internazionale.

Venezuela: cronologia della crisi

Dal dicembre del 2015 il Parlamento venezuelano è controllato con un’ampia maggioranza (167 a 112) dall’opposizione del Presidente Maduro, saldo alla guida del Paese solo grazie allo stato di emergenza. La crisi economica in Venezuela è da tempo degenerata in una vera e propria crisi umanitaria e Maduro ha più volte dimostrato di essere inadatto a gestire la situazione. Per questo motivo, nel marzo di quest’anno è stata presentata in Parlamento una mozione per la messa in stato di accusa di Maduro che viene approvata con un’ampia maggioranza. Ma il Presidente detiene ancora un ampio controllo sulle istituzioni e la sua reazione non tarda ad arrivare. Alla fine di marzo una sentenza della Corte Suprema, il Tribunale Supremo di giustizia, esautora il Parlamento delle sue funzione, lasciando pieni poteri al Presidente Maduro. Questa la motivazione dell’Alta Corte:

Siccome il Parlamento si ribella e oltraggia le deliberazioni del presidente, le sue competenze saranno esercitate direttamente dal Tribunale Supremo.

A poche ore dalla sentenza, arriva l’inaspettato dietrofront: la procuratrice generale del Venezuela Luisa Ortega Diaz, figura di spicco fra gli eredi spirituali di Chavez, prende netta posizione contro la sentenza bollandola come “una chiara rottura dell’ordine costituzionale”. Spinto dall’alta considerazione di cui gode la Diaz anche fra i suoi sostenitori, Maduro convoca il Tribunale supremo di giustizia in piena notte per spingerlo a revocare la sentenza con la quale si era attribuito i poteri del Parlamento. Malgrado il Presidente abbia cercato di minimizzare le conseguenze dello scontro istituzionale, le opposizioni si sono riunite in protesta assieme ai cittadini organizzando manifestazioni in tutte le piazze del Venezuela per chiedere le dimissioni di Maduro e nuove elezioni.

Le elezioni che non arrivano

Forte dei suoi poteri straordinari, Maduro ha in tutti i modi cercato di rimandare le elezioni amministrative che avrebbero dovuto svolgersi nel 2016 e non ha permesso agli oppositori di tenere i propri comizi elettorali previsti per le elezioni presidenziali. Il pieno controllo sul Tribunale superiore elettorale gli ha permesso di rallentare le procedure amministrative e ostacolare la presentazione dei candidati avversari. Malgrado il suo mandato finisca formalmente nel 2018, l’intenzione di Maduro è sempre stata quella di non tornare alle urne per paura della pesante sconfitta già preannunciata dai sondaggi. Dopo la sconfitta alle elezioni parlamentari del 2015, l’obiettivo è restare al potere evitando di offrire occasioni di confronto all’opposizione e grazie al sostegno strategico dei militari.

L’Organizzazione degli Stati Americani (Osa), che riunisce molti Paesi del Sud America, era intervenuta sulla questione: un dossier presentato da Luis Almagro (ex cancelliere dell’Uruguay e segretario dell’Osa) e ratificato da una ventina di Paesi, sosteneva che Maduro aveva tenuto un comportamento apertamente antidemocratico e vi era la richiesta di sospensione del Venezuela dall’organizzazione. Anche il Parlamento venezuelano in mano all’opposizione aveva ratificato il dossier, provocando l’ira del Presidente e la sua dura reazione che ha poi portato l’intervento del Tribunale Supremo. In questa situazione insostenibile il provvedimento contro il Parlamento è stata la scintilla che ha fatto scoppiare le proteste e le accuse di golpe.

Le manifestazioni anti-governative sono ormai all’ordine del giorno e si sono fatte molto più accese dopo la sentenza di l’ineleggibilità per 15 anni decisa dal Tribunale Supremo elettorale nei confronti di Henrique Capriles, uno dei principali leader dell’opposizione. L’inasprimento delle proteste e la loro persistenza hanno scatenato la dura reazione del governo. Ad aumentare la tensione ci sono state anche le iniziative violente dei colectivos, bande armate nate con Chávez per la difesa della rivoluzione bolivariana, che in più di un’occasione si sono opposte con violenza ai manifestanti. Dopo tre settimane ininterrotte di manifestazioni con scontri fra civili, forze dell’ordine e colectivos, il bilancio delle vittime confermate è salito a 28: buona parte di loro sono giovani studenti. Il rischio più che mai concreto è che la situazione degeneri portando a uno stato di vera e propria anarchia nelle strade venezuelane.

Le reazioni internazionali

Dopo l’inizio degli scontri, il consiglio direttivo dell’Osa si è riunito a Washington per ideare un progetto di risoluzione. La proposta messa in campo preve un vertice fra i ministri degli Esteri dei Paesi dell’Organizzazione per trattare la crisi venezuelana. Il governo di Maduro da parte sua non vuole permettere ingerenze estere sui problemi interni. Per questo motivo, Caracas ha iniziato le procedure per uscire dall’Osa e per voce della Ministra degli Esteri, Delcy Rodríguez, ha motivato l’iniziativa:

L’Osa ha insistito con le sue azioni intrusive contro la sovranità della nostra patria e dunque procederemo a ritirarci da questa organizzazione. […] La nostra dottrina storica è segnata dalla diplomazia bolivariana della pace, e questo non c’entra niente con l’Osa.

Il Parlamento Europeo ha espresso la sua posizione attraverso una risoluzione che condanna la “brutale oppressione esercitata dalle forze di sicurezza venezuelane e dai gruppi armati irregolari contro le proteste pacifiche in Venezuela”, mentre gli USA hanno riconosciuto il Venezuela come fattore “destabilizzante” nell’America Latina.

Un’ultima speranza per trovare una via di mediazione fra governo e opposizioni sembra arrivare direttamente dal Vaticano. Il ministro degli Esteri argentino Susana Malcorra ha sostenuto un colloquio privato con Papa Francesco per capire se ci sono margini per percorrere questa strada. Il Pontefice avrebbe aperto la possibilità di un suo intervento solo nel caso vengano rispettate le condizioni poste dal cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, già bocciate in passato dal governo di Maduro: il permesso all’invio di assistenza sanitaria internazionale, la presentazione di un calendario elettorale chiaro e vincolante, la restituzione dei poteri al Parlamento e la liberazione di tutti i prigionieri politici. Gli stessi punti erano stati ripresi dall’Osa come punto cardine del vertice fra ministri prima dell’abbandono del Venezuela.

La situazione in venezuelana è in continua evoluzione. L’emergenza umanitaria sembra essere passata in secondo piano rispetto ai problemi della politica e la gente che scende in piazza a protestare finisce nel mirino delle bande armate. Gli altri Paesi dell’America Latina si stanno impegnando per trovare una soluzione pacifica, ma l’intransigenza del governo di Caracas e l’evidente inconsistenza della leadership di Maduro rendono difficile trovare interlocutori disposti a scendere a compromessi. Governo e opposizione si stanno affrontando nelle sedi istituzionali, apparentemente sordi al massacro che si sta compiendo nelle strade.


Cosa succede in Venezeula: Aggiornamento 6 giugno 2016

Supermercati vuoti, inflazione galoppante e manifestanti in piazza: questa è ormai la normalità in Venezuela da qualche tempo a questa parte. La sconfitta alle elezioni parlamentari del dicembre 2015 ha messo in grave crisi la leadership di Nicolas Maduro, che non sembra più in grado di tenere le redini del Paese. Ma come si è arrivati ad una situazione tanto tragica?

Una crisi fondata sul petrolio. Le principali cause della crisi sono dovute al graduale abbassamento di prezzo che da qualche anno il petrolio sta subendo: fino a poco prima della morte di Chavez, il Venezuela riusciva ad esportare il proprio petrolio vendendolo a 100 dollari a barile, contro i 40 dollari registrati nell’ultimo anno. L’economia venezuelana si è finora interamente basata sull’esportazione di petrolio e i forti scossoni che il mercato del greggio ha subito hanno fortemente limitato le entrate in dollari che tenevano a galla il Paese. Per riuscire ad uscire dalla crisi con l’attuale assetto economico, secondo alcune stime degli economisti del Wall Street Journal, il petrolio venezuelano dovrebbe essere venduto a 121 dollari al barile. Un prezzo a dir poco fuori dal mercato. Ad aggravare ancor di più la situazione è stato il prolungato periodo di siccità che ha colpito il paese negli scorsi mesi. Riservando il petrolio esclusivamente per le esportazioni, il Venezuela ha basato la propria fornitura energetica sulle risorse idroelettriche. La mancanza d’acqua ha però comportato un grosso problema di fornitura e i cittadini si sono visti addirittura razionare l’elettricità.

Contromisure inverosimili. Per rispondere alla profonda crisi, il Governo ha adottato una serie di misure drastiche alle volte ricorrendo a espedienti al limite dell’assurdo. Ad esempio, per risparmiare energia elettrica i dipendenti pubblici lavorano attualmente solo due giorni alla settimana. Sempre per il problema legato alla scarsità di energia elettrica, gli orologi nel Paese sono stati spostati mezz’ora avanti per guadagnare luce naturale. O ancora, sono stati imposti prezzi fissi ai generi di prima necessità talmente bassi che i negozianti hanno incentivato la creazione di un vero e proprio di mercato nero dove poter vendere i prodotti ad un più alto prezzo di mercato, lasciando completamente vuoti gli scaffali propri negozi. Addirittura, in certi casi, si arriva a negare l’esistenza dei problemi.

La situazione negli ospedali. Come hanno dimostrato diverse inchieste giornalistiche di quotidiani venezuelani, la situazione di molti ospedali pubblici è al limite: non ci sono più antibiotici, guanti sterili e gli strumenti per intubare; in alcune strutture i medici devono usare i loro smartphone per guardare le lastre, data la mancanza di pc con schermi ad alta definizione o degli appositi pannelli luminosi; i chirurghi spesso devono lavarsi le mani con l’acqua gasata o, i più fortunati, addirittura l’acqua tonica dei cocktail. In questa situazione, l’ovvia mancanza di posti letto rappresenta quasi un problema secondario. Maduro cerca di rassicurare (infelicemente) i cittadini:

Dubito che in qualsiasi altro paese del mondo, a eccezione di Cuba, esista un sistema sanitario migliore del nostro

Vende oro. Per cercare di risollevare le sorti dell’economia, Governo ha provveduto a vendere in questo 2016 già 1,7 miliardi di dollari in oro, dopo averne smobilizzato un altro miliardo nel corso del 2015. L’accumulo di così tanta moneta straniera, al cambio attuale, ha dato un’importante boccata di ossigeno ma è tutt’altro che sufficiente a sanare i debiti e far ripartire l’economia. Per questo l’esecutivo ha cercato di mettere una forte stretta sulle importazioni: bloccare l’arrivo di prodotti esteri per rilanciare la produzione locale. Peccato che buona parte delle industrie venezuelane siano dedicate al petrolio, il più grande settore di guadagno nel Paese, e che le poche imprese dedicate alla produzione di beni primari siano troppo poche per soddisfare il fabbisogno dell’intera nazione. Questo ha contribuito alla scarsità di forniture dei supermercati e alla formazione del già citato mercato nero parallelo per sfuggire al controllo dei prezzi del Governo.

Il debito pubblico e l’inflazione. Nel frattempo, i titoli di Stato venezuelani stanno diventando merce succulenta per gli speculatori finanziari: i tassi di interesse sono arrivati a toccare il 40% e la rigida etica venezuelana sul ripagare i debiti contratti rappresenta una garanzia sufficiente ad allontanare lo spettro dell’insolvenza negli investitori. Proprio per scongiurare un disastro simile a quello argentino del 2005 e garantire la risoluzione dei debiti, la banca centrale venezuelana sta continuando a svalutare la moneta fino al punto tale da non avere più i soldi neanche per stampare nuove banconote. Per il 2016 con le stime attuali si prevede un tasso di inflazione vicino al 500% e un deficit pubblico al 17% del Pil. Ormai i cittadini venezuelani girano per le strade con zaini pieni di cartamoneta che vale quasi meno della carta su cui è stata stampata.

Le responsabilità di Maduro. Che il successore designato di Chavez non sia più in grado di tenere le redini del Paese appare chiaro ormai anche agli uomini a lui più vicini. In effetti la sua leadership non è mai stata all’altezza del predecessore e alla fine del 2015 si è confermata la sua disfatta politica. Lo scorso dicembre in Venezuela si sono svolte le elezioni per rinnovare il Parlamento e le opposizioni si sono tutte schierate compatte contro l’attuale Presidente. Nel conteggio finale, la formazione di Maduro è uscita malamente sconfitta con le opposizioni che hanno conquistato ben 122 seggi su 167. Per la prima volta dopo 17 anni di controllo incontrastato dei socialisti, la maggioranza del Parlamento è in mano all’opposizione. Maduro è finora riuscito a rimanere alla guida del Paese grazie alla situazione di stato di emergenza proclamata nel corso del 2015, ma le forze parlamentari stanno facendo quanto in loro potere per destituirlo del suo incarico di Presidente: oltre all’ostruzionismo ad oltranza, gli oppositori stanno anche raccogliendo le firme per un referendum che dovrebbe decidere se interrompere il mandato presidenziale prima della sua fine naturale, all’inizio del 2019. Per indire il referendum è necessario raccogliere le firme del’1% dell’elettorato in ciascuno dei 23 stati venezuelani. Le firme dovranno poi essere verificate dal Consiglio elettorale venezuelano, un organo indipendente sulla carta ma che di fatto è controllato dal governo.

Stallo e incertezza. La politica venezuelana sta affrontando un momento di stallo ed è del tutto ferma a causa degli scontri fra Parlamento e Presidente. A Maggio Maduro ha dichiarato un nuovo stato di emergenza senza l’approvazione del Parlamento, accollando le colpe della crisi alle potenze straniere e al capitalismo. Nella situazione attuale di emergenza, l’erede di Chavez può intervenire nell’economia pubblica e privata senza dover passare per l’aula parlamentare, oltre a poter usare l’esercito per la distribuzione del cibo e per garantire la sicurezza dello Stato.


Cosa succede in Venezuela: Aggiornamento 28 agosto

Il 5 Marzo del 2013 Hugo Chávez muore dopo mesi di malattia, lasciando il suo Venezuela nelle mani del suo vice-presidente Nicolas Maduro. In questi due anni, il Paese si trovato ad affrontare una crisi economica alla quale non era preparato e a farne le spese è stata soprattutto la popolazione. Maduro è accerchiato dagli avversari sempre più agguerriti, ma un alleato insperato potrebbe venire in suo aiuto nel prossimo futuro. Vediamo chi è.

Cosa succede in Venezuela: il dopo-Chávez e la crisi economica

All’inizio del 2013 Nicolas Maduro assume il ruolo di Presidente venezuelano ad interim dopo il ritiro di Chávez dalla vita politica a causa del progredire della sua malattia. Le iniziative del neo-Presidente conservano il carattere democratico-socialista della linea chavista, ma ben presto queste risultano inefficienti a causa dell’aggravarsi di una crisi economica che, fino a quel momento, aveva toccato solo in parte l’economia venezuelana. In Aprile si svolgono le prime elezioni dopo la morte di Chávez. Con il 50,78% dei voti a favore, Maduro riesce a battere lo sfidante di destra Henrique Capriles Radonski e viene riconfermato alla guida del Paese malgrado le accuse di inadeguatezza ricevute durante il suo mandato ad interim. Poco dopo le elezioni, si registrano primi disordini provocati dai movimenti studenteschi coadiuvati dai partiti d’opposizione di destra. I manifestanti insistono sull’incapacità del nuovo governo di combattere l’inflazione (arrivata al 56%) e protestano per la mancanza dei beni di prima necessità, che saranno posti sotto razionamento prima della fine dell’anno. Ad alimentare il dissenso si aggiungono poi il caos finanziario, dovuto al doppio regime di cambio del bolivar, la corruzione diffusa negli apparati statali, il tasso di criminalità altissimo e la stagnazione dell’economia centralizzata dovuta alle esportazioni del petrolio in calo. Le proteste vengono sedate violentemente dalla Guardia Nacional Bolivariana, con numerosi arresti di studenti e leader dell’opposizione. La repressione violenta provoca anche diverse vittime civili: fra febbraio e maggio, perdono la vita ben 43 manifestanti negli scontri con le forze dell’ordine.

Pur essendo evidenti le responsabilità del governo, l’esecutivo scarica parte della colpa della crisi sulle grandi imprese private in mano ai sostenitori della destra all’opposizione: a quanto pare, molte aziende boicotterebbero volontariamente le iniziative governative destinando al mercato nero dei Paesi limitrofi buona parte dei beni di largo consumo che, invece, sarebbero riservati alla vendita al pubblico nazionale a prezzi fissati secondo le politiche socialiste del governo. Uno scontro fra poteri forti statali e privati che sta privando la popolazione di risorse basilari. Durante tutto il 2014, l’esecutivo di Maduro è riuscito a mantenere il controllo della situazione grazie soprattutto all’amicizia dei militari e all’ampliamento delle politiche di Welfare in continuità con le iniziative portate avanti da Chávez nel passato. Questo ha però causato un costo non indifferente in termini di spesa pubblica: il Welfare delle misiones chivatiste (lotta alla povertà e all’analfabetismo, politiche per la casa e il lavoro) è arrivato a impegnare il 60,7% dell’intero bilancio statale e ha ridotto le riserve di liquidità nelle case dello Stato. A questa criticità si sono poi aggiunti gli effetti del rigido sistema di cambi voluto da Chávez nel 2003, secondo il quale tasso di cambio ufficiale dollaro-bolívar imposto (1$=6,3 bolivar) è oggi fino a 10 volte inferiore a quello reale (1$=64 bolivar) in vigore nel mercato nero. La situazione ha creato grossi problemi alle imprese, in quanto il Venezuela importa il 57% di ciò che consuma, comprese le materie prime. Il Paese ha deciso di puntare le sue risorse principalmente sull’esportazione di petrolio, che conta ben il 95% dell’export, limitando fortemente le possibilità per le altre produzioni industriali. Molte aziende hanno così iniziato vendere di contrabbando le proprie merci negli Stati vicini, dando riscontro alle accuse del governo: incassando in dollari dal mercato nero queste possono acquistare direttamente le materie prime nel mercato internazionale con la stessa valuta senza dover passare dallo svantaggioso sistema di cambio fisso nazionale.

Alla scarsità dei beni di prima necessità, i cittadini soffrono anche per il proliferare della violenza incontrollata fra gli stessi civili. Secondo la ong Observatorio venezolano de violencia, ci sono 79 omicidi ogni 100 mila abitanti, indice otto volte superiore alla soglia dell’Onu che definisce gli Stati vittima di “violenza epidemica” (10 omicidi ogni 100 mila). La situazione critica è principalmente dovuta alla debolezza dei governi locali e alla diffusa corruzione in queste piccole amministrazioni. La giustizia privata prevale il più delle volte su quella legittima dello Stato. Una spiegazione più profonda può essere trovata nell’approccio che la popolazione ha rispetto al problema della delinquenza: la Lapop (Latin american public opinion project) evidenzia come il 40% dei sudamericani appoggia l’idea che le autorità debbano violare le leggi quando perseguono un criminale, mentre il 27% pensa che andrebbe depenalizzata la giustizia fai da te, anche in caso di conseguenze gravi.

@info7-mx

La situazione oggi

Il calo dei prezzi del petrolio e il mancato reinvestimento di ampi fondi per l’estrazione di idrocarburi nel Paese, hanno fortemente pesato sulla crescita economica del Venezuela: il Pil nel 2014 è sceso del 2,6% con l’esportazione di petrolio fortemente ridimensionata rispetto al 2013. La leadership di Maduro continua a essere messa in discussione dall’opposizione e anche all’interno della popolazione, la sua popolarità è sempre più in calo. Nel febbraio del 2015, è stato arrestato, il sindaco dell’area metropolitana di Caracas, Antonio Ledezma, accusato di cospirazione contro il governo. L’evento ha suscitato non poche polemiche e riportato l’attenzione internazionale nel Paese dopo la dura repressione delle proteste del 2014. Lo scorso Aprile, il Presidente venezuelano ha inoltre denunciato un presunto tentativo di golpe che avrebbe ricevuto il sostegno degli Stati Uniti. Non è chiaro se Maduro abbia maturato una sorta di paranoia riguardo la propria posizione o se veramente vi sono dei piani segreti per sostituirlo senza far precipitare la nazione nel caos. Una buona parte della popolazione è delusa dalla sua esperienza di governo e anche i “vicini” Stati Uniti non sembrano soddisfatti della sua gestione.

Gli USA sono noti per la loro forte ingerenza nei confronti dei governi sudamericani. Già dopo gli episodi del 2014, la Casa Bianca aveva emanato un decreto presidenziale che definiva la nazione latino-americana come una minaccia per la sicurezza nazionale e solo di recente Obama e Maduro sono tornati lavorare su un potenziale disgelo dei rapporti reciproci. Secondo le parole del Presidente venezuelano, rilasciate durante un’intervista a TeleSUR, le due nazioni stanno già discutendo sulle dimensioni che avranno le future rispettive ambasciate, sui compiti e sulla cooperazione in diverse aree. Oltre a questi, in dei meeting organizzati fra i rappresentanti di entrambi i Paesi, si sono aggiunti altri temi chiave sul tavolo della discussione: il rispetto del diritto internazionale da parte di Caracas (riferito agli impegni economici e ai diritti umani) e alla possibilità che i due paesi lavori insieme nell’ambito dell’iniziativa PetroCaribe. Questa era stata avviata dall’allora presidente Hugo Chávez e prevede l’impegno del Venezuela nel rifornire di greggio le nazioni centro americane e caraibiche a prezzi particolarmente favorevoli. La distensione dei rapporti con gli USA potrebbe essere una buona occasione per Maduro per trovare un nuovo appoggio internazionale e rilanciare la propria figura di leader. Il sostegno degli USA garantirebbe al Presidente venezuelano uno scudo contro altri tentativi di golpe e l’apertura di nuovi mercati preferenziali al nord servirebbe a rilanciare le esportazioni di petrolio, fulcro dell’economia del Paese. Vista la storia del Venezuela (e del Sudamerica in generale) è difficile prevedere quali possano essere le conseguenze nel lungo periodo di un eventuale sodalizio con gli USA, soprattutto per quanto riguarda la reazione degli chavisti anti-imperialisti più intransigenti.

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