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Sud Sudan, un genocidio dimenticato

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@Africa Renewal

In Sud Sudan la guerra civile si è trasformata in una vera e propria pulizia etnica, che ha costretto centinaia di migliaia di sfollati a fuggire verso l’Uganda. La comunità internazionale offre aiuti e propone soluzioni politiche, ma gli interessi legati al petrolio e l’odio millenario fra le etnie dinka e nuer sono ostacoli apparentemente insormontabili per la diplomazia.

Pocket Nius: da sapere in breve

1. Dal 2013 il Sud Sudan è dilaniato da una guerra civile fra l’etnia dinka (al governo) e nuer (oppositori).
2. Il conflitto si è tramutato in un’opera di pulizia etnica da parte delle forze governative, seguita dai massacri operati degli oppositori.
3. Negli anni sono nate nuove piccole fazioni locali che si contendono controllo il dei territori con il petrolio.
4. L’Onu è presente nel Paese con 14mila caschi blu, ma i militari non sono un deterrente sufficiente ad evitare i massacri.
5. I civili riescono a sopravvivere solo grazie agli aiuti umanitari internazionali e almeno un terzo della popolazione è sfollato

Il conflitto tra dinka e nuer

Dal 2013 ad oggi la guerra civile fra dinka e nuer non si è mai fermato. Il Paese, ricco di petrolio, è quotidianamente attraversato da battaglie per il controllo del territorio fra le forze governative del Presidente Salva Kiir e le milizie armate degli oppositori vicine all’ormai ex-vice Presidente Rieck Machar. Ma, col tempo, quella nata come una guerra civile per il governo del neonato Paese, si è trasformata in una vera e propria pulizia etnica: secondo le fonti di Amnesty International, le forze governative di Kiir (di etnia dinka) hanno in più occasioni colpito deliberatamente la popolazione civile di etnia nuer. In appoggio all’esercito si sarebbero uniti anche folti gruppi di milizie locali fra cui “Mathiang Anyoor”, organizzazione militare capillare che dai tempi dell’indipendenza ha sempre perseguitato le minoranze nuer della regione. Per rappresaglia, anche i gruppi armati dell’opposizione nuer hanno compiuto diversi massacri fra i dinka nelle zone strappate al controllo governativo. Secondo Adama Dieng, consigliere speciale ONU per la prevenzione dei genocidi, non si tratterebbe più solo di dinka contro nuer, ma di gruppi di potere locali che combattono per il controllo del petrolio in territori ristretti:

Quello che prima era un esercito indisciplinato diviso tra dinka e nuer è ora un corpo senza forma fatto da diversi gruppi armati, bande di criminali e delinquenti di ogni tipo su cui il governo non esercita alcun tipo di controllo.

A risentire dell’instabile situazione politica è anche l’economica: con lo scoppio della guerra civile, la produzione di petrolio è diminuita passando dai 245 mila barili del 2013 ai 160 mila di oggi. Il PIL, che era cresciuto rapidamente dopo l’indipendenza, è ormai crollato mentre l’inflazione quest’anno è arrivata al 370%, secondo i dati del Fondo Monetario Internazionale. Le poche voci di entrata del bilancio statale, vengono utilizzate dal governo principalmente per sostenere le spese di guerra.

Cosa sta facendo l’ONU in Sud Sudan?

Nel 2016 l’ONU ha inviato 14mila suoi militari in supporto alla popolazione, ma la presenza dei caschi blu non è bastata a contrastare gli incessanti abusi sui civili. A ottobre Nikki Haley, rappresentante permanente alle Nazioni Unite degli Stati Uniti, si è recata in Sud Sudan per osservare come gli aiuti provenienti dagli USA venissero utilizzati dalle Ong sul territorio. Durante la visita a un campo profughi, la diplomatica americana è stata costretta a fuggire dopo lo scoppio di una violenta sommossa anti-governativa. A seguito dell’episodio, la stessa Haley ha manifestato la delusione degli Stati Uniti nei confronti del governo sudsudanese da sempre politicamente appoggiato da Washington: dal giorno dell’indipendenza nel 2013, gli USA hanno versato circa 10 miliardi di dollari e da soli coprono più di un quarto di tutti gli aiuti internazionali che arrivano al Paese ogni anno. Le dichiarazioni dell’ambasciatrice non lasciano però dubbi:

Gli Stati Uniti sono pronti a intraprendere ulteriori misure contro il governo se non agiranno per porre fine alla violenza e alleviare le sofferenze nel Sud Sudan.

Emergenza umanitaria: carestia e crimini di guerra

Secondo i dati dell’ONU, a causa dello scoppio della guerra civile, circa 100mila sud-sudanesi sono stati colpiti da una grave carestia, mentre il 40% della popolazione ha bisogno in maniera continuativa di cibo e assistenza. Alcuni funzionari hanno affermato che le autorità sudsudanesi hanno volutamente bloccato gli aiuti umanitari diretti verso alcuni determinati territori. Accuse poi smentite dal governo stesso. Altri operatori, invece, riportano testimonianze di attacchi verso convogli umanitari da parte sia delle forze governative che dei ribelli. Le notizie che trapelano ai media internazionali sono però molto spesso frammentate e poco attendibili: molti dei crimini non vengono raccontati a causa delle pessime condizioni in cui si trovano i media nazionali e per le difficoltà a raccogliere le testimonianze. Strade e linee di comunicazione sono in buona parte state distrutte negli scontri e molte parti del Paese sono ormai quasi irraggiungibili. Vi è anche una forte influenza sulla popolazione da parte delle fazioni in gioco attraverso i social network, con la creazione di notizie false che rendono più complicate una lettura esatta della realtà. Nel febbraio di quest’anno, l’ONU ha tolto il Sud Sudan dalla lista dei Paesi afflitti da carestia. È però dimostrato che questo fatto è dovuto all’ingente aumento degli aiuti umanitari pervenuti nella regione, piuttosto che a una normalizzazione della produzione alimentare. In molte regioni, infatti, permane carenza di cibo e le Ong fanno ancora fatica a intervenire nelle aree più isolate. Questo ha portato la una situazione di precarietà senza precedenti: negli ultimi sei anni, circa 4 milioni di abitanti (un terzo della popolazione) è sfollato e solo i più fortunati sono riusciti a raggiungere e trovare asilo nella vicina Repubblica Democratica del Congo o in Uganda, uno degli Paesi più accoglienti del mondo per i migranti.


5 link per saperne di +

1. Il + accurato

Il reportage di Pietro del Re su Repubblica.it sulle condizioni dei civili in fuga dalla guerra.

2. Il + critico

Gli orrori della pulizia etnica in Sud Sudan e il fallimento dell’Onu: Antonella Napoli sull’Huff Post analizza la situazione africana e le responsabilità dell’Onu.

3. Il + storico

Internazionale ripercorre le tappe storiche del conflitto in Sud Sudan.

4. Il + accogliente

Sul post un approfondimento sull’Uganda, lo stato più accogliente del mondo.

5. Il + vicino

5 milioni di persone rischiano di morire per mancanza di cibo: la testimonianza di padre Daniele Moschetti raccolta da Radio Vaticana.


23 dicembre 2016

Dal 2013 in Sud Sudan è in corso una sanguinosa guerra civile che è costata la vita a più di 50 mila persone e ha portato più di 2,3 milioni di persone a lasciare le proprie case. Nel silenzio della stampa internazionale, impegnata nel seguire le vicende del Medio Oriente e della Siria, nel “paese più giovane del mondo” è in corso un vero e proprio massacro. Cerchiamo di capire qual è la situazione e come si è arrivati a questo punto.

Un Paese diviso

Nel 2011 il Sudan del Sud ottiene l’indipendenza dopo uno storico referendum che ha sancito la separazione del Paese con circa il 99% dei consensi dei sud sudanesi. Il referendum fu proposto a seguito dell’accordo di pace raggiunto nel 2005 fra il Movimento per la liberazione del Sudan e il presidente del Sudan Omar al-Bashir. Ruolo fondamentale nelle trattative è stato svolto dalle potenze occidentali, in primis gli Stati Uniti: sulla forte pressione delle lobby cristiane sul Congresso, gli USA hanno contribuito in maniera considerevole nella stesura degli accordi. Già prima dell’effettiva separazione, il Sudan era di fatto diviso in due: il Nord a maggioranza musulmana, prevalentemente desertico ma con importanti sbocchi sul mare di Aden e snodo principale degli oleodotti per il trasporto del greggio, e il Sud a maggioranza cristiana, assente di infrastrutture e sbocchi geografici verso i mercati del petrolio ma con l’80% dei pozzi sfruttabili dell’intero Paese. Attraverso l’indipendenza, l’obiettivo dei governanti era quello di creare una solida alleanza commerciale fra le due regioni del Paese: senza il Sud il Nord avrebbe perso la sua riserva di petrolio, mentre il Sud senza il Nord non sarebbe mai stato in grado di poterlo esportare. I proventi derivanti dalla vendita del greggio sarebbero stati spartiti in parti uguali. La cosa più importante era evitare nuovi conflitti e sfruttare al meglio le risorse della regione. Ma, una volta concretizzato l’accordo e diviso il Paese, le latenti fratture fra i diversi gruppi etnici del Sudan sono brutalmente tornate in primo piano.

Sud Sudan: i dinka e i nuer

A capo del neonato Sudan del Sud venne eletto Salva Kiir, importante esponente dell’etnia dinka presente nella regione. Allo scopo di appianare la rivalità e sanare le fratture all’interno della nazione, Kiir nominò Rieck Machar, dell’etnia nuer, come suo vice-presidente. La scelta si è ben presto rivelata controproducente, in quanto Machar era da più parti accusato di aver guidato nel 1991 il brutale massacro in cui furono uccisi duemila civili dinka nella città di Bor. Invece di stemperare il clima, la scelta del presidente contribuì ad aumentare la tensione che è esplosa infine in rivolta nel dicembre del 2013: i soldati di etnia dinka, fedeli a Kiir, iniziarono a perseguitare nella capitale i civili di etnia nuer, provocando la violenta reazione dei soldati nuer, che impugnarono le armi allo scopo di deporre il presidente Kiir sotto la guida del vice-presidente Machar. A seguito dei primi scontri, i soldati nuer e il loro leader furono costretti a fuggire dalla capitale Juba, ma gli scontri sono continuati imperterriti per i successivi due anni. Nel 2015, sotto la pressione delle Nazioni Unite, venne presentata la proposta per un accordo di pace che viene in seguito firmato sia da Kiir che dalle forze ribelli.

Il fallimento della pace

Come previsto dall’accordo, nel luglio 2016 Machar è rientrato a Juba per assumere nuovamente la carica di vice-presidente. Nel farlo, però, ha portato con sé il suo esercito di seguaci, militarizzando di fatto la capitale. Anche Kiir si è adoperato per boicottare il trattato, impedendo a Machar di assumere il governo di due delle dieci regioni del Paese. Da questa incerta situazione di potere sono ben presto emersi anche problemi più concreti: si è palesata l’incapacità governativa di affrontare la grave crisi economica del Paese, la scomparsa di circa un miliardo di dollari dalla banca centrale a causa delle spese di guerra, il crollo del prezzo del petrolio nel mercato internazionale, unica ricchezza della nazione, e l’inflazione è arrivata a superare anche il 300%, il tasso più alto al mondo. Lo stallo politico e lo stato di apparente abbandono delle amministrazioni ha in breve tempo portato allo scoppio di nuovi scontri fra le due fazioni, presto degenerate in un vero e proprio nuovo conflitto. In questi ultimi mesi, Machar ha lasciato il Paese spostandosi fra Congo, Sudan e Sudafrica, continuando tuttavia a coordinare dall’estero le proprie truppe.

L’emergenza umanitaria

Nel rapporto stilato dagli inviati delle Nazioni Unite si denunciano le condizioni per identificare quanto succede in Sud Sudan come genocidio: incitamento all’odio, repressioni ai danni della libertà di informazione e della società civile e profonde divisioni tra le diverse etnie. Secondo quanto riportato da Adama Dieng, senegalese consigliere speciale Onu per la prevenzione dei genocidi:

Le violenze potrebbero aumentare attraverso un’ottica etnica in vista di un possibile genocidio. Sono chiare le violazioni del coprifuoco da parte di tutte le fazioni e la totale mancanza di responsabilità per i terribili atti commessi. Quello che prima era un esercito indisciplinato diviso tra dinka e nuer, è ora un corpo amorfo fatto da diversi gruppi armati, gang di criminali e banditi di ogni tipo su cui il governo non esercita alcun tipo di controllo.

Tuttavia, secondo il presidente Kiir interpellato dalla stampa internazionale:

Non è così. Non c’è alcuna pulizia etnica in Sud Sudan.

Per rispondere alla crescente crisi umanitaria, l’Onu starebbe adesso valutando l’ipotesi di inviare i caschi blu per garantire che il cessate il fuoco e gli accordi presi vengano rispettati da entrambe le parti. Anche il Congresso degli Stati Uniti sta discutendo l’applicazione di un embargo per impedire il rifornimento di armi al Sud Sudan. Entrambe le iniziative che sembrano rispondere all’appello disperato di Ellen Margrethe Løj, a capo della missione Onu in Sud Sudan (Unmiss), che nel suo rapporto denuncia:

Il popolo del Sud Sudan ha sofferto davvero tanto e per troppo tempo. Le vittime di questo conflitto nutrono ancora delle speranze e hanno grandi aspettative nei confronti della comunità internazionale. Tutti quelli coinvolti, specialmente i leader sudsudanesi, non devono perdere di vista l’obiettivo finale: pace e prosperità per il futuro del Paese.

Il filo

Conoscere quello che succede nel mondo ci rende persone più consapevoli. Ci aiuta a collocare le nostre vite dentro un contenitore più grande, una scatola di senso che ci mette in relazione con persone e contesti lontani eppure sempre più vicini. Ci fa capire meglio le ragioni di fenomeni che sono presenti anche nelle nostre vite, come le migrazioni e i viaggi.

Per questo abbiamo voluto aprire finestre sulla situazione politica, sociale ed economica di molti paesi del cosiddetto “sud del mondo”. Lo facciamo con un attento e costante lavoro di ricerca dei nostri autori e, quando possibile, raccogliendo informazioni di prima mano grazie a contatti che vivono e lavorano nei paesi che raccontiamo. Questo sguardo dal campo è possibile anche grazie alla collaborazione con l’Associazione Mekané, che si occupa di cooperazione internazionale e ha un’estesa rete di contatti con cooperanti in molti paesi. Buona lettura!

Africa: Tunisia, Algeria, Libia, Nigeria, Eritrea, Senegal, Mozambico, Sud Sudan, Zimbabwe.
Asia: Afghanistan, Pakistan, Siria.
Centro e Sud America: Venezuela, El Salvador, Guatemala, Haiti.

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