La politica è subalterna alla finanza? I mercati riducono gli spazi di democrazia?20 min read

17 Luglio 2018 Economia Politica -

La politica è subalterna alla finanza? I mercati riducono gli spazi di democrazia?20 min read

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folla di persone con maschere, folla anonima,
@Pixabay

In seguito alla crisi istituzionale sfiorata in Italia tra i partiti vincitori delle elezioni e il presidente della Repubblica Mattarella abbiamo deciso di provare a fare chiarezza nella grande confusione con degli approfondimenti sul rapporto tra mercati, spread, debiti e stati e sul perché l’Italia sia esposta a improvvise tempeste finanziarie. Questi tentativi sono stati apprezzati da voi lettori, che tra blog e social network ci avete rivolto una serie di domande e critiche a cui il nostro collaboratore risponde. Buona lettura!

È giusto che la politica resti subalterna nelle sue decisioni alle spietate leggi della finanza? C’è una via di uscita?

La politica è subalterna alla finanza nella stessa misura in cui un qualunque debitore, che ha bisogno di continua liquidità, è subalterno ai propri creditori. Soprattutto se il debitore è sepolto dai debiti. Se un privato ha un debito, lo deve ripagare. Senza la fiducia generale che i debiti vengano pagati, l’intera economia si ferma. Certamente, se il privato entra in gravissime difficoltà, magari per cause a lui non imputabili, è imperativo che l’ordinamento preveda forme di solidarietà e preservazione della dignità di costui. Salvo questi casi, un privato non può indebitarsi per somme insostenibili, vivendo al di sopra delle proprie possibilità, e poi dolersi se nessuno gli presta più denaro ed è costretto a dichiarare bancarotta.

Un debitore che per una malattia o per la perdita del lavoro non ha denaro per far vivere la propria famiglia, va aiutato dalle leggi di un ordinamento democratico. Allo stesso modo, se questo accade a uno Stato, per gravi congiunture, è necessario che i creditori non impongano misure draconiane lasciandolo perire. Ma se uno ha comprato dieci Ferrari a debito, sostenendo di essere ricco e truccando i conti, e poi non riesce a pagare, e i creditori foste voi che andate in giro con un’utilitaria, come la vedreste se lui si lamentasse dicendo di essere vittima di mercati spietati?

Per il rapporto fra politica e finanza, il tema è simile, se non uguale. Le leggi della finanza, prima che spietate, sono ovvie: i debiti si pagano. Innanzitutto c’è un punto di partenza: è lo Stato a chiedere denaro in prestito. Nessuno gli infila soldi a forza nelle tasche. Quindi, prima di vedere i mercati e gli investitori come degli avidi aguzzini che spolpano il proprio debitore, bisogna chiedersi che tipo di politiche mette in pratica il debitore stesso: quanto si indebita, per che cosa, quanta sostenibilità sul lungo termine hanno i suoi investimenti e, appunto, i suo debiti. Se un debito è sostenibile, se ci sono entrate che assicurano il pagamento delle somme prese a prestito e c’è stabilità, il debito non è un problema.

Tutti gli Stati al mondo hanno debito. Come quasi tutti i privati. Il problema sta nella serietà e sostenibilità delle scelte e delle politiche messe in atto. La via d’uscita per un debitore schiacciato dai debiti è innanzitutto di non arrivare a quel punto. E per non arrivare a quel punto deve essere in grado di ridurre le spese non necessarie e gradualmente, anche a piccolissimi passi, ridurre il proprio debito. Così facendo, potrà continuare a ottenere prestiti senza rischiare di fallire. In altre parole, la via d’uscita è il “sentiero stretto”, già imboccato in Italia da Padoan: stabilizzazione dei conti, aumento della produttività e limitato ricorso a nuovo debito. Per far scendere il rapporto debito/PIL, serve un delicato equilibrio: la somma di crescita nominale del PIL e avanzo statale primario deve essere superiore alla quota di interessi da pagare.

Esistono debiti che è giusto non pagare?

Esistono due temi fondamentali che è utile menzionare. Il primo è quello del debito intergenerazionale. Questa teoria, o per meglio dire questo fenomeno, si riferisce alla pratica della politica di non cercare – eventualmente con misure potenzialmente impopolari – di ridurre il debito e quindi la pressione dei creditori, bensì di guadagnare facile consenso elettorale promettendo grandi spese (con soldi che non si hanno, e quindi facendo debito). Che importa, tanto a pagare saranno generazioni future, che non votano alla prossima tornata elettorale. Finché la politica ragiona così – su tanti temi, incluso ad esempio quello ambientale – il problema è la politica, non i creditori.

Il secondo tema è quello del cosiddetto debito odioso (odious debt). Con questa definizione ci si riferisce a quel debito pubblico che opprime solitamente paesi in via di sviluppo, sommersi dalle conseguenze di scelte scellerate dei propri governanti, corrotti o despoti. In questi casi è giusto che, una volta deposti i regimi, i cittadini non siano tenuti a pagare, e che i Paesi creditori concedano la riduzione o la cancellazione del debito.

Per situazioni di questo genere e altre simili esiste anche un organismo deputato, il Club di Parigi. Quest’ultimo è un gruppo informale di organizzazioni finanziarie dei 22 paesi più ricchi del mondo, che procede ad una rinegoziazione del debito pubblico dei Paesi del Sud del mondo che hanno gravi difficoltà nei pagamenti. È questo ad esempio il caso dell’Iraq, relativamente all’enorme indebitamento sostenuto per le spese militari e anche private del regime di Saddam.

Ok il debito, ma l’Italia ha un avanzo primario

Stiamo parlando di cose diverse. Con il termine avanzo primario ci si riferisce alla differenza fra spesa pubblica ed entrate, al netto del costo del debito pubblico. L’avanzo primario indica dunque la differenza fra entrate e uscite dello Stato nel corso dell’anno, senza calcolare le spese per gli interessi sul debito pubblico accumulato negli anni precedenti. Una cosa è quindi il debito, una cosa le entrate e le uscite di ogni anno. Anche qui, aiuta un po’ di economia domestica: il debito è il mutuo per la casa, l’avanzo primario è la differenza (positiva) fra le entrate (stipendio) e le uscite (spese varie) senza contare la rata del mutuo.

Se c’è un avanzo primario, dunque, è un ottimo segno. L’Italia, in questo senso, veleggia da anni in acque tranquille, anzi, primeggia. Ed è grazie a questo sforzo enorme che l’Italia riesce a sostenere il proprio immenso debito pubblico. Perché è mediante l’avanzo primario che ci possiamo permettere di pagare gli interessi sul debito pregresso (proprio come una famiglia può pagare la rata del mutuo se a fine mese la differenza fra entrate e uscite e’ positiva).

Approfondiamo il rapporto fra debito e avanzo primario, specialmente con riferimento al peculiare caso dell’Italia. Il debito pubblico italiano, infatti, è molto grande in cifra assoluta e in rapporto al prodotto interno lordo (132%), ma è peculiare in quanto certamente più sostenibile di quello di altri paesi che, pur avendo valori di rapporto debito/PIL inferiori al nostro, presentano criticità ben più gravi. I criteri di sostenibilità del debito vanno trovati nelle variabili storiche (per esempio, proprio l’avanzo primario) e non solo prospettiche. Questo serve a evitare che i timori dei mercati sulla sostenibilità del debito si trasformino direttamente in una sentenza quasi inappellabile (come successe all’Italia nel 2011). L’Italia ha infatti in grado di sostenere il proprio debito con acquisti interni consentiti da un’elevata ricchezza finanziaria netta delle famiglie (e dei soggetti che la custodiscono: banche, fondi, assicurazioni): ricchezza pari nel 2016 al 193% del PIL in Italia, 163% in Francia, 130% Germania, 118% in Spagna. Un altro elemento rilevante è l’indebitamento netto di Stato e privati verso l’estero: in rapporto al PIL nel 2017, è del meno 141% in Grecia, meno 81% in Spagna, meno 20% in Francia e solo meno 7% in Italia.

A tutto ciò si deve aggiungere il fatto che molte grandi economie con forte debito pubblico (per esempio Spagna, Francia, USA e Giappone) non riescono da tempo a generare un avanzo primario. L’Italia, invece, fin dal 1992 regolarmente vi riesce (con la sola eccezione del 2009). Fra il 2014 e il 2017, ovvero durante gli ultimi due governi precedenti l’attuale, l’Italia ha generato il quarto miglior avanzo primario dell’Unione Europea, pari al 6,1%, preceduta da Malta, Germania e Lussemburgo. Regno Unito, Spagna e Francia invece hanno fatto segnare forti deficit primari.

In base alle statistiche Eurostat l’Italia ha generato dal 1995 al 2017 circa 694 miliardi di euro di surplus primario: una cifra unica al mondo che è servita a pagare il 40% di circa 1.786 miliardi di interessi accumulate sul debito. Quanto illustrato come elemento positivo, quindi, non deve condurre a sottovalutare la gravità dei conti pubblici italiani. Anzi. Proprio lo sforzo immane che l’Italia sostiene da oltre due decenni per generare un avanzo primario che consenta di pagare l’immensa mole di interessi che gravano sul nostro debito pubblico, dovrebbe costituire un monito per chiunque pensi di peggiorare i conti pubblici del Paese, magari inseguendo avventurosi tagli di tasse o misure assistenziali insostenibili.

Esistono dunque almeno due punti fermi. Per prima cosa, il debito italiano aumenta senza sosta ogni anno dall’inizio degli anni 90 perché non si riesce a pagare con l’avanzo primario tutti gli interessi annui sul debito precedente. Pertanto, considerati i livelli raggiunti oggi dal debito, è evidente che per l’Italia non ci sono spazi di sforamento del deficit (il rapporto negativo fra entrate e uscite). Questo esporrebbe il Paese alla punizione dei mercati (salirebbero i tassi richiesti all’Italia per prestarle denaro). In secondo luogo, e in maniera ancor piu’ rilevante, per far scendere il rapporto debito/PIL serve un delicato equilibrio: la somma di crescita nominale del PIL e avanzo statale primario deve essere superiore alla quota di interessi da pagare. Con un debito pubblico faticosamente stabilizzato alla impressionante soglia del 132% sul PIL dai governi Renzi e Gentiloni (dopo essere aumentato di oltre 30 punti di PIL nei 6 anni precedenti), l’unica politica economica possibile per il nuovo governo è quella del “sentiero stretto”, già iniziata da Padoan. Le promesse elettorali roboanti in antitesi a questa via suonano tanto, ancora una volta, di debito intergenerazionale. Ma non si può proseguire così all’infinito.

Possono i mercati giocare appositamente contro uno Stato e i suoi cittadini, lucrando sull’andamento dello spread? Possono i mercati influenzare la politica, dal momento che dietro le società ci sono persone in carne e ossa e grandi interessi?

Sì e no. Prima di tutto bisogna intendersi su cosa sono i mercati. I mercati sono anche ed in gran parte i cittadini stessi. Chi detiene larga parte del debito pubblico italiano? I cittadini italiani. Oppure le banche italiane. In secondo luogo, bisogna intendersi su cosa sia lo spread. Lo spread indica quanto i prestatori di denaro dell’Italia (inclusi i suoi cittadini e le sue banche) pretendono come interesse sulla cifra che prestano allo Stato. Se l’Italia è in cattive acque, e sale quindi il rischio che non ripaghi i propri debiti, i prestatori di denaro dell’Italia vorranno un interesse più alto. Altrimenti perché prestare soldi allo Stato e rischiare di perderli? Lo spread misura questo eventuale innalzamento, o abbassamento, dei tassi, del costo per l’Italia o per un altro Paese di prendere denaro in prestito sui mercati.

Detto questo, i mercati sono anche costituiti da grandi fondi di investimento che mirano solo al guadagno sull’investimento effettuato. Se il rendimento che uno Stato deve pagare per avere denaro in prestito sale, il loro guadagno sale (insieme al rischio dell’investimento, però). Naturalmente questa pressione speculativa può mettere in crisi lo Stato, che è debitore. Lo Stato, pertanto, dovrebbe attuare politiche che gli consentano di non trovarsi esposto a tali situazioni, ossia avere un debito limitato o quantomeno sostenibile. Se lo Stato è solido, nessuno creditore lo può aggredire.

Pertanto, certamente i mercati possono influenzare la politica, così come la politica è influenzata da ogni cosa, vera o fasulla (esempio: Cosa succede in questi giorni ogni volta che una nave con qualche centinaio di disperati si avvicina alle nostre coste? La politica non è influenzata da questa situazione in cui le bugie sovrastano una realtà di tutt’altre proporzioni?). I mercati, i creditori, influenzano la politica degli Stati che sono oppressi da un grande debito e stentano nella produttivita’. Allo stesso modo in cui un creditore influenza la vita di un debitore: se uno è schiacciato dai debiti, può comprarsi macchine di lusso? No, deve prima ripagare i debiti. È influenzato dal suo debito, e quindi dai suoi creditori? Sì.

Da ultimo, è vero che possono verificarsi situazioni limite in cui alcuni operatori di mercato, per lo più grandi fondi di investimento, decidono di speculare sulla posizione debitoria di uno Stato. In poche parole, per esempio, alcuni grandi fondi possono decidere simultaneamente di vendere grandi stock di debito pubblico italiano in precedenza comprato. Così facendo, la percezione del resto del mercato sarà che il debito italiano è rischioso, altrimenti perché i grandi fondi se ne disferebbero? Come conseguenza, il costo del debito italiano per lo Stato sale,  sale il rendimento che lo Stato deve pagare a chi gli presta denaro acquistando debito pubblico. A quel punto, comprare debito pubblico italiano, rende di più. Questa operazione di pura speculazione può avvenire. A trovarsi esposti a tali situazioni, rare, sono solo gli Stati con alto debito pubblico e poca solidità percepita.

Quanto questo sistema riduce gli spazi di democrazia? Ha senso arrivare a definire quello dei mercati un controllo dispotico da fuori?

Milioni di cittadini italiani hanno comprato e comprano titoli di Stato: sono quindi creditori del debito sovrano dello Stato. Se lo Stato minacciasse di non pagare, come la prenderebbero? Probabilmente non ne comprerebbero più in futuro, o chiederebbero un interesse molto più alto per essere convinti a prestare denaro al Ministero del Tesoro. Ecco, in questo caso i cittadini sono i mercati. Avrebbero torto o ragione di chiedere con forza che lo Stato paghi il proprio debito nei loro confronti, e di fronte all’incertezza, a chiedere più interessi? E sarebbe la loro pressante richiesta di creditori giudicabile come controllo dispotico sul debitore? Le loro pressioni sulla politica nazionale costringerebbero lo Stato a non poter spendere, per esempio in sanità e servizi, perché vincolato a pagare il loro credito. Questo ridurrebbe gli quindi gli spazi di democrazia?

E se i cittadini italiani fossero creditori del debito pubblico tedesco, e la Germania rischiasse di non pagare, e quindi gli italiani facessero pressione sul governo tedesco per non permettergli di spendere e spandere a casa propria per – ad esempio – il reddito di cittadinanza, ma invece di ripagare i soldi prestati, starebbero riducendo lo spazio della democrazia in Germania o semplicemente e legittimamente chiedendo quanto ad essi dovuto?

No, non si può definire quello dei mercati un controllo dispotico da fuori. Intanto perché dire che viene da fuori è errato o fuorviante. Inoltre, perché il mercato, semplicemente, intende guadagnare o quantomeno non perdere ciò che ha investito, ossia prestato. Non si può fare democrazia usando denaro altrui preso in prestito, e dire che non c’è democrazia se poi non si riesce a ripagarlo. Evitare questi paradossi, è compito della politica. Che non deve promettere “Eldorado” insostenibili per poi, quando non li trova, accusare i non meglio identificati mercati. Detto questo, naturalmente non si può arrivare a condizioni capestro fra creditori e debitori, perché la linea di dignità umana e sostenibilità della vita dei cittadini deve essere invalicabile.

L’Unione Europea è complice dei mercati?

No. La domanda, peraltro, e’ del tutto, è priva di significato. Nessuno è complice dei mercati. I mercati sono fatti di cittadini, imprese, banche, fondi, Stati, regioni, municipalità. Tutto e’ “i mercati”. E nei mercati si muove l’intera economia mondiale. Quella dei privati, degli Stati, delle imprese, delle regioni, delle municipalità, delle organizzazioni internazionali. Dire che l’Unione europea è complice dei mercati ha lo stesso significato di dire che lo sia l’Italia. Oppure la Giamaica. O anche il panettiere sotto casa. Non significa nulla.

Una cosa però è certa. Non esiste stato al mondo che, dopo lo scoppio della crisi finanziaria del 2009, abbia posto in essere in breve tempo regole per limitare la pericolosità di determinate transazioni finanziarie, i rischi dell’attività bancaria e la relazione pericolosa fra crisi bancarie e crisi del debito sovrano, a tutela dei cittadini, risparmi e delle finanze pubbliche, come lo ha fatto l’Unione Europea. Con una poderosa opera di riforma che ha fatto venire i capelli bianchi ai banchieri e ai grandi speculatori finanziari. Uno dei prodotti di questa riforma è l’Unione Bancaria. Quali leggi ha posto in essere l’Italia in questo senso (leggi che non siano il copia-incolla di quelle UE)?

Cos’è il bail-in?

Chiariamo il concetto base una volta per tutte: se un’impresa – in questo caso una banca – rischia di fallire, è perché vi sono delle perdite. Se nessuno assorbe queste perdite, mettendo dei soldi o perdendo quelli investiti, l’impresa fallisce e tutti perdono tutto, o quasi. Il fallimento, peraltro, trattandosi di una banca, provoca profonde scosse di fiducia e distrugge la stabilita’ innescando potenziali crisi devastanti finanziaria (vedi Lehman Brothers). Le alternative sono tre (senza scendere nei tecnicismi ma restando sui concetti):

  1. L’impresa fallisce e succede un disastro.
  2. Bail-out. Per evitare il fallimento, lo Stato (tutti i cittadini, anche quelli che con quell’impresa non c’entrano nulla) paga fior di quattrini per assorbire le perdite, con buona pace del debito pubblico e della dubbia moralità di questo approccio. In questo modo, però, se la spesa è alta, è ora lo Stato che rischia di fallire.
  3. Bail-in. Per evitare il fallimento, le perdite vengono assorbite da chi in quell’impresa ha investito (azionisti e creditori).

Quale vi sembra la più sensata? Ovviamente la 3, chi inquina paga.

Quando scoppiò  la crisi del 2009, dopo il fallimento di Lehman Brothers negli Stati Uniti e il contagio in Europa, milioni di persone si riversarono nelle strade. Si trattava, per esempio in Spagna, del movimento degli indignados, gli indignati contro un sistema che vedeva banche e finanza prosperare godendo di enormi guadagni fra circoli ristretti di grandi azionisti (il famoso 1%). Se il giocattolo si era rotto, perché dovevano essere gli stati e i cittadini tutti (il famoso 99%) a dover salvare il sistema finanziario da un collasso che questi ultimi non avevano causato?

Il salvataggio pubblico delle banche e delle imprese finanziarie si chiama bail-out, salvataggio esterno. Nella sola UE, fra il 2008 e il 2012, si sono verificati più di 400 casi di aiuti di Stato ai sistemi finanziari dei vari Stati membri (si noti bene che fino al 2007 praticamente la casistica non esisteva), per un totale autorizzato di 5.000 miliardi di euro (e un totale effettivamente utilizzato di 2.000 miliardi di euro). Suggerisco a te lettore di rileggere le cifre. Si tratta di denaro pubblico.

Bene, di fronte a questo, l’Unione europea ha reagito mettendo in piedi in meno di 3 anni un sistema di norme volte a impedire che i grandi conglomerati finanziari si sentano al sicuro nell’attuare politiche rischiose, convinti che poi lo Stato, i cittadini, li salveranno, in quanto il loro fallimento provocherebbe danni troppo grandi all’inter-economia (il concetto del too big too fail e dell’azzardo morale: sono così grande che faccio ciò che mi pare, qualcuno verrà a salvarmi).

Queste nuove norme, riassumibili in senso lato nell’Unione Bancaria, vedono in particolare il Meccanismo Unico di Risoluzione come perno. In base a questo nuovo sistema, una banca, anche grande, deve fallire se non è in grado con le proprie forze di stare sul mercato. Gli aiuti di Stato sono banditi (salvo alcune peculiari eccezioni). Niente più bail-out. L’uscita dal mercato deve però avvenire in modo che non si provochino danni all’economia e alla stabilità finanziaria (onde evitare nuovi casi Lehman Brothers). Uno dei perni concettuali di questa rivoluzione è il passaggio dal bail-out (salvataggio esterno con soldi pubblici), al bail-in: con il bail-in sono gli azionisti e i creditori della banca che in crisi che per primi devono assorbire le perdite, e cioè perdere il proprio investimento, come per ogni altra impresa al mondo. Non lo Stato, non tutti i cittadini che non c’entrano nulla. Il solido principio del chi inquina paga. Chi sono i creditori della banca? Gli obbligazionisti e anche i depositanti: questi ultimi, pero’, fino a 100.000 euro non perdono mai nulla, anche in caso di bail-in.

Come sappiamo, da anni in Italia politica e stampa si scagliano contro il bail-in imputando all’Europa la creazione di questo strumento diabolico che, se una banca è in crisi, fa perdere soldi ai risparmiatori (Banca Etruria, Marche, CariChieti, Carife, e poi in maniera differente MPS, Veneto Banca, Popolare di Vicenza). Naturalmente omettono di dire che l’alternativa è quella di pagare i vizi privati di alcuni con i soldi pubblici di tutti. Come quest’ultima alternativa sia preferibile al principio del chi inquina paga, rimane un mistero.

L’ Europa – con il voto favorevole dell’Italia, ovviamente – ha quindi posto in essere un sistema che vuole proteggere le finanze pubbliche degli Stati, proteggere i risparmi dei cittadini, imporre alle banche condotte responsabili perché nessuno le salverà più con i soldi dei contribuenti. Ma a casa nostra si racconta il contrario. Sulle bugie e la mistificazione della realtà si vincono le elezioni, quindi perché smettere?

Del perché dall’introduzione dell’euro in Italia abbiamo 5 milioni di poveri e la disoccupazione giovanile al 40% ve lo siete chiesto e vi siete dati una risposta?

La moneta unica pone interrogativi legati all’applicabilità del suo modello e della sua governance a Paesi con economie e Stato di salute finanziaria molto diversi fra loro. Tuttavia, l’Italia è responsabile principale (se non unica) dei propri mali. E la moneta unica non c’entra. Anzi. L’Italia ha un debito pubblico galoppante da ben prima dell’Euro, due/tre decenni. Nel 1992, lo Stato, Governo Amato, dovette ricorrere alla patrimoniale, cioè a mettere le mani nei conti correnti dei cittadini, per salvare lo Stato sull’orlo del fallimento a causa di speculazioni sulla Lira, moneta troppo debole.

Peraltro, si dice che l’Euro forte non sia una buona moneta per uno Stato manifatturiero ed esportatore come l’Italia. Già, peccato però che sia ottima per uno Stato manifatturiero ed esportatore ancor più dell’Italia: la Germania. Come mai? E pensare che in Germania hanno perfino riunificato un intero Paese. La risposta sta nella gestione delle finanze pubbliche.

L’unico baluardo a tutela dei risparmi delle famiglie italiane durante la crisi iniziata nel 2009 è stato proprio l’Euro, che ha conservato il suo valore. È meglio non immaginare nemmeno cosa sarebbe successo al valore dei conti correnti e delle case se l’Italia avesse avuto la Lira durante l’ultima tempesta finanziaria. La drammatica situazione dei 5 milioni di abitanti che vivono in povertà, e della moltitudine di giovani che non trova lavora, non ha soluzioni da bacchetta magica o imputati da talk show televisivo facili, e sbagliati, come la moneta unica. Anzi. Quel 40% di giovani disoccupati, grazie all’insostenibilità dei conti di un Paese che ben prima dell’Euro concedeva di andare in pensione an 40 anni, facendo debito, non solo non troverà lavoro, ma se lo troverà difficilmente andrà in pensione. E questo grazie alla condotta politica del Paese della Lira, per 30 anni e più. Se poi alla rabbia populistico-suicida contro l’Euro, aggiungiamo quella contro gli immigrati che “ci rubano il lavoro”, a pagare le pensioni non rimarrà più nessuno.

Un’ultima considerazione. Negli ultimi due anni le banche e le assicurazioni italiane hanno ridotto la loro esposizione al debito italiano, cioè ne hanno comprato meno, del 3,6% (dal 30,2% al 26,6% di un debito pubblico totale da 2.312 miliardi di euro). I fondi di investimento nazionali hanno ridotto la propria esposizione del 2,6%. Le famiglie hanno tagliato di un ulteriore 0,8%, dopo aver già dimezzato la loro esposizione sul debito pubblico rispetto al 2012. Gli investitori esteri sono scesi dello 0,4%. Esiste un unico finanziatore del debito pubblico italiano, le centinaia di miliardi che ogni anno l’Italia deve prendere in prestito per mandare avanti scuole, pensioni, sanità etc., che non si sia tirato indietro ma anzi che è salito in carica prepotentemente: la Banca Centrale Europea. Per suo tramite, la Banca d’Italia ha infatti aumentato la propria esposizione del 7,7%. L’unico vero compratore di titoli pubblici italiani è un’autorità europea. E il problema sarebbe l’Euro? Vedremo dall’anno prossimo, quando la BCE cesserà il programma di acquisti (la fine del quantitative easing).

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Milano, Dublino, Londra e Bruxelles. Specializzato in diritto bancario, dei mercati finanziari e dell'Unione europea, collaboro con le facoltà di Economia e Diritto di alcune università europee.
3 Commenti
  1. Tiziano Bello

    Un articolo ottimo,chiaro, lucido, logico e che spazza via tante sciocchezze che persone incompetenti (od in malafede!!) spacciano come verita' assolute e ricette miracolose. Nuovamente complimenti all'autore. Il nostro Stato e' obbligato ad aumentare il suo disavanzo primario in modo tale da 1.) riuscire a coprire gli interessi che si generano annualmente sul debito pubblico e 2.) ridurre il capitale che genera tali interessi. Per ottenere tale scopo o si aumentano le entrate (leggi nuove tasse o vendite di beni dello Stato) o si riducono le spese ed i servizi offerti, oppure una combinazione delle cose. Pertanto qualunque nuova fantasia elettorale i nostri partiti di destra, centro o sinistra ci vogliano far credere va seriamente ed approfonditamente valutata e considerata sotto questo ineludibile principio: dobbiamo incrementare il disavanzo primario dello Stato,

  2. Salvo

    Atto primo: John Maynard Keynes, il nome forse non dice nulla ai più ma è stato uno dei più grandi economisti dello scorso secolo. Una delle cose per le quali viene ricordato è la politica Keynesiana: lo Stato commissiona dei lavori al privato (es. spende dei soldi per delle opere pubbliche) e il privato crea posti di lavoro impiegando degli addetti nella sua organizzazione per realizzare queste opere pubbliche. A sua volta il privato genera indotto per altre aziende che producono ciò che serve per realizzare queste opere. Tutti questi creano altri posti di lavoro; l’operaio, percependo ora un salario, ha del denaro disponibile per acquistare dei beni e servizi, es. auto e vacanze. La richiesta di auto e vacanze, crea a sua volta altri posti di lavoro per la costruzione, vendita e assistenza post vendita e indotto per l’auto e l’organizzazione, il trasporto, il soggiorno per la vacanza. Keynes fece un esempio limite: si dividono tutti i disoccupati in due gruppi, i primi scavano delle buche, l’altra riempiono le buche, lo Stato paga uno stipendio a tutti e questo crea PIL. Quello delle buche non porta nessuna ricchezza nel lavoro se non per lo stipendio che ricevono a questo punto tanto vale pagare un sussidio di disoccupazione a tutti per creare il PIL. In Italia, per come spesso sono stati spesi i soldi (quello che lo Stato otteneva come entrate e quello che ha accumulato come debito pubblico) le scuole dovrebbero avere i rubinetti d’oro (è una battuta). Atto secondo: l’Italia e la Germania, avevano prima dell’euro, la loro moneta nazionale, la lira e il marco. Se il cambio tra lira e marco era di 700 lire per 1 marco, un prodotto italiano che costava es. 700.000 lire lo pagava un tedesco 1.000 marchi. Se lo stipendio di un tedesco era di 1000 marchi al mese, questo impiegava un mese di stipendio per acquistare il prodotto italiano. Se la banca centrale Italiana svalutava la lira e il nuovo cambio era di 1000 lire per 1 marco, il prodotto che costa sempre 700.000 lire in Italia, il tedesco ora lo paga 700 marchi, 300 marchi meno rispetto a prima. La svalutazione creava inflazione e l’inflazione non sempre era un male per il debito dello Stato. Il creare cattedrali nel deserto con investimenti (o sprechi o ruberie) e svalutare la lira erano le due leve su cui l’economia del nostro Paese ha operato per decenni. Ora, con l’avvento dell’euro, tutto questo non è più possibile. Premesso che il default non è auspicabile, bisogna ricordare che in finanza, chi investe corre dei rischi. Se un’azienda ha bisogno di liquidità ed ingenti debiti, dovrà emettere ad es. delle obbligazioni con tasso d’interesse elevato in modo da compensare l’investitore del maggior rischio. Ciò non sempre accade per una nazione. Se l’Italia emette delle obbligazioni con rendimento es. del 5% e la Germania con il 2%, lo spread del 3% è la ricompensa aggiuntiva per l’investitore che rischia di più investendo in obbligazioni Italiane. Ora, tralasciando le ragioni per cui l’Italia si trova nelle condizioni in cui si trova, se per ripagare l’investitore che realizza il 5% (3% più della Germania), devono aumentare le tasse e imposte in modo da disporre dei denari per poterlo ripagare ed evitare, in caso contrario, che questo decida di reinvestire in un altro Paese l’investitore che rischio ha corso per giustificare lo spread del 3%?

  3. Tiziano Bello

    Salvo, l'investitore ha corso quello che si chiama il ''rischio Paese''. Ha corso cioe' il rischio che lo Stato dichiari default e non onori i prestiti ricevuti. Le tasse, ovviamente, non possono essere aumentate all'infinto.

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