Gli accordi di Abramo e le relazioni tra i paesi arabi e Israele10 min read

8 Marzo 2024 Mondo Politica -

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Geografo

Gli accordi di Abramo e le relazioni tra i paesi arabi e Israele10 min read

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Gli Accordi di Abramo sono una serie di trattati stipulati nel 2020 tra Israele e alcuni paesi arabi, nello specifico Emirati Arabi Uniti (EAU), Bahrein, Sudan e Marocco.

Questi accordi, che segnano un significativo cambiamento nella politica del Medio Oriente, vanno compresi alla luce

  • della presenza USA nella regione mediorientale e dei suoi rapporti con Israele e le altre potenze mediorientali
  • dell’evoluzione dell’antagonismo tra Israele e gli Stati arabi e della dinamica di riavvicinamento cominciata tra alcuni membri della Lega Araba e lo Stato ebraico

Cercheremo di capire se questi accordi possano anche aver influenzato ciò che sta accadendo oggi in Palestina.

Stati Uniti-Israele: amici da quando e perché

Il 14 maggio 1948 il presidente americano Harry Truman (1945-1952) fu il primo leader al mondo a riconoscere lo Stato Ebraico. Il giorno dopo, 15 maggio, scoppiò il primo conflitto israelo-palestinese, che si tradusse nella Nakba, la disfatta dei palestinesi, che produsse il primo grande esodo dei palestinesi dalla loro terra.

Pur essendo il riconoscimento di Truman una legittimazione cruciale per il neonato Stato Ebraico, esso non sancì una vera e propria alleanza con Israele. Si consideri infatti che a seguito della crisi di Suez (autunno 1956) gli eserciti di Francia, Gran Bretagna e Israele vennero fatti evacuare dall’Egitto per mano di una rarissima azione diplomatica congiunta tra USA e URSS. Le ormai ex-potenze coloniali, in accordo con lo Stato Ebraico, avevano occupato la zona del Canale dopo l’improvvisa nazionalizzazione adottata dal presidente Gamal Abdel Nasser. Francia e Gran Bretagna vennero di fatto rimpiazzate nella regione dalle due nuove superpotenze, protagoniste della Guerra fredda: Stati Uniti e Unione Sovietica.

Nel 1957, pochi mesi dopo la crisi egiziana, il presidente americano Dwight Eisenhower (1952 – 1960), protagonista della Seconda guerra mondiale, pronunciò la sua “dottrina”, nella quale descrisse il ruolo cruciale che il Medio Oriente rappresenta per via delle risorse petrolifere e della sua centralità nella rotta (marittima e aerea) tra gli USA e l’Oceano Indiano. Da quel momento, dunque, gli USA saranno massicciamente e attivamente presenti nella politica interna ed estera di molti stati arabi e dell’Asia sud-occidentale, ma fu solo più tardi che inizieranno a legarsi a doppio nodo con Israele.

La letteratura in materia di rapporti tra USA e Israele è concorde nell’affermare che fino alla metà degli anni ’60 i rapporti tra Israele e gli USA erano “amichevoli ma cauti” (Lewis, 1999). Con la decade 1967 – 1977, però, i presidenti USA L. Johnson (1963 – 1968) e poi R. Nixon (1968 – 1974) e G. Ford (1974 – 1976) misero in piedi una relazione strategica con lo Stato ebraico; quest’ultimo condusse e stravinse la guerra dei Sei giorni (1967) salvo poi perdere parte dei territori guadagnati nella successiva guerra dello Yom Kippur (1973). Entrambe queste guerre furono combattute contro i vicini paesi arabi (in particolare Egitto e Siria), che volevano cambiare lo status quo riguardante la questione palestinese iniziato nel 1948.

Israele vinse queste due guerre con il sostegno degli equipaggiamenti militari americani. E, come noto, il supporto dei paesi occidentali a Israele nella guerra dello Yom Kippur causò l’embargo da parte dei paesi arabi produttori di petrolio al blocco occidentale e la conseguente prima crisi petrolifera (1973-1974). Nell’opinione pubblica americana, Israele divenne una figura sempre più familiare anche grazie alla figura di Golda Meir (nata a Kiev, ma cresciuta negli USA – pertanto anglofona – e trasferitasi in Palestina nel 1921), primo ministro di Israele dal 1969 al 1974, considerata una delle donne più ammirate di America.

L’amministrazione Carter (1976-1980) si avvicinò ulteriomente a Israele in termini economici e diplomatici al fine del mantenimento di un equilibrio in una regione instabile ma fondamentale per gli USA: di Carter fu lo sforzo diplomatico degli accordi di Camp David (1978) che condusse al trattato di pace tra Israele ed Egitto del 1979. Israele diventerà formalmente un alleato con la presidenza di R. Reagan (19801988), in chiave antisovietica; e solo in apparente contraddizione, negli stessi anni, la Segreteria di Stato americana strinse rapporti politici ed economici anche con Egitto, Arabia Saudita e le altre monarchie del Golfo.

Fine del bipolarismo, cambio di paradigma

Con il biennio 1989-1991 si consumò la crisi definitiva dell’impero sovietico e di tutto il blocco orientale.

Questo evento epocale significò, per alcuni analisti, la vittoria degli Stati Uniti nella Guerra Fredda e del modello americano come quello ideale per il futuro; si parlò addirittura di “fine della storia” (Fukuyama, 1989). Altri grandi analisti, tra cui Immanuel Wallerstein, tuttavia sostengono che gli Stati Uniti hanno di fatto visto iniziare il loro declino con la fine del bipolarismo e l’inizio di un sistema unipolare (che si sarebbe mutato nel giro di qualche decennio in un sistema multipolare), poiché veniva meno uno status quo quarantennale basato sul mito di un’America ricca e democratica opposta all’opprimente URSS.

Riguardo alla regione mediorientale, a livello economico, gli USA decisero di proseguire con la strategia del “Washington consensus, cioè la conversione al neoliberismo delle economie dei paesi arabi (tradizionalmente dirigisti); a livello politico, poi, il presidente B. Clinton (1992 – 2000) ottenne il grande successo di fare dialogare Yasser Arafat (presidente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, OLP) e Yithzak Rabin (Primo ministro laburista di Israele) nel quadro degli Accordi di Oslo (1993) e di redigere una road map per la creazione di uno stato palestinese; un progetto saltato a causa dell’omicidio di Rabin (Tel Aviv, 1995) da parte di un’estremista israeliano e del cambio di governo in Israele, che sancì l’inizio dell’era Netanyahu, e con lui l’intransigenza nei confronti di ogni accordo con i palestinesi.

Sembrano dunque potersi identificare alcuni atteggiamenti nella politica americana nella regione dopo la fine della Guerra Fredda:

  • l’ingresso a pieno titolo nel mercato globale (“neoliberal turn”) di tutti i paesi arabi non esportatori di petrolio, tramite la longa manus dell’International Monetary Fund e della World Bank. Questa strategia permette a Washington di tenere sotto controllo le economie di questi paesi, i quali – salvo rare eccezioni – sono anche alleati politici degli USA. Già a partire dagli anni ’80, queste politiche di apertura forzata al mercato internazionale sono state fortemente spinte nel quadro dei Programmi di Aggiustamento Strutturale (PAS).
  • A partire dal 2001, la messa in atto della “guerra al terrore”, che individuasse in maniera artificiosa dei capri espiatori per ribadire la prominenza politico-militare degli Stati Uniti a livello regionale e mondiale. Come sostiene Wallerstein, questa politica di potenza dopo l’invasione di Afghanistan (2001) e Iraq (2003) era una dimostrazione agli alleati e agli stati nemici (Corea del Nord, Iran) della rinnovata leadership globale americana. Tuttavia, questo tentativo assertivo causò di fatto il declino del modello unipolare americano, e, con l’avanzata di Russia e Cina come attori internazionali, portò il sistema globale verso un ordine multipolare.
  • L’esigenza di stoppare sul nascere l’esistenza di una potenza che possa mettere in pericolo l’egemonia di Israele, tramite una politica di accordi internazionali (accordo sul nucleare iraniano (2015), accordi di Abramo (a partire dal 2020), che analizzeremo nel prossimo paragrafo),

Accordi di Abramo e reazione dei Paesi arabi

 Nel settembre 2020 nacque un nuovo progetto di cooperazione internazionale promosso dagli Stati Uniti nella regione araba. Si tratta dei cosiddetti “Accordi di Abramo”, inizialmente stipulati tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein. Questi accordi erano votati alla “normalizzazione” delle relazioni tra Israele e i due paesi del Golfo, sia da un punto di vista politico (riconoscimento reciproco) che economico (stipulazione di accordi di carattere commerciale).

Al momento della firma, il presidente degli Stati Uniti D. Trump ha dichiarò: “grazie al coraggio dei leader di questi tre paesi, stiamo compiendo un passo avanti verso un futuro in cui le persone di ogni fede e origine vivranno insieme in pace e prosperità”. Come sappiamo oggi, questa previsione si sarebbe rivelata completamente infondata.

accordi di abramo
@wikipedia

Nei mesi successivi, ai due paesi del golfo si aggiunsero con sorpresa il Sudan (ottobre 2020) e il Marocco (dicembre 2020). Quest’ultimo è stato di fatto compensato della sua condiscendenza con il riconoscimento americano della sovranità marocchina sul territorio conteso del Western Sahara. Non è stata dunque una scelta disinteressata quella di Mohamed VI, bensì una mossa parte di una strategia geopolitica assertiva di ampia portata da parte del Regno.

Questi Accordi si scontrano contro uno dei pilastri su cui si fonda l’opinione pubblica e (fino ad una certa misura) la politica estera degli stati arabi: la causa palestinese. Infatti, dal 1948, soltanto Giordania (1994) ed Egitto (1979) hanno riconosciuto lo stato di Israele. Tutti gli altri ne hanno sempre rifiutato l’esistenza, al fine di solidarizzare con il popolo palestinese. Perciò, la normalizzazione dei rapporti tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, Bahrein e, nel dicembre 2020, Marocco e Sudan ha lasciato di stucco le popolazioni arabe; e l’idea che questa cooperazione politico-economica potesse espandersi a nuovi paesi della Lega Araba ha scatenato forti opposizioni nell’opinione pubblica araba.

È interessante portare l’attenzione sulla reazione dell’opinione pubblica del Marocco, da subito scettica degli Accordi poiché fortemente solidale con la Palestina. A partire dai bombardamenti israeliani su Gaza, i marocchini si sono riversati nelle piazze per fermare la violenza contro i palestinesi e per contestare gli Accordi. Dunque, se dal punto di vista istituzionale la guerra mossa da Israele a Gaza non ha sortito alcun effetto se non quello di un rallentamento dell’adesione dell’Arabia Saudita, a livello di opinione pubblica – almeno nel caso marocchino – la vicinanza del Regno allo Stato ebraico è stata fortemente contestata dalla popolazione nelle piazze di tutte le città.

Dal punto di vista americano, invece, secondo il politologo palestinese W. Khanfar, questo impegno di cooperazione internazionale tra Israele ed i paesi arabi, permetterebbe agli USA di effettuare il “pivot to Asia”, cioè di continuare l’azione di disimpegno dal Medio Oriente e concentrare le proprie risorse sulla regione dell’Indo-pacifico, là dove la battaglia (commerciale e militare) con la Cina, unica potenza al momento in grado di mettere a repentaglio il dominio statunitense, sembra avere ragione di nascere di qui a breve (si pensi alla questione di Taiwan).

Ma i recenti sviluppi della guerra mossa da Israele contro Gaza hanno nuovamente mostrato l’erroneità dei calcoli di Washington, che si trova ora a cercare di trovare una soluzione a questo conflitto, che sta costando energie e credibilità alla Casa Bianca. Infatti, si ricordi che in sede di Assemblea Generale delle Nazioni Unite, soltanto gli Stati Uniti, Israele e uno sparuto gruppetto di altri Stati[1] hanno votato contro il cessate il fuoco immediato da parte di Israele, mentre 153 Stati hanno votato a favore.

Anche se non è possibile dimostrare una diretta correlazione tra gli accordi di Abramo iniziati nella seconda metà del 2020 e l’attacco di Hamas del 7 ottobre sul suolo israeliano, vi sono alcune opinioni secondo le quali Hamas, vedendo perdere anche ufficialmente il supporto alla causa palestinese – tramite il riconoscimento di Israele da parte di sempre più stati arabi – possa avere cercato di riattrarre l’attenzione sulla questione cominciata nel 1948. Tuttavia, questa azione (e la successiva reazione di Israele) aldilà dell’accendere proteste in tutto il mondo arabo (e non) riguardo l’invasione armata della Striscia, sembra non aver scalfito la solidità dei rapporti economi creati nell’ambito degli Accordi di Abramo; nessun paese arabo si è ritirato da questi e l’Arabia Saudita sembra sempre più vicina a essere inclusa nel club.


Bibliografia:

Fukuyama, F. (1989). The End of History?, in The National Interest , Summer 1989, No. 16 (Summer 1989), pp. 3-18

Lewis, S.W. (1999), The United States and Israel: Evolution of an Unwritten Alliance, in Middle East Journal , Summer, 1999, Vol. 53, No. 3, Special Issue on Israel (Summer, 1999), pp. 364-378

[1] Dieci in totale: Austria, Repubblica Ceca, Guatemala, Israele, Liberia, Stati Federati di Micronesia, Nauru, Papua Nuova Guinea, Paraguay, Stati Uniti

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Geografo, si interessa di Mediterraneo e paesi arabi, che sono l’oggetto dei suoi studi e dei suoi articoli. È appassionato di storia delle relazioni internazionali, letteratura e sport. Nei suoi scritti presta particolare attenzione alle disuguaglianze sociali ed economiche.
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