Le primavere arabe 10 anni dopo11 min read

19 Ottobre 2021 Mondo -

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Geografo

Le primavere arabe 10 anni dopo11 min read

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A dieci anni dalle rivolte di piazza denominate “primavere arabe”, il mondo arabo rimane politicamente e socialmente instabile. Le cause che hanno portato ai sollevamenti del 2011 sembrano essere ancora di attualità in tutti i paesi: corruzione dilagante, crescenti diseguaglianze economiche e sociali, alti tassi di disoccupazione e sfiducia verso il futuro da parte dei giovani, che sono la maggioranza della popolazione.

L’unico paese arabo ad aver effettuato la cosiddetta “transizione democratica” è la Tunisia, dopo la caduta del presidente Ben Ali. Ma il periodo di grave incertezza economica, sociale e politica ne fa una democrazia debole, soggetta a gravi e ripetute crisi, come quella recentemente scoppiata a causa del licenziamento del primo ministro Mechichi ad opera del presidente Saied. Altrove la situazione è invariata rispetto al pre-2011 o anche peggiorata, come nel caso delle gravi guerre che hanno sconvolto Libia, Siria e Yemen.

Com’è la situazione oggi nei paesi arabi coinvolti dalle primavere? Cosa resta di quei movimenti? Proviamo a ricostruire il panorama del mondo arabo a 10 anni dalle proteste con l’aiuto dell’attivista e freelance Leila Belhadj Mohamed, esperta di nord Africa e Asia sudoccidentale.

Foto: Stefan De Vries

Primavere arabe: quando tutto è iniziato

Anche se l’anno a cui si fa riferimento quando si parla di primavere arabe è il 2011, tutto è in realtà iniziato a fine 2010, quando sono scoppiate le prime manifestazioni di piazza in Tunisia. Erano manifestazioni diverse dalle precedenti, più imponenti, a cui partecipavano tutte le categorie di popolazione (giovani e adulti, uomini e donne, musulmani e cristiani, professori e disoccupati). Come ricorda Leila Belhadj Mohamed:

Nel dicembre del 2010 c’è stato il famoso caso di Bouazizi, laureato di 26 anni che non trovava lavoro e sulle cui spalle gravava l’intera famiglia. Faceva l’ambulante al mercato e all’ennesima angheria subita dalla polizia ha chiesto di essere ricevuto nella sede del Governatorato di Sidi Bouzid; ma non è stato fatto entrare e, esasperato, si è dato fuoco. Questa immolazione è rimbalzata sui social e ha fatto scoprire che tutti erano arrabbiati in Tunisia.

Le manifestazioni tunisine, poi, sono state il modello per i popoli degli altri stati arabi, andando quindi ad infiammare le piazze di molti altri paesi arabi.

Le cause delle primavere arabe

Nel suo libro Purgatorio arabo, la storica del medio oriente Marcella Emiliani, spiega che tra i principali motivi che hanno spinto la popolazione di Tunisia, Egitto, Libia, Siria, Marocco, Bahrein, Yemen, Giordania, Gaza e più tardi Algeria, Libano, Iraq e Sudan a rivoltarsi ci sono le forti disuguaglianze sociali e economiche all’interno dei singoli paesi, che hanno visto negli ultimi decenni una ristretta élite – spesso legata al potere – arricchirsi sempre di più, a fronte dell’impoverimento di larghe fasce della popolazione.

Inoltre, la rabbia è stata scatenata dalla corruzione del sistema amministrativo nazionale, a qualsiasi livello – da quello locale a quello nazionale – che fa vivere la quotidianità delle persone nell’arbitrario, così come dall’insoddisfazione verso regimi autoritari, non più tollerati in quanto non più garanti di servizi essenziali, sussidi e posti di lavoro (si pensi alla Libia, classico esempio di rentier state sotto Gheddafi, o al Marocco di Hassan II).

Infine, è importante sottolineare come abbia contribuito alle rivolte l’alto tasso di disoccupazione, che colpisce in primis i giovani diplomati, che un tempo avrebbero avuto un posto garantito nel mastodontico apparato burocratico tipico dello stato arabo dirigista (si pensi all’Egitto di Nasser, alla Siria di Hafiz Al-Assad).

Molti analisti della regione araba sono concordi nell’individuare la “svolta neoliberale” operata dai paesi occidentali all’inizio degli anni ottanta come principale vettore di instabilità economica e sociale in molti paesi arabi. A partire da quel decennio, infatti, molti stati arabi dovettero ricorrere ai Programmi di Aggiustamento Strutturale (PAS), cioè dei piani per il ripianamento del debito estero, composti prevalentemente da prestiti condizionati elargiti dai governi occidentali e delle istituzioni finanziarie internazionali – Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale.

Le condizioni imposte per ottenere questi crediti erano di ristrutturare l’economia secondo la dottrina neoliberale: liberalizzazione, privatizzazione, deregolamentazione. L’apertura neoliberale di molti stati arabi al mercato globale ha aumentato il divario economico e sociale all’interno della popolazione e dato vita a uno sfrenato “capitalismo clientelare”.

Proprio questi gravi problemi, connessi al ruolo esercitato dai nuovi media, che permettevano a giovani di ogni parte del mondo arabo di amplificare e condividere le proprie rimostranze, sono stati decisivi per portare le popolazioni arabe in piazza lungo tutto l’inizio il 2011, facendo parlare tutto il mondo di “primavere arabe”.

Le conseguenze delle primavere arabe

Dopo le rivolte di piazza, molti degli uomini al potere sono stati deposti: Ben Ali in Tunisia, Mubarak in Egitto, Gheddafi in Libia e più tardi, con la seconda ondata di proteste del 2019, Bouteflika in Algeria e Bashir in Sudan. In altri casi, poi, i sollevamenti popolari hanno portato a nuove costituzioni (Tunisia e Egitto) o a delle sostanziali modifiche di quelle presenti (Marocco).

Tuttavia, si può dire che sia davvero cambiato qualcosa nella quotidianità delle persone che vivono oggi i paesi arabi?

Tunisia e Egitto

Come spiega Leila Belhadj Mohamed, “la Tunisia ha eliminato il nepotismo gestito dalla famiglia della moglie del presidente Ben Ali, Leila Trabelsi, che controllava tutta l’economia. In pratica, non si poteva fare nulla se non si aveva un contatto con la famiglia Trabelsi”. Nei dieci anni successivi però, “la classe dirigente eletta non è stata in grado di gestire le risorse economiche e le riforme che dovevano essere fatte”.

La continua crisi politica del dopo-rivoluzione si è andata ad acuire con la scarsa gestione della pandemia. Il presidente Saied nel luglio 2021 ha sciolto il parlamento tunisino e, dopo più di due mesi di silenzio che hanno fatto temere una svolta autoritaria, ha assegnato il ruolo a Néjila Bouden – prima donna premier nel mondo arabo – a fine settembre 2021.

L’Egitto, dopo una parvenza di transizione democratica con l’elezione dell’islamista Mohamed Morsi, ha subito il colpo di stato militare del maresciallo Al-Sisi nel 2013. “In Egitto, come in Algeria, i militari hanno sempre avuto un potere politico enorme, e la lotta verso la Fratellanza Musulmana ha rafforzato ancora di più l’esercito, e quasi legittimato il colpo di Al-Sisi”, racconta Belhadj Mohamed.

In questo paese dunque è stato re-instaurato un governo autoritario che non lascia spazio a opposizioni né ad attività di ricerca non conformi alle visioni del governo, come dimostrano l’omicidio di Giulio Regeni o la detenzione di Patrick Zaki.

Libia, Siria e Yemen

profughi siria
Campo per rifugiati siriani in Turchia | Foto: European Parliament

Libia, Siria e Yemen sono scivolate in violente guerre civili, divenendo oltretutto terreno di confronto tra potenze regionali e internazionali. La guerra in Siria ha prodotto 5,5 milioni di rifugiati e 6,2 milioni di profughi che non hanno varcato i confini (gli internally displaced people, IDP). Il commento di Belhadj Mohamed è laconico:

Dopo 10 anni di guerra Assad è ancora lì, eletto a maggioranza bulgara a seguito di elezioni finte.

La guerra in Libia, invece, ha mostrato una volta in più la mancanza di armonia dell’Unione Europea nelle sue politiche – estera in questo caso. In questo conflitto, momentaneamente cessato grazie agli accordi di Ginevra del gennaio 2021, che vedeva opporsi la parte della Cirenaica del Maresciallo Haftar al governo “legittimo” di Al-Serraj, si è vista sorgere una nuova potenza regionale, la Turchia dell’islamista Erdogan, gendarme dell’Unione per quanto riguarda i migranti. Lo scenario futuro anche qui non è dei migliori: “le nuove elezioni in Libia dovrebbero tenersi a ridosso del 25 dicembre 2021, ma non si riesce ad accordarsi sulla legge elettorale”, afferma Belhadj Mohamed.

In Yemen, emblema della guerra per procura, il nord del paese è sostenuto dall’Arabia Saudita e il sud è appoggiato dall’Iran sciita. “Questa guerra, completamente ignorata dai media occidentali”, spiega Belhadj Mohamed, “vede una crisi umanitaria tra le più gravi del mondo – con 13 milioni di persone che soffrono la fame e l’80% della popolazione che avrebbe bisogno di aiuti umanitari”.

Marocco, Algeria e Libano

Il Marocco, malgrado l’apertura della nuova costituzione, rimane un paese autoritario, dove ogni spazio di protesta è mal tollerato, come dimostra il recente arresto del giornalista attivista per i diritti umani Omar Radi. Il re Mohamed VI è supportato dagli Stati Uniti nella sua politica interna securitaria così come nelle ambizioni esterne.

Infatti, in cambio dell’adesione agli “accordi di Abramo” del Regno, ha visto riconosciuta la sovranità marocchina sul Sahara Occidentale dal presidente uscente Donald Trump nel dicembre 2020, tacitamente confermata da Joe Biden.

In Algeria, racconta Belhadj Mohamed, “le manifestazioni del 2011 possono leggersi anche come un continuum della guerra civile della decade degli anni novanta. Bouteflika aveva inizialmente gestito le proteste”, ed era rimasto in carica.

Ma le manifestazioni sono continuate ogni venerdì, e hanno portato a una nuova “primavera algerina” nel 2019. Ancora oggi il “pouvoir” (potere), come viene chiamato in Algeria, non cede. La partenza del dittatore nel 2019 non ha portato alle aperture democratiche sperate dal cambio di governo e l’Algeria rimane un rentier state autoritario.

Il Libano è un paese allo stremo (ne abbiamo scritto qui) oggi più che mai dopo la guerra civile: crisi economica, divisione settaria della popolazione, forti ingerenze esterne e l’esplosione del porto di Beirut hanno piegato la popolazione, per la quale la pandemia è solo uno degli innumerevoli problemi quotidiani.

Primavere arabe 10 anni dopo: e ora?

Come ha affermato Marcella Emiliani alla presentazione del suo libro Purgatorio arabo, “non si può dire certamente che le primavere arabe abbiano avuto successo”, e ammonisce:

Questi fenomeni di manifestazione e di rabbia, che sfociano in episodi di violenze, si ripeteranno nel corso degli anni finché nella regione non arriverà una forma democratica di governo e una situazione di benessere diffuso della ricchezza. Le condizioni nei 10 anni che sono passati dalle Rivoluzioni ad oggi si sono aggravate, non certo migliorate.

Certo, a prescindere dai risultati – poco o nulla soddisfacenti – rimane il fatto che è stato prodotto un inedito sconvolgimento a livello di potere, dopo vari decenni di immobilità e di conduzione familiare dei governi.

Il percorso per arrivare all’auspicato approdo della democrazia e del benessere diffuso nei paesi arabi, però, è lungo e pieno di ostacoli. A mio avviso il principale è l’attuale sistema economico globalizzato e neoliberale che vede la regione araba un soggetto debole dell’economia mondiale, e che allo stesso tempo concentra il potere economico e politico nelle mani di una élite all’interno di ciascun paese della regione. Il divario tra questa élite e il resto della popolazione, poi, aumenta sempre più, dando vita a società diseguali e poco coese.

Il ruolo dell’Unione Europea, così come quello degli altri grandi attori internazionali nella regione (come Stati Uniti, Turchia e Russia) è ulteriormente deleterio. L’Unione Europea utilizza le altre rive del Mediterraneo come frontiera esterna, contribuendo a creare ulteriore instabilità sociale, dovuta alla presenza di una popolazione migrante difficilmente integrabile nel tessuto sociale ed economico e destinata ad essere soltanto una posta in gioco politica. Inoltre, si rende bersaglio di possibili ritorsioni da parte dei paesi gendarmi, Turchia e Marocco su tutti.

Gli Stati Uniti portano avanti la loro visione neoimperialista nella regione, totalmente dipendente dai prestiti del Fondo Montetario Internazionale e della Banca Mondiale. In cambio, continuano a agevolare una globalizzazione dell’economia dei paesi arabi, a totale detrimento della maggior parte cittadini che non ricevono alcun beneficio da tale apertura.

Russia e Turchia hanno approfittato del gap politico di un’Unione instabile e Stati Uniti in disengagement militare per inserirsi quali nuove potenze commerciali e militari regionali, e ottenere nuovo spazio di manovra e di influenza politica nel Mediterraneo orientale.

Insomma, le condizioni economiche, politiche e sociali interne agli stati arabi non lasciano presagire un miglioramento della situazione a breve, e le ingerenze esterne non fanno che acuire tali problematiche. Il peso della lotta per il cambiamento dello status quo è oggi sulle spalle delle nuove generazioni dei paesi arabi, ma anche, a mio avviso, della società civile globale, che ha il compito di studiare, comprendere, informare e contribuire al miglioramento delle condizioni di vita in tutti i paesi della regione.

primavere arabe 10 anni dopo
Proteste a Aden, Yemen, nel 2011 | Foto: Almahra

Primavere arabe 10 anni dopo: per approfondire

Diwan, I., Malik, A., Atiyas, I. (2019). Crony Capitalism in the Middle East: Business and Politics from Liberalization to the Arab Spring. Oxford University Press, 2019. Pp. 1-38.

Emiliani, M. (2020). Purgatorio arabo. Il tradimento delle rivoluzioni in Medio Oriente, Laterza: Bari

Emiliani, M. (2012). Medio Oriente: una storia dal 1991 a oggi, Laterza: Bari

Emiliani, M. (2021). Perché sono fallite le primavere arabe?, dialogo con D. Pioppi e F. Guazzani, webinar reperibile su YouTube.

Guazzone, L., Pioppi D., (2009, ed.). The Arab State and Neo-Liberal Globalization: The Restructuring of State Power in the Middle East, Ithaca Press: Reading

Hanieh, A. (2013). Lineages of Revolt: Issues of contemporary capitalism in the Middle East, Hatmarket Books: Chicago

Kepel, G. (2021). Il ritorno del profeta. Perché il destino dell’Occidente si decide in Medio Oriente, Feltrinelli: Milano

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Geografo, si interessa di Mediterraneo e paesi arabi, che sono l’oggetto dei suoi studi e dei suoi articoli. È appassionato di storia delle relazioni internazionali, letteratura e sport. Nei suoi scritti presta particolare attenzione alle disuguaglianze sociali ed economiche.
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