Cos’è il Green Capitalism e come le grandi aziende sfruttano la retorica della sostenibilità7 min read
Reading Time: 5 minutesTra i temi più dibattuti della nostra epoca vi è indubbiamente quello legato alla sostenibilità ambientale. In particolare, da tempo ci si chiede se il sistema economico capitalista così come è nato nell’ottocento ed esploso nella seconda metà del novecento sia ancora praticabile, visto l’impiego di risorse sempre più consistente che richiede.
La risposta comune è decisamente no. Le grandi aziende provano allora a muoversi in un’ottica di green capitalism, cioè un capitalismo dipinto come sostenibile.
Ma cos’è il green capitalism? E cosa non viene detto riguardo al green capitalism? Quali sono i costi nascosti dalla retorica della sostenibilità e gli effetti negativi che esso porta con sé?
Abbiamo chiesto a Stefano Ponte, professore di economia politica internazionale alla Copenhagen Business School, se ha senso parlare di capitalismo verde, cosa si cela dietro questa etichetta, che conseguenze negative non dichiarate ci sono e chi vanno a colpire.
Professor Ponte, cos’è il green capitalism e quali sono le sue peculiarità?
Il capitalismo verde è il capitalismo come lo conosciamo, con il suo ciclo del valore (dalla produzione al trasporto e al consumo), ma “tinto di verde”, cioè con la pretesa di fare le cose in maniera differente dal passato riguardo al tema della sostenibilità ambientale. Ma attenzione: il profitto rimane sempre l’obiettivo primario delle grandi aziende.
Questo di per sé è normale, ma si tratta di vedere se questa profittabilità è estratta da altri e/o crea altri problemi, come il greenwashing – cioè dove tu vendi dei prodotti che dovrebbero essere sostenibili, ma in pratica non lo sono, o perché non si riesce bene a misurarne la sostenibilità o perché si misurano gli aspetti sbagliati.
Le aziende sono oggigiorno particolarmente attente alle dinamiche dei cambiamenti climatici globali e cercano di dipingersi sostenibili. Esse sfruttano la retorica della sostenibilità per più ragioni che hanno tutte come scopo massimizzare l’accumulazione di capitale: da un lato, dirsi sostenibili crea valore, grazie a prodotti nuovi e migliori da vendere, offerti come più sostenibili per l’ambiente, e che ampliano il portfolio di prodotti commerciabili.
Inoltre, esse minimizzano il loro “rischio reputazionale”. Definendosi sostenibili, e adottando alcuni accorgimenti apparentemente a favore dell’ambiente, le aziende si mettono al riparo da scandali legati a pratiche di produzione contrarie alle direttive ambientali tracciate, ad esempio, dagli SDGs e dagli accordi di Parigi del 2015. Questo vale soprattutto per le aziende quotate in borsa, che si proteggono da potenziali shock derivanti dall’accusa di comportamenti non sostenibili.
Infine, le grandi aziende si appropriano di valore creato da altri attraverso la sostenibilità; come? Nel mercato globale, le aziende multinazionali dei paesi ricchi impongono ai produttori locali nei paesi a basso reddito pratiche di produzione sostenibili, senza però garantirgli un prezzo adeguato.
Le aziende alzano i prezzi dei propri prodotti al consumo, in quanto divenuti sostenibili, ma i produttori locali non vengono riconosciuti economicamente. Anzi, questi devono aumentare i loro costi di produzione per garantire la pratica sostenibile.
Quali sono quindi le conseguenze del capitalismo verde?
Per come la vedo io, questo capitalismo verde ha delle conseguenze negative molto rilevanti, soprattutto per quanto riguarda la creazione di “unjust sustainability” (sostenibilità ingiusta) dovuta alla necessità di massimizzare il profitto.
Di fatto, con queste pratiche di “sostenibilità” si creano ulteriori diseguaglianze: come accennato, le grandi aziende beneficiano di pratiche sostenibili di produzione imposte ai produttori, alzando i prezzi del prodotto oppure rientrando nel mercato di nicchia dei prodotti etichettati sostenibili. È quello che chiamiamo “sustainability suppliers squeeze” – la spremitura sostenibile dei produttori -, molto spesso collocati nei paesi del Sud del mondo.
In più, molte grandi aziende che si fregiano del virtuoso titolo di sostenibilità dei loro prodotti, poi cercano di farsi tassare nelle nazioni dove le aliquote sono più basse, per esempio in Irlanda. Da un lato, dunque, si arricchiscono grazie alla narrativa di sostenibilità e dall’altro mantengono quanto guadagnato pagando meno tasse tramite accordi con gli stati o trasferendo la proprietà intellettuale dove viene tassata di meno.
Come si potrebbero risolvere i problemi legati a questa sostenibilità ingiusta?
Ci sono molte idee innovative riguardo all’organizzazione del sistema economico nel rispetto dell’ambiente, e questo è positivo. Purtroppo per ora non sono ancora efficaci, poiché si scontrano con gli interessi di attori molto potenti. Nella nuova distribuzione di fondi da parte dell’Unione Europea, per esempio, molta attenzione è posta alla transizione verde, ma bisognerà fare molta attenzione a come questi fondi verranno utilizzati davvero.
Così come bisogna fare attenzione riguardo alle cosiddette partnership poste in atto per risolvere i problemi ambientali. Nella mia esperienza, infatti, la maggior parte delle volte non si configura una situazione win-win, dove entrambi gli attori hanno gli stessi benefici. Spesso chi detiene un potere maggiore è quello che ne guadagna, mentre l’altro perde.
Per arrivare a una sostenibilità giusta (just sustainability), si può partire dall’analisi del concetto di Capitalocene proposto da Jason Moore. In pratica, noi viviamo in un’era in cui non è tanto l’uomo in sé ad avere enormi impatti sull’ambiente (l’idea di Antropocene), ma il sistema economico con cui esso ha organizzato la società (quindi il Capitalocene).
Un’idea per dirigersi verso una sostenibilità giusta può essere quella della prosperità senza crescita; che può iniziare cambiando quelli che sono gli indicatori per misurare il benessere. Non più, dunque, la produzione e il consumo come indicatori principali.
Inoltre, bisogna fare fronte alle disuguaglianze a livello globale, sia quelle strutturali che quelle derivanti dalla sostenibilità. Bisogna infatti imparare a leggere le “esternalità negative verdi”, cioè su chi ricadono gli effetti indesiderati delle pratiche di capitalismo verde, e combatterle.
Insomma, bisognerebbe avere un’economia che punta più alla comunità che all’individuo e uno stato che si faccia imprenditore della transizione verde, eliminando gli effetti perversi e insostenibili dell’attuale capitalismo verde volto al mero profitto.
Chi, secondo lei, ha gli strumenti oggi per dare concretezza all’idea di una transizione verde giusta?
Io sono convinto che noi in primis possiamo portare un piccolo contributo, con le nostre scelte di consumo. Detto questo, però, invito sempre a non individualizzare la responsabilità, poiché chi ha in mano le chiavi per la transizione a un sistema economico giusto sono i grandi attori nazionali e internazionali.
Dunque, ci vuole attenzione nei nostri comportamenti in quanto consumatori, ma reputo che l’individualizzazione della responsabilità tolga pressione politica su chi potrebbe davvero effettuare un cambiamento.
Green Capitalism: conclusioni
Esempi di come la sostenibilità diventi un fattore nella catena del valore di prodotti sono stati studiati per anni da Stefano Ponte e riportati nel suo libro Business, Power & Sustainability in a World of Global Value Chains. Il professore si è concentrato in particolare sulla catena del valore e sull’incidenza della sostenibilità nei mercati del vino, caffè e biocarburanti.
Infine, è interessante notare uno dei casi più eclatanti di green capitalism che vedono paesi non-economicamente-avanzati subire le esternalità negative verdi. Si tratta del progetto della centrale solare di Ouarzazate, in Marocco, la più grande del mondo.
Il geografo Hamza Hamouchene denuncia come al di là della retorica utilizzata dal governo marocchino e dai principali investitori privati, che parla di “taglio delle emissioni” ed “energia pulita per tutti”, vi sia in realtà un’appropriazione della terra (land grabbing, in questo caso green grabbing), un intenso consumo di acqua a discapito della comunità locale e, in generale, una ricchezza creata tramite la narrativa della sostenibilità che va a beneficiare solamente i pochi grandi investitori.
Insomma, affinché il nostro sistema economico diventi meno dannoso per l’ambiente, non è sufficiente che la sostenibilità diventi profittevole, poiché la nostra incapacità di misurarla fino in fondo crea nuove ingiuste disuguaglianze (sociali, economiche e ambientali).
Riuscirà la nostra società a invertire la rotta e allentare la pressione che esercita sul Pianeta, andando verso una sostenibilità giusta e non di facciata?
Cos’è il green capitalism: Per approfondire
Mann, M. (2021), The New Climate War: the fight to take back our planet, Scribe Publications
Raworth, K. (2017). L’ economia della ciambella. Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo, Edizioni Ambiente
Rogers, H. (2010). Green Gone Wrong: How Our Economy Is Undermining the Environmental Revolution, Scribner Book Company