Giusta transizione: di che cosa stiamo parlando?10 min read

19 Aprile 2024 Ambiente Clima -

Giusta transizione: di che cosa stiamo parlando?10 min read

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Da quando anche l’Unione Europea, e a seguire l’Italia, si sono dotate di un fondo per la just transition, il concetto di giusta transizione è diventato di uso comune e sta attirando una crescente attenzione non solo nel settore sindacale, da cui proviene, ma anche tra le forze politiche, le imprese, le organizzazioni ambientaliste e i movimenti di contrasto al cambiamento climatico.
Che cosa significa “giusta transizione”? Ad oggi non c’è una definizione universalmente accettata, ma per orientarci possiamo fare riferimento alla definizione fornita nel 2022 (pdf) dal Pannel Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici (IPCC), secondo cui si tratta di “un insieme di principi, processi e pratiche che mirano a garantire che nessuna persona, lavoratore, luogo, settore, Paese o regione venga lasciata indietro nella transizione da un’economia ad alto contenuto di carbonio a una a basso contenuto di carbonio”. Il concetto viene dunque utilizzato per contrastare l’idea che la protezione del lavoro e dell’ambiente siano due obiettivi che si escludono a vicenda, oltre che per ampliare il dibattito sulle transizioni ecologiche dalle questioni tecniche (energetiche) alle loro implicazioni di giustizia sociale. In sintesi: dove c’è una transizione ecologica da fare, molto probabilmente c’è bisogno di discutere di giusta transizione. È il caso dell’Europa e dell’Italia richiamate poco sopra: il Fondo per la Giusta Transizione costituisce infatti il cuore del Green Deal europeo, il pacchetto di politiche adottato nel 2020 che dovrà portare l’Unione Europea alla neutralità climatica entro il 2050. Nello specifico caso italiano, le risorse comunitarie serviranno per fornire sostegno alla Provincia di Taranto e al Sulcis Iglesiente, due territori che dovranno fare i conti con importanti sfide socioeconomiche nel loro percorso di transizione verso la neutralità climatica.
È solo da tempi recenti, però, che intendiamo la giusta transizione in questo modo. Fino a meno di dieci anni fa le cose stavano in modo un po’ diverso. Ripercorrere la storia di questo concetto permette di portare a galla un po’ della sua complessità e capire alcune delle contraddizioni che tuttora lo attraversano.

Alle origini della Just Transition

Rust Belt, la “cintura della ruggine”, anni Settanta e Ottanta del Novecento: siamo nel cuore dell’industria pesante statunitense, tra i monti Appalachi e i Grandi Laghi, e nel mezzo di un difficile processo di deindustrializzazione, che si lascia alle spalle una scia di impianti abbandonati e di inquinanti tossici dispersi nell’ambiente. L’opinione pubblica nordamericana è sempre più preoccupata degli impatti sulla salute e sull’ambiente delle industrie pericolose; allo stesso tempo, cresce la richiesta di tutele per i lavoratori delle fabbriche che vengono via via dismesse. In risposta al Superfund Act del 1980, un programma federale per la bonifica dei rifiuti tossici ambientali, il sindacalista Tony Mazzocchi della Oil, Chemical and Atomic Workers Union organizza un’ampia campagna per l’istituzione di un analogo “Superfund for Workers”. Il “superfondo” proposto ha lo scopo di fornire ai lavoratori esposti a sostanze chimiche tossiche un reddito minimo e benefici educativi, in modo da consentire loro di abbandonare il lavoro pericoloso e trovare una nuova occupazione.
Si ritiene che Mazzocchi sia stato il primo a usare l’espressione “giusta transizione”. Lui e il movimento sindacale nordamericano lottarono per gettare un ponte, per la prima volta, tra i temi del lavoro, della salute e della giustizia ambientale. Si impegnarono per rafforzare l’ambientalismo operaio responsabilizzando i lavoratori e le comunità “a conoscere e ad agire”.
Il “superfondo per i lavoratori”, tuttavia, non venne mai realizzato. Le industrie chimiche e petrolchimiche inquinanti lottarono con ogni mezzo per la propria sopravvivenza, lanciando una serie di campagne pubbliche che negavano la pericolosità dei loro prodotti. Nel frattempo, le alleanze tra gli attivisti del lavoro e dell’ambiente si indebolirono gradualmente, sia negli Stati Uniti che nel resto del mondo, perché i datori di lavoro delle industrie inquinanti fecero ricorso al ricatto occupazionale, costringendo i lavoratori a scegliere tra il proprio lavoro e la propria salute. Dalla fine degli anni Ottanta bisognerà aspettare quasi trent’anni perché il tema della giusta transizione riemerga nei dibattiti sindacali internazionali. Questa volta, per un’emergenza diversa: il cambiamento climatico.

Non c’è lavoro su un pianeta morto

© documerica – Unsplash

Di cambiamento climatico, in realtà, si parla da settant’anni, tenendo conto che risale al 1953 l’articolo del New York Times sul ruolo dell’industria nel riscaldamento globale, considerato la prima pubblicazione generalista sull’argomento. Di fatto, però, solo a partire dalla fine del secolo scorso si è iniziato a sviluppare un vero dibattito politico in merito. Ancora una volta, i sindacati sono stati pionieri nel mettere in evidenza le implicazioni sociali della crisi climatica e delle politiche necessarie per mitigarla. Due organizzazioni hanno contribuito in modo significativo allo sviluppo e alla risemantizzazione del concetto di giusta transizione nel mutato contesto del riscaldamento globale: la Just Transition Alliance, una coalizione di gruppi di giustizia ambientale e di lavoratori fondata nel 1997 in California, focalizzata sui temi della sicurezza sul lavoro, sulla crescita sostenibile dei posti di lavoro e sulla salute pubblica, e la Climate Justice Alliance, una coalizione di organizzazioni di base per la giustizia ambientale fondata nel 2013 con l’obiettivo di smantellare le disuguaglianze strutturali e costruire un’alternativa al modello estrattivista di produzione e consumo. Entrambe, insieme a molti altri gruppi, hanno ribadito la necessità di politiche di mitigazione e adattamento eque, ma anche l’urgenza di agire per invertire la rotta perché, come sottolinea lo slogan lanciato dalla Confederazione sindacale internazionale (ITUC) nel 2015, “non c’è lavoro su un pianeta morto”.
Le Linee guida sulla giusta transizione (pdf) approvate dall’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO) nel 2015 costituiscono un importante punto di convergenza di questo variegato lavoro concettuale. In esse la giusta transizione viene definita come “rendere l’economia più verde in un modo che sia il più equo e inclusivo possibile per tutti gli interessati, creando opportunità di lavoro dignitose e non lasciando nessuno indietro”. Questa definizione sottolinea due aspetti chiave: da un lato, la necessità di misure che promuovano la creazione di nuovi posti di lavoro verdi e dignitosi nei settori emergenti; dall’altro, l’importanza di misure che limitino gli impatti negativi sui lavoratori e sulle comunità derivanti dall’eliminazione graduale dell’industria, compresa la perdita di posti di lavoro.
La vera svolta arriva però con l’Accordi di Parigi, al termine della COP21 del 2015 – un anno dunque cruciale per la giusta transizione. Nel Preambolo viene richiamata la necessità per i governi di prendere in considerazione “gli imperativi di una giusta transizione della forza lavoro e la creazione di lavoro dignitoso e posti di lavoro di qualità in conformità con le priorità di sviluppo definite a livello nazionale”. Sono poche parole, ma decisive: la giusta transizione non è più solo un obiettivo particolare delle organizzazioni dei lavoratori, ma è diventata un elemento riconosciuto all’interno di un quadro globale per affrontare il cambiamento climatico. Il suo potenziale di mobilitazione è enormemente aumentato. Sarà poi la COP24 di Katowice a proseguire il percorso iniziato a Parigi con la Dichiarazione di Slesia sulla solidarietà e l’equa transizione (pdf). Essa evidenzia il ruolo cruciale della giusta transizione per garantire il sostegno pubblico alla riduzione delle emissioni a lungo termine e consentire dunque ai Paesi di raggiungere gli obiettivi a lungo termine dell’Accordo di Parigi.

Transizione o rivoluzione?

Nell’ultimo decennio il concetto di giusta transizione è stato ripreso dai movimenti per la giustizia ambientale e per i diritti delle popolazioni indigene, ma anche dalle aziende, dalle banche e dai governi nazionali. Con la crescita della sua popolarità, si sono così così moltiplicate le sue interpretazioni: oggi la giusta transizione è un concetto esteso, messo al servizio di una vasta gamma di ideologie. Le richieste di una giusta transizione possono andare dalla semplice rivendicazione di creazione di posti di lavoro nella green economy, a una critica radicale dell’economia capitalistica e al rifiuto di soluzioni di mercato. In questo continuum, tutte le opzioni sono rappresentate: dal mantenimento dello status quo fino ad approcci trasformativi che implicano la distruzione di sistemi interconnessi di oppressione come il razzismo, il patriarcato e il classismo. Questi approcci trasformativi coincidono talvolta con il pensiero della decrescita, che mira a rivedere l’economia basata sulla crescita e si pone così in contrasto con i paradigmi dominanti di economia e sviluppo sostenibile, tra cui gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile e in particolare l’SDG 8 sul lavoro dignitoso e la crescita sostenibile. Altri approcci trasformativi, invece, propongono dei modelli riparativi e redistributivi volti a ridurre le disuguaglianze attraverso l’azione climatica. Secondo queste prospettive, infatti, la sostituzione dei combustibili fossili con fonti energetiche a basse emissioni di carbonio, come il solare fotovoltaico e l’eolico, potrebbe non risolvere di per sé le ingiustizie ma anzi crearne di nuove, tra cui la distribuzione iniqua dei rischi ambientali e la mancanza di rappresentanza e influenza delle comunità locali interessate dalle infrastrutture di energia rinnovabile. Senza una trasformazione radicale delle strutture economiche e di potere, la transizione verde potrebbe esacerbare forme di sfruttamento già in essere, legate per esempio all’accaparramento di terre per la costruzione di pozzi di assorbimento del carbonio e impianti di energie rinnovabili.
La differenza delle interpretazioni si registra anche su scala geografica. La giusta transizione è infatti un concetto che è stato sviluppato dal Nord globale per rispondere a una serie di problemi che sono peculiari dei Paesi sviluppati. Molti Paesi poveri o in via di sviluppo guardano invece con cautela, quando non in modo apertamente critico, a questo quadro teorico, rivendicando il diritto allo sviluppo economico, alla crescita della domanda interna di energia e sottolineando il loro contributo inferiore alle emissioni di gas serra. In questo dibattito sono in gioco anche complesse questioni politiche ed economiche, che riguardano le forme passate e in corso di sfruttamento delle risorse e le pratiche estrattive dei Paesi più ricchi nei confronti di quelli più poveri, nonché l’esternalizzazione delle loro esigenze produttive e manifatturiere verso questi Paesi. Le interdipendenze strutturali e le disuguaglianze che sono derivate da questi accordi fanno sì che la possibilità di far emergere “giuste transizioni” in molte parti del mondo meno sviluppate sarà probabilmente condizionata, almeno in parte, da cambiamenti nelle politiche e nelle pratiche economiche dei Paesi più sviluppati. Ad oggi nel Sud globale sono più forti le istanze per la giustizia climatica, la giustizia sociale e la giustizia ambientale, visto che molte comunità locali sopportano il peso degli effetti ecologici e sociali causati dall’estrazione di risorse solitamente destinate a servire popolazioni lontane e più ricche, dagli impatti del cambiamento climatico e della perdita di biodiversità e dalle disuguaglianze economiche, sociali e razziali che si spesso si intersecano.

Marcia per il clima, Dubai 2023
Foto dell’autrice scattata durante la marcia per il clima alla COP28 di Dubai (dicembre 2023).

Prospettive future

La giusta transizione è un concetto ancora utile, oppure è diventato così ampio da risultare vago? È tuttora in grado di mobilitare settori sociali decisivi, come quello operaio, oppure, avendo perduto il suo “marchio” sindacale, è stato neutralizzato e svuotato della sua portata politica? Qualcuno ha sostenuto che il termine giusta transizione debba il suo recente successo proprio al fatto di essere diventato un significante vuoto, attraverso il quale si possono esprimere visioni contrastanti senza però dover esporre i propri disaccordi.
Soprattutto: come passare dalla teoria della giusta transizione ai fatti, e dunque alla sua attuazione? Al momento, secondo un’analisi (pdf) della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) solo il 57% dei Paesi si è posto impegni relativi alla giusta transizione nei propri obiettivi di decarbonizzazione, su un totale di 68 Paesi responsabili del 76% delle emissioni globali. La strada verso la giusta transizione è lunga e piena di bivi. Le possibilità sono molte e molto differenti tra loro, soprattutto se verrà conservata la dimensione radicale con cui questo concetto è nato: le opzioni oggi dibattute spaziano dall’introduzione di un reddito di base universale alla sperimentazione di nuove forme di rapporto (e possesso) con la terra. Quello che è certo è che la giusta transizione, anzi le giuste transizioni, dovranno sempre essere processi locali, specifici, concretamente situati in contesti e condizioni date. Ciò detto, restano comunque validi alcuni principi generali, tra cui quelli proposti dallo Stockholm Environment Istitute: a) pianificare le transizioni a lungo termine, allineandosi sia agli obiettivi climatici che agli impegni per migliorare l’uguaglianza sociale; b) tenere conto della giustizia distributiva e procedurale e considerare in maniera sistemica i gruppi che saranno colpiti dalla decarbonizzazione; c)  considerare le transizioni come delle opportunità per rimediare alle ingiustizie sistemiche esistenti. Infine, e forse più importante: c’è bisogno di progetti capaci di parlare anche all’immaginazione delle persone e che aiutino a riorganizzare le aspirazioni individuali e collettive in direzioni diverse e nuove.

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🌱Natura ♻️ Sostenibilità ⚖️Giustizia Questi sono i tre valori che orientano le mie azioni e il mio lavoro. Dopo una laurea magistrale in filosofia, provo a trasformare la teoria in pratica attraverso la comunicazione, la divulgazione, l’educazione e la progettazione.
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