Cos’è il welfare aziendale | Esempi, benefici e criticità12 min read
Reading Time: 9 minutesLa necessità di sostenere le lavoratrici e i lavoratori nell’attuale crisi sanitaria, economica e sociale ha rinnovato l’interesse verso il welfare aziendale, già alto a partire dalla crisi del 2008.
Questa forma di integrazione del welfare state, stimolata da alcuni interventi legislativi tra il 2016 e il 2018, permette oggi a circa 2,5 milioni di lavoratori italiani dipendenti dei CCNL – Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro – di godere dei suoi benefici, e alle imprese che la adottano di avere incentivi e sgravi fiscali.
Negli ultimi anni, la crescita del welfare aziendale si è estesa notevolmente, stimolando lo sviluppo delle misure di conciliazione vita-lavoro e proponendosi come iniziativa vantaggiosa sia per lo Stato, sia per i dipendenti e le aziende.
Abbiamo quindi deciso di approfondire il fenomeno: cos’è il welfare aziendale? Che storia ha? In cosa consiste concretamente? Quali sono i suoi benefici e le sue criticità? Che ruolo può giocare in relazione all’emergenza Covid-19?
Ci hanno aiutato a rispondere a queste domande Franca Maino, direttrice del laboratorio di ricerca Percorsi di secondo welfare, e Renata Semenza, sociologa dell’Università Statale di Milano, che abbiamo intervistato per alcuni chiarimenti e approfondimenti.
Dal welfare state al secondo welfare
Regno Unito, 1942. Nel pieno del secondo conflitto mondiale, Sir William Beveridge, rettore dell’University College di Oxford, consegna al primo ministro Winston Churchill un opuscolo dal titolo Il Piano Beveridge. Atto di nascita del moderno welfare state, il progetto di protezione e politica sociale a sostegno del benessere della popolazione intendeva assicurare, facendo leva sull’aumento sulla spesa pubblica, reddito, alimentazione, alloggio, istruzione e cure mediche.
Era necessario, infatti, trovare un nuovo equilibrio tra crescita economica e contenimento delle disuguaglianze generate dall’economia di mercato. Equilibrio che, proprio grazie al welfare state, viene trovato, almeno durante il cosiddetto Trentennio Glorioso (1945-1975). Diffondendosi dall’Inghilterra agli altri paesi europei, la spesa pubblica per il welfare si espande, ed è indirizzata a garantire diritti sociali, tutela della salute, istruzione in tutta Europa.
Tuttavia, dopo questa prima fase, qualcosa si inceppa. Come spiegato da Filippo Di Nardo nel saggio L’evoluzione del welfare aziendale in Italia, il successo del welfare state si basava su tre pilastri: crescita demografica, crescita economica e mercato del lavoro stabile e strutturato.
Dopo la crisi degli anni settanta, questi trend cominciano a invertirsi: l’incremento demografico si trasforma in declino, la crescita economica rallenta, il mercato del lavoro diventa sempre più instabile e flessibile. In questo scenario, lo sviluppo di una corrente politica neoliberista critica nei confronti della spesa pubblica e dell’intervento statale mette in crisi i presupposti teorici del welfare state.
Questi cambiamenti, oggi ancora in atto, hanno portato alla nascita di un’ampia letteratura sulle trasformazioni del welfare state e ad un proliferare di nozioni e filoni di studio. In Italia si è parlato dell’avvento di un secondo welfare, espressione che indica un insieme di protezioni e investimenti sociali realizzati da soggetti privati ed enti del terzo settore collegati in reti dal forte ancoraggio territoriale.
Affiancandosi progressivamente al primo welfare di natura pubblica ed obbligatoria, il secondo welfare integra il primo, mobilitando risorse non pubbliche per rispondere ai bisogni sociali emergenti nella società contemporanea.
La stagione del welfare aziendale
Una delle manifestazioni più significative del secondo welfare è il welfare aziendale, descritto nel quarto rapporto sul secondo welfare in Italia Nuove alleanze per un welfare che cambia come:
Quell’insieme di dispositivi in denaro e servizi forniti ai dipendenti dalle aziende private (…), in conseguenza del rapporto di lavoro che intercorre fra i primi e i secondi, con l’obiettivo di accrescere il benessere personale e lavorativo dei dipendenti e, spesso, dei loro nuclei familiari.
Sanità integrativa, previdenza complementare, corsi di formazione, assistenza agli anziani, servizi per l’infanzia, sono solo alcune delle prestazioni che le aziende possono fornire ai dipendenti godendo dei vantaggi fiscali consentiti dal legislatore. Infatti, questo tipo di welfare riduce il costo del lavoro sostenuto dalle aziende, permettendo di retribuire in parte i propri dipendenti tramite prestazioni soggette a completa detassazione. Oltre al minore costo del lavoro, le imprese hanno benefici in termini di fidelizzazione, retention e immagine.
Per lo Stato è un efficace sostegno alle misure classiche di welfare state, contribuendo al benessere della popolazione senza aumentare la spesa pubblica. Al contempo, il welfare aziendale implica un aumento del potere di acquisto del salario del dipendente, poiché può usufruire di servizi il cui corrispondente valore è maggiore della retribuzione monetaria che riceverebbe al loro posto. Infine, come vedremo, un welfare aziendale ben programmato può contribuire a una maggiore flessibilità della prestazione lavorativa e al benessere del lavoratore.
In Italia il tipo di welfare aziendale più diffuso e più incentivato è il welfare contrattuale, che nasce da un accordo tra impresa, organizzazione datoriale e sindacati. A partire dal 2016, si è diffuso molto grazie al rinnovo del CCNL (Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro) del settore metalmeccanico che, per la prima volta, ha introdotto il welfare come componente aggiuntiva degli aumenti salariali. Questa novità ha reso il welfare contrattuale più vantaggioso, tanto che molti settori che hanno rinnovato il CCNL dopo il 2016 lo hanno inserito.
Nel già citato rapporto di Percorsi di secondo welfare, si legge che i CCNL che dall’inizio del 2016 hanno previsto una quota da spendere in beni e servizi di welfare coinvolgono circa 2,5 milioni di lavoratori italiani, la metà dei quali sono metalmeccanici. I servizi più diffusi sono i fondi di previdenza complementare (Fondo Cometa per i metalmeccanici) e i servizi sanitari integrativi, che sono anche le prime prestazioni di welfare aziendale ad essersi sviluppate.
Al di fuori di quanto stabilito nei contratti collettivi, l’impresa può comunque decidere autonomamente di introdurre iniziative di welfare aziendale; in questo caso si parla di welfare unilaterale. Seppure anch’esso in crescita, questo tipo di welfare beneficia di minori vantaggi fiscali rispetto a quello contrattuale ed è dal 2016 meno diffuso.
Vediamo ora più nel dettaglio due ambiti di applicazione del welfare aziendale di particolare interesse, perché innovativi rispetto ai più tradizionali fondi di previdenza complementare e servizi sanitari integrativi: il premio di risultato e le misure di conciliazione vita-lavoro.
Cos’è il welfare aziendale: il Premio di Risultato
Nello stesso anno del rinnovo del CCNL dei metalmeccanici (2016), è stata introdotta un’importante novità con la legge di stabilità: la possibilità di convertire la totalità o parte del Premio di Risultato (PdR) in beni e servizi di welfare a beneficio del lavoratore e del suo nucleo familiare, con una detassazione completa.
Il dipendente può scegliere di fruire, al posto del premio monetario, di prestazioni il cui corrispondente valore conferito in denaro sarebbe minore perché soggetto a tassazione. L’azienda, a sua volta, ne beneficia grazie a una diminuzione del costo del lavoro.
I beni e servizi, denominati flexible benefit, sono selezionabili dalla piattaforma relativa al piano di welfare dell’azienda e possono comprendere corsi di formazione, beni ricreativi, attività culturali e sportive, servizi di assistenza domiciliare, rimborso per le spese scolastiche dei figli, servizi sanitari come visite specialistiche e check up, buoni carburante, servizi di trasporto, ricariche telefoniche, nonché l’iscrizione a fondi di previdenza complementare e di sanità integrativa.
Per chiarirne i vantaggi, si consideri che con un PdR di 1.000 euro senza conversione, l’azienda dovrebbe prevedere un costo di circa 1.300 euro, mentre il dipendente riceverebbe circa 660 euro. La conversione del premio consente invece all’azienda di sostenere un costo di 1.000 euro (senza tassazione), mentre il dipendente potrà usufruire dello stesso importo corrispondente in beni e servizi di welfare.
I benefici ricadono sia sull’impresa che sul dipendente, motivo per cui la conversione del PdR è una misura sempre più comune. Non si tratta di una prerogativa dei CCNL, essendo questo istituto contrattuale fortemente diffuso anche nella contrattazione decentrata. Il successo della conversione del PdR è evidente nei dati che mostrano una sua crescita di circa 5 punti percentuali tra il 2016 e il 2017 passando dal 4,5% al 9,2% dei contratti che prevedono welfare aziendale, per poi triplicare in un solo anno e giungere a 30,2% nel 2018.
In questa che appare una storia di successo per tutti ci sono però anche delle ombre. I piani di welfare aziendale dovrebbero essere concepiti, in base alla normativa, come strumenti per accrescere il benessere del lavoratore e dei suoi familiari rispondendo a esigenze di tipo sociale oltre che economico, fornendo quindi un servizio alla comunità. Tuttavia, ci dice Franca Maino:
Spesso le aziende fanno un uso improprio dei flexible benefit, limitandosi all’erogazione di buoni spesa o benzina e trasformando il welfare in un mero incentivo al consumo.
Quando l’impresa non implementa un piano di welfare considerando le esigenze dei suoi dipendenti, continua la professoressa Maino, “non sfrutta le potenzialità di fornire servizi utili alla collettività, che andrebbero a generare effetti positivi sul piano dei vecchi e nuovi bisogni sociali”.
Il work-life balance
Una seconda area che ha avuto uno sviluppo significativo nell’ultimo decennio è quella della conciliazione tra i tempi di vita e i tempi di lavoro (work-life balance). Prima considerata marginalmente nei progetti di welfare, quest’area mira a favorire un maggiore equilibrio tra l’orario lavorativo e quello della vita privata.
Della conciliazione fanno parte i servizi forniti all’interno dell’impresa, come il maggiordomo aziendale che si occupa di sbrigare commissioni per i dipendenti, e i servizi rimborsati dall’azienda, dedicati soprattutto all’infanzia, come ludoteche, asili nido, centri estivi. Infine, le misure di flessibilità oraria, come la possibilità di entrata e uscita nel luogo di lavoro in orario flessibile, l’introduzione dello smart working o del telelavoro.
Anche in quest’ambito il legislatore, tra il 2016 e il 2017, ha introdotto degli sgravi contributivi e nel 2017 ha approvato la legge volta a regolamentare lo smart working. Come riportato nel Quarto Rapporto sul secondo welfare in Italia, quest’ultima modalità di lavoro era presente solo nel 14% degli accordi in Italia nel 2016, passando al 68% nel 2018.
Essa ha cominciato a rivelarsi uno strumento valido non solo per la conciliazione, ma anche per contrastare l’inquinamento dovuto alla mobilità e al pendolarismo. Se il lavoro da casa imposto oggi a causa della crisi sanitaria non può essere definito smart working – quest’ultimo dovrebbe poter essere condotto anche in luoghi pubblici e rispondere a logiche più ampie di trasformazione dell’approccio al lavoro – fornisce tuttavia un’idea del minore impatto ambientale che la diffusione di una tale modalità lavorativa provocherebbe.
Cos’è il welfare aziendale: benefici e criticità
Il work-life balance, l’aumento del potere d’acquisto dei salari, i benefit di cui gode l’intera famiglia del dipendente evidenziano che il welfare aziendale può fungere da strumento di sostegno rispetto ai bisogni sociali della società contemporanea.
Allo stesso tempo, apporta evidenti benefici anche alle imprese: l’ottimizzazione dei costi del lavoro grazie agli sgravi fiscali e contributivi previsti, il miglioramento del clima aziendale in virtù di un’organizzazione del lavoro più duttile e flessibile, l’aumento della produttività derivante da un contesto aziendale favorevole alle esigenze dei dipendenti.
Il welfare aziendale porta con sé tuttavia anche una serie di problematicità non trascurabili. Innanzitutto, non si diffonde in maniera uniforme tra le aziende e i territori. La dimensione delle imprese fa spesso la differenza: solo il 26% di quelle che hanno attivato misure di welfare ha meno di 50 dipendenti. Vi è poi una spiccata differenziazione territoriale: più di due terzi (69%) degli accordi sono stipulati nel nord Italia, soprattutto in Lombardia (35%) e in Veneto (22%).
Un importante limite del welfare aziendale, inoltre, è che sostiene prevalentemente i lavoratori con contratti a tempo pieno e indeterminato. Come ci dice Renata Semenza, professoressa di sociologia economica e del lavoro presso l’Università degli Studi di Milano:
Esiste un problema di giustizia sociale: dato che gran parte dei lavoratori con rapporti di lavoro flessibilii, temporanei, intermittenti hanno solitamente un accesso limitato al welfare, il rischio che si corre è di accrescere la segmentazione e di aggravare le diseguaglianze già presenti nel mercato del lavoro.
Insomma, se il welfare pubblico distribuisce a tutti, quello aziendale tende a privilegiare determinate categorie. “Negli ultimi anni si sono diffuse soluzioni di welfare aziendale attente ai territori e potenzialmente più inclusive” spiega Franca Maino. Lo sviluppo del nuovo concetto di welfare aziendale territoriale è nato proprio con l’idea che a beneficiare dei servizi di welfare aziendale dovrebbe essere l’intera comunità e non solo il dipendente e la sua famiglia.
Il fulcro del welfare territoriale risiede infatti non nell’impresa, ma nella rete che connette quest’ultima alla sua comunità e al suo territorio di riferimento. “Un esempio”, spiega la professoressa, “è quello di un’azienda che apre un asilo nido a disposizione anche dei non dipendenti, accollandosi in questo modo un costo per la comunità”.
Il welfare aziendale durante la crisi del Covid-19
Il welfare aziendale potrebbe rivelarsi in questo frangente uno strumento essenziale a sostegno dei lavoratori e delle famiglie. Nelle prossime settimane, potrebbe inoltre essere determinante nel fornire delle soluzioni per i figli a casa da scuola, consentendo il rientro al lavoro dei genitori.
“I servizi più urgenti”, afferma la professoressa Maino, “saranno soprattutto le prestazioni per l’infanzia, insieme all’assistenza agli anziani e ai disabili e agli interventi di sanità integrativa. Le aziende che già in precedenza avevano adottato piani di welfare comprendenti questo genere di servizi saranno quelle più in grado di far fronte alla crisi determinata dalla pandemia Covid-19”.
È proprio in situazioni di difficoltà che si valuta l’efficacia di uno strumento come il welfare aziendale. A questo scopo, Percorsi di secondo welfare ha lanciato una survey, Open Call for Good Practices, rivolta a tutti i soggetti del mondo produttivo “che nelle ultime settimane abbiano avviato iniziative per fornire un sostegno concreto ai lavoratori, ai territori e/o alle istituzioni” con l’intenzione di mappare e diffondere le buone pratiche che stanno emergendo in queste settimane difficili.
“Le aziende che hanno un ufficio dedicato al welfare”, afferma Franca Maino, “dovrebbero per tempo pianificare l’utilizzo di risorse per tutelare i lavoratori e rimborsare i costi che i collaboratori e le loro famiglie sono costretti a sostenere in questa situazione di emergenza”. Il welfare aziendale potrebbe così rivelarsi un prezioso strumento per il contrasto degli effetti sociali della pandemia.
Nondimeno la crisi sanitaria a cui stiamo assistendo ha fatto emergere con forza l’importanza del welfare pubblico. “Il welfare aziendale non deve quindi essere frainteso come sostitutivo del welfare state, unico vero garante di un’assistenza universale”, conclude Renata Semenza.