Essere hikikomori | La storia di Francesco5 min read
Reading Time: 4 minutesChiusi in casa, in alcuni casi solo nella propria stanza, eliminando quasi completamente i rapporti con gli altri. Spesso un unico aggancio: internet. Sono gli hikikomori, giovani che si chiudono in casa rifiutando i contatti sociali. Abbiamo raccolto le storie di alcuni di loro; le storie sono vere, i nomi di fantasia.
“Siamo fermi davanti al cancello di scuola. Lo abbiamo visto aprire e poi chiudere. Mi ha chiesto di accompagnarlo, di camminare accanto a lui. Non volevo prendergli la mano, temevo che se ne vergognasse. È lui a prendere la mia, perché gli gira la testa, ha mal di stomaco. Comincia a diventare giallo in volto, poi verde. Oddio no, figlio mio, non vomitare! ‘Mamma, non ti preoccupare, ora sto meglio. Posso farcela, tu vai al lavoro, io entro. In caso ti faccio chiamare…’ Il più delle volte andava così: nemmeno facevo in tempo ad arrivare in ufficio che la scuola mi chiamava per dirmi che Francesco si era sentito male e dovevo andare a prenderlo”.
Francesco ha 17 anni quando si arrende. Basta scuola, basta calcio, basta amici e si chiude in camera. Ci rimane tre anni senza uscirne mai. “Non riuscivamo nemmeno a portarlo a fare le visite mediche” racconta Nadia, la mamma.
‘Io sicuramente mamma so volare’ le diceva Francesco quando era piccolo e provava a lanciare oggetti dalla finestra. ‘Ecco! Il vasino non vola ma io potrei’.
Francesco è un bambino molto riservato. “Ha iniziato a frequentare la materna a 3 anni. Lo lasciavo solo la mattina, perché facevo un part time, e il resto del pomeriggio lo passava arrabbiato con me. ‘Se tu esci alle 2, alle 2 devi essere qui’ mi diceva. Poi dovevo sfinirlo fisicamente: mare, parco, altri giri. Si addormentava solo quando era allo stremo”.
Le maestre mi dicevano che dopo un po’ si smollava e giocava anche con gli altri, ma quando arrivavo io, doveva farmi pesare la mia assenza. ‘Sono io a dover essere arrabbiato con te’. Era così piccolo quando mi faceva questi discorsi. Con lui sono sempre state discussioni interminabili e crescendo si sono dirottate su altri argomenti: ‘che studio a fare? Non serve a niente, so già tutto!’ oppure ‘Io non mi metto alla prova, perché sono già il migliore. Sono un genio, sono gli altri che non se ne accorgono’”.
Francesco cresce con tanta rabbia, si lamenta, mette in discussione tutto. E soprattutto continua ad avere un rapporto molto stretto con sua madre, nonostante il passare degli anni. “Francesco ha sempre avuto una visione del mondo che non ritrova riscontro nella realtà. Ha sviluppato nel tempo una grande insofferenza nei confronti degli adulti che non sono coerenti nei loro comportamenti”.
Il padre di Francesco, seppur sfuggente – come lo definisce sua moglie – ha un ruolo fondamentale in questa storia. “Nella sua testa, lui era perfetto: ingegnere, bravo negli sport, insomma un vincente. Una volta mi chiese se suo papà avesse mai partecipato alle Olimpiadi. Ci siamo separati 5 anni fa e da allora, almeno per me, va molto meglio”.
Francesco prova calcio, equitazione, piscina, pallavolo, atletica tra le elementari e le medie. “Alla prima frustrazione trovava sempre una scusa per mollare: ‘mi sono fatto male, non mi piace l’allenatore, il mio amico ha smesso’. Ho fatto di tutto per farlo andare avanti. Organizzavo delle mega merende dopo scuola e poi portavo i bambini in gruppo agli allenamenti, ma neanche questo è contato”.
Alle elementari Francesco si trova abbastanza bene, anche se non ha voglia di fare i compiti. Studia solo con la sua mamma.
Cercava molto il riconoscimento degli altri, specie degli amici, voleva che lo reputassero bravo, degno.
Quando Francesco inizia le scuole medie, nasce suo fratello Fabio. “Ne fu felice. Mi ricordo che un po’ si staccò da me, era diventato più autonomo. Stava spesso fuori a giocare con gli amici del quartiere, ma a scuola sempre la stessa storia: faceva una gran fatica. Mi sono rivolta a esperti di psicomotricità, psicologia, ma la rabbia continuava a crescere”.
Alle superiori peggiora tutto. “Ha continuato a fare i compiti solo con me, ma non voleva studiare. Io gli toglievo tutto: computer, videogiochi, ma lui minacciava di farsi del male e spaccava le cose: televisore, porte”.
È alla fine delle medie che Francesco comincia a esplodere, anche con suo padre. “Non sapevo più che cosa fare, avevo paura per Fabio”.
Nadia si arrende. “Eravamo tutti disperati. Smisi di proporre soluzioni, non ero più lucida. Poi si aggiunge un mio problema di salute che getta sulla casa una coltre di panico e incertezza. Francesco aveva appena cominciato la seconda superiore, dopo un’estate che avevamo passato a studiare per recuperare. In quel periodo si chiudeva nella sua stanza solo il pomeriggio, andava a scuola, spesso tornava indietro. La mia malattia non lo riguardava”.
A un certo punto Nadia, superata la convalescenza, dice a suo figlio che può decidere da solo. Non ne può più. “È proprio allora che lui ci prova. Va a scuola, ma arrivano i brutti voti. ‘Perché non mi aiutano e tu perché non me lo hai detto?’ e io gli ho risposto che cercavo di dirgli la stessa cosa da quando è nato”.
Ora Francesco ha 22 anni, dopo tre anni di vita ritirata qualche volta esce. “C’è stato un momento in cui ho contattato il Ser.t (servizio dipendenze patologiche, ndr) perché Francesco stava sempre sui videogiochi. Mi hanno spiegato un po’ di cose, ma ho smesso di insistere con lui. Quando suo padre se ne è andato, Francesco se l’è presa con me. Ma prima che lui uscisse, gli ha urlato in faccia che poi così perfetto non era e che lo aveva deluso. Adesso la sua rabbia si è calmata. Da un anno ha ricominciato a uscire, pochissimo, fa degli esperimenti: deve capire chi è“.
Suo fratello, che ormai fa le medie, l’anno scorso si è operato al cuore e dopo l’intervento non voleva più andare a scuola. Francesco lo ha guardato dritto negli occhi e gli ha detto: ‘Non vorrai mica diventare come me?’