Hikikomori in Italia | Chi sono, quanti sono, che storie hanno8 min read
Reading Time: 6 minutesChiusi in casa, in alcuni casi solo nella propria stanza, eliminando quasi completamente i rapporti con gli altri. Spesso un unico aggancio: internet. No, non stiamo parlando di un paese ai tempi dell’isolamento, ma di hikikomori, giovani che si chiudono in casa rifiutando i contatti sociali. Qui presentiamo il fenomeno hikokomori in Italia, qui le storie di alcuni di loro.
Io mi basto, fine pena mai
Smetti di chiamarmi tanto io non esco sai
Io mi basto, fine pena mai
I miei angeli e i miei demoni scaricati col wi-fi.
Canta Artemix in Hikikomori, un pezzo da 140 mila visualizzazioni che deve molto del suo successo al fatto che Artemix sa bene chi sia un hikikomori, cioè un “giovane che non esce mai di casa”, un “ritirato sociale”.
Di cosa stiamo parlando? Di uno dei fenomeni più discussi del momento. Hikikomori è un termine giapponese che significa letteralmente ‘stare in disparte’, isolarsi e si riferisce a chi si allontana dalla vita sociale per periodi molto lunghi (mesi o anni).
Come riportato in Il fenomeno dell’hikikomori: cultural bound o quadro psicopatologico emergente? – paper pubblicato da Aguglia et al. nel Giornale Italiano di Psicopatologia (pdf disponibile qui) – il termine hikikomori è stato coniato dallo psichiatra giapponese Tamaki Saito.
È un termine giapponese perché è in Giappone che il fenomeno si è svelato al mondo: qui già negli anni ottanta si cominciarono a manifestare i primi casi, ma la prima vera definizione e quantificazione del fenomeno risale al 2003 quando il Ministero della Salute, del Lavoro e delle Politiche Sociali giapponese pubblicò uno studio nel quale si evidenziava che in quell’anno c’erano state più di 14 mila consultazioni per hikikomori in tutti i centri di Salute Mentale del paese.
In quell’occasione vennero evidenziati anche alcuni criteri diagnostici: si entra in condizione di hikikomori in presenza di ritiro completo dalla società per più di sei mesi e rifiuto scolastico e/o lavorativo, e in assenza di pregressa diagnosi di altre patologie psichiatriche rilevanti, come schizofrenia o ritardo mentale.
Da qualche anno si parla di hikikomori, o “eremiti sociali”, anche in Italia. Sono giovani e giovanissimi, tra i 14 e i 30 anni, soprattutto maschi, che si ritirano nelle proprie stanze. Inizialmente si pensava che si trattasse di un fenomeno esclusivamente legato al Giappone e alla sua cultura; gli italiani, per indole più aperti, estroversi e meno inclini al senso di colpa e di vergogna, ne sarebbero rimasti immuni.
Di fatto non è così. Sebbene con peculiarità differenti, gli hikikomori ci sono anche nelle nostre case.
Chi sono gli hikikomori italiani?
Un giovane, molto spesso maschio, che frequenta l’ultimo anno delle scuole medie o una scuola superiore, che decide di rifugiarsi in casa, per proteggersi dalle pressioni di realizzazione che vengono dall’esterno (famiglia, scuola, società) e da se stessi.
È questo il profilo dell’hikikomori in Italia, confermato anche da Marco Crepaldi, psicologo fondatore dell’associazione Hikikomori Italia, che abbiamo raggiunto al telefono: «l’87,5% delle famiglie socie della nostra associazione ha un figlio maschio in ritiro sociale. Non è detto però che le femmine siano così poche: il loro numero potrebbe essere più alto, poiché la permanenza in casa di un soggetto femminile spesso non viene riconosciuto come patologico».
La maggior parte dei ragazzi di cui è a conoscenza l’associazione, continua Crepaldi, sono ritirati da oltre tre anni e hanno un’età media di 20 anni. Gli hikikomori in Italia sono quindi più giovani dei giapponesi, che raggiungono anche i 40 anni; quasi tutti usano la rete, in Giappone in minor numero; sembrano più propensi a farsi aiutare dei giovani giapponesi; il principale elemento in comune è la prevalenza di maschi.
Si tratta di giovani che percepiscono una distanza tra ciò che sono e ciò che pensano dovrebbero essere. Questa distanza viene colmata da sentimenti di impotenza, scoraggiamento, frustrazione, talvolta rabbia. E per fronteggiare questo stato, gli hikikomori riducono sempre più lo spazio intorno a sé stessi fino a rimanere ‘bloccati’ nelle proprie stanze. Piano piano le interazioni si restringono così tanto che smettono anche di mangiare con la propria famiglia. Molti di loro invertono il ritmo circadiano, dormendo di giorno e rimanendo svegli di notte.
Ma quanti sono gli hikikomori in Italia?
La verità? Non lo sappiamo. Non ci sono ancora ricerche che abbiano fornito dati validati e condivisi dalla comunità scientifica. Le stime che si fanno quando si parla del fenomeno sui media parlano di centomila hikikomori in Italia, ma la realtà è che questa stima è ancora troppo generica.
Un dato più preciso lo abbiamo in Emilia Romagna. Qui una rilevazione condotta dall’Ufficio Scolastico Regionale (sintesi in pdf disponibile qui) su 687 istituti primari e secondari di I e II grado, ha contato 346 casi di eremiti sociali in Emilia Romagna nel 2018. 20 segnalazioni riguardano la scuola primaria, 86 la scuola media e 240 la scuola superiore.
La fascia di età più a rischio sarebbe quella tra i 13 e i 16 anni, e in particolare il momento del passaggio tra scuola media e scuola superiore, molto delicato. Quanto al genere, abbiamo una sorpresa: in contrasto con gli altri studi condotti finora in Giappone e in Italia, le femmine sono più dei maschi, 182 contro 164. Secondo i curatori dell’indagine, “lo scarto potrebbe essere imputato al fatto che si tratta di una rilevazione di tipo fenomenologico e non clinico”. Un’informazione in ogni caso che mette in luce quanto ancora si sappia poco su questo fenomeno.
Come si diventa hikikomori?
«La paura del giudizio, la sofferenza legata alla competizione e una negatività che si viene a creare nei confronti della società vissuta come opprimente sono le caratteristiche sociologiche che contraddistinguono un Hikikomori».
A parlare è di nuovo Marco Crepaldi, che traccia un profilo dell’adolescente che entra nella condizione di hikikomori: “tendenzialmente timido e con una bassa autostima, il ragazzo non riesce a integrarsi in una realtà che si presenta spigolosa e poco accogliente”. Ed è così che comincia a ritirarsi prima da scuola, poi dagli amici e infine anche dalla famiglia, rinchiudendosi nella sua stanza.
Secondo Crepaldi, sono tre le fasi in cui si manifesta il fenomeno. “Inizialmente il giovane prova sollievo nel rifugiarsi tra le sue cose, cercando di evitare di affrontare le sfide quotidiane. I primi segnali si manifestano nelle assenze a scuola. In un secondo momento l’assenteismo scolastico diventa costante a causa di grosse difficoltà ad andarci. Si manifestano sintomi fisici, come mal di pancia, mal di testa, nausea, vomito. Infine sopraggiunge l’isolamento totale. Quando smettono di utilizzare internet per comunicare, ma rimangono legati alla tastiera solo per giocare, si raggiunge lo stadio più grave, in quanto si smette di essere ‘collegati’ con gli altri anche virtualmente”.
Proprio per questo non bisogna confondere il ritiro sociale con la dipendenza da internet. Nel caso di questi adolescenti, spesso, il computer è un complice e non una delle cause scatenanti del problema. In alcuni casi inoltre possono sopraggiungere anche delle psicopatologie, le più comuni: depressione, fobia sociale e idee suicidarie.
Come si può affrontare la condizione di hikikomori?
«A un certo punto, quando tutto sembra perso, questi ragazzi possono anche mettere in atto dei comportamenti devianti che vanno a complicare ancora di più il quadro. Ed è per questo che l’approccio con il quale intervenire dipende dalla situazione che si è venuta a creare», spiega Crepaldi.
La difficoltà maggiore sta proprio nel raggiungere i giovani. «In alcune regioni siamo riusciti ad attivare dei progetti dove l’educatore va a casa del ragazzo – spiega Crepaldi – in altre si ha a disposizione un team multidisciplinare che tenta di far riemergere l’adolescente. Inoltre, facciamo tanto lavoro di prevenzione nelle scuole».
E accanto ai figli, spesso, al di là delle porte chiuse delle loro stanze, ci sono i genitori. Proprio per dare sostegno a loro, l’associazione ha dato vita a più di 50 gruppi di auto-mutuo aiuto e di supporto psicologico in Italia.
«Le famiglie vivono situazioni di disperazione e di impotenza. Cadono in un vuoto e in uno sconforto dal quale faticano a emergere», ci spiega Antonella Rogai, coordinatrice dell’associazione Hikikomori Italia Genitori per le province di Forlì-Cesena e Rimini.
Molti ricevono solo porte in faccia. C’è una sostanziale ignoranza. “Se fosse mio figlio, gli darei due calci” si sono sentiti dire alcuni di questi genitori. C’è un giudizio sociale che incrina ogni forma di aiuto e di comprensione. Si rivolgono all’associazione tramite il gruppo Facebook che cresce di venti o trenta famiglie a settimana.
«Ci tengo a sottolineare che molti di questi ragazzi, precedentemente al ritiro, sono stati studenti performanti, bravi a scuola e in ogni altro ambito. Poi, a un certo punto avviene un’implosione, vanno in crisi e crollano. Alcuni di loro sono vittime di bullismo e reagiscono non reagendo, cercando di diventare invisibili».
Una cosa molto importante per le famiglie, conclude Rogai, è poter raccontare e condividere; in questo avere il sostegno di chi si trova nella stessa condizione o ne è uscito può essere fondamentale. “Ho visto rifiorire alcune famiglie, fino ad arrivare alla risoluzione dei problemi”.
Essere hikikomori: storie di giovani ritirati
Queste situazioni le vorremmo raccontare dando voce anche a chi le vive in prima persona. Così, abbiamo raccolto le storie di alcuni hikikomori in Italia, direttamente da loro oppure da loro familiari. Le pubblicheremo, una volta al mese, su Le Nius. Perché hikikomori non è un’etichetta, ma racchiude vite, persone, tracolli, sofferenze, rinascite e tanta umanità.