Storia del declino della classe politica palestinese e il confronto con Israele17 min read

11 Novembre 2023 Mondo Politica -

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Geografo

Storia del declino della classe politica palestinese e il confronto con Israele17 min read

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(Nel momento in cui pubblichiamo questo articolo è in corso il violentissimo bombardamento di Israele su Gaza “in risposta” al massacro di civili di Hamas del 7 ottobre e l’occupazione della Striscia da parte dei tank israeliani. Questo articolo è stato scritto precedentemente a quella data.)

Al fine di spiegare la crisi dei tradizionali partiti politici palestinesi e la recrudescenza delle tensioni e del conflitto tra Israele e Territori Palestinesi può essere utile fare un passo indietro nella storia della politica palestinese e del confronto con Israele.

Il conflitto del 1948 e la Nakba

Nel novembre del 1947 venne approvata la risoluzione 181, nella quale le Nazioni Unite annunciavano il “piano di partizione della Palestina” in due Stati, quello palestinese e quello ebraico. I leader arabi e palestinesi non accettarono la risoluzione e si dissero pronti a scatenare una guerra nel caso si fosse cercato di attuare il Piano. Ciò avvenne nel maggio del 1948, quando il David Ben Gurion proclamò l’indipendenza dello Stato di Israele. La reazione armata di tutti gli stati arabi che seguì è considerata la prima guerra arabo-israeliana. Il conflitto del 1948 si rivelò una catastrofe (Nakba) per gli arabi e soprattutto per gli arabi palestinesi e diede il via alla “causa palestinese”, pilastro della politica estera degli stati arabi – almeno fino agli accordi di Abramo del 2020. A seguito del conflitto, centinaia di migliaia di palestinesi (si stima il 70% della popolazione di allora, dunque circa mezzo milione) fuggirono dalla Palestina e trovarono rifugio negli stati arabi confinanti (soprattutto in Giordania, Libano e Siria).

@Limes

Fronte popolare di liberazione della Palestina, Al Fatah e l’OLP

Fu proprio tra i fuoriusciti che si iniziò a creare una coscienza politica palestinese e nel 1951 nacque in Libano il Fronte popolare per la liberazione della Palestina (FPLP)[1] di George Habbash – legato a una visione panarabista della causa palestinese -, mentre in Kuwait, nel 1958, Yasser Arafat creò Al-Fatah – movimento che si concentrava esclusivamente sulla liberazione della Palestina dagli israeliani e sul diritto di ritorno dei palestinesi emigrati. Nel 1964, infine, fu la Lega Araba che fondò al Cairo l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), sotto la spinta del Presidente egiziano Abdel Gamal Nasser. L’OLP era un’organizzazione ombrello, che cercava di coordinare tutti i vari movimenti per la Palestina nei vari stati arabi.

La Guerra dei Sei giorni 

Negli stessi anni, anche nei paesi del Medio Oriente calò il gelo della Guerra Fredda; la crisi di Suez (o secondo conflitto arabo-israeliano) dell’ottobre 1956 vide la fine dell’influenza britannica e francese nella regione, e l’emergere di USA e URSS come grandi potenze anche qui. Da quel momento, Egitto (fino al 1970), Siria e, successivamente, Iraq si allearono più o meno formalmente con l’Unione Sovietica, mentre tutti gli altri seguirono il blocco statunitense, pur rimanendo alcuni Paesi parte del movimento dei “Non allineati” o “Terzo Mondo”.

Nel giugno 1967, con un’azione militare perfettamente riuscita, Israele decise di attaccare l’Egitto e la Striscia di Gaza, e, seguendo la teoria dell’“attacco preventivo” conquistò tutta la Palestina (Gaza e Cisgiordania), la penisola del Sinai (prima egiziana) e le alture del Golan (prima siriane), in quella che è passata alla storia come la Guerra dei Sei giorni (che è anche il terzo conflitto arabo-israeliano).

A seguito di questa guerra, nuovamente disastrosa per i paesi arabi, l’OLP vide un rimpasto delle personalità al suo vertice. Con Yasser Arafat eletto a presidente, entrarono nel Consiglio Nazionale Palestinese (CNP, il parlamento dell’OLP) molti giovani militanti del FPLP e di Al-Fatah.

Il nuovo manifesto dell’OLP prevedeva la lotta armata per la liberazione della Palestina, lo sganciamento dai Paesi arabi e l’idea di una nazione palestinese seppur fratturata geograficamente.

Nel giro di pochi anni, Arafat ottenne degli importanti risultati a livello diplomatico: 1) l’OLP divenne il rappresentante del popolo palestinese, riconosciuto a livello internazionale; 2) nel 1974, l’OLP ottenne il seggio di “osservatore” all’Assemblea Generale dell’ONU.

[1] Chiamato così solo dopo il 1967, originariamente era il Movimento dei nazionalisti arabi (Mna).

@Bbc

I problemi in Giordania e Libano e la stagione del terrorismo

Tuttavia, l’OLP dovette anche affrontare diverse turbolenze, tra cui il “settembre nero” del 1970, ovvero la scacciata della sede dell’OLP e dei suoi membri (i combattenti, feddayn) dalla Giordania. Qui, infatti, entrò presto in contrasto con la monarchia hashemita del Re Hussein, il quale, dopo una operazione di ripristino dei disordini causati dai combattenti dell’OLP in territorio giordano, costrinse questi ad abbandonare la Giordania e a spostare la sede delle proprie attività operative a Beirut, in Libano.

Nel giro di poco più di 10 anni, però, anche da qui l’OLP e i feddayn dovettero fuggire, a causa dell’attacco congiunto di Israele e di alcuni partiti libanesi (agosto 1982), nel quadro della guerra civile libanese (1975-1989), per spostare la propria sede a Tunisi, lontano dunque dai Territori palestinesi occupati da Israele nella Guerra dei Sei giorni.

Ai palestinesi veniva imputato il fatto di essere troppo presenti e aggressivi nella politica interna dei due paesi e, a seguito delle azioni perpetrate contro Israele, di attirare le ritorsioni militari di quest’ultimo, che colpiva indiscriminatamente prima la Giordania e poi il Libano per colpire i palestinesi “ospitati”.

Se da un lato, dunque, l’OLP era riuscita ad ottenere legittimazione a livello internazionale come interlocutore della nazione e della causa palestinese, dall’altro, a causa delle azioni militari e terroristiche (svolte sia nei paesi arabi, che nei paesi occidentali – come l’attentato alle Olimpiadi di Monaco del 1972) perse molto del supporto che aveva guadagnato (di nuovo, sia a livello di paesi arabi che di sostegno internazionale) negli anni ’70 e ‘80.

Anche se non cruciale per la questione palestinese, nel 1973 vi fu il quarto confronto arabo-israeliano (Guerra dello Yom Kippur), che diede il là al primo embargo petrolifero della storia, imposto dai Paesi arabi dell’OPEC agli USA e agli alleati occidentali, per il loro supporto a Israele durante la guerra.

Nei successivi accordi di Camp David (1978-1979), una qualche forma di autonomia fu prevista per i palestinesi dei Territori Occupati, ma rimase lettera morta.

La Prima Intifada e la nascita di Hamas 

Nel 1987, con sorpresa della stessa – lontana – OLP, si scatenò un’ondata di rabbia da parte della popolazione palestinese di Gaza (e poi della Cisgiordania) contro gli occupanti israeliani, che si tradusse nella cosiddetta “Prima Intifada” (1987-1991). Questa sollevazione popolare era disarmata e consisteva in boicottaggi di prodotti israeliani, scioperi e resistenza non violenta, lancio di pietre ai militari israeliani. Tra le formazioni che emersero in questo contesto si deve ricordare Hamas, associazione di beneficenza (charity) che professava l’islamismo radicale, cioè l’utilizzo dell’islam come dottrina politica, sopra ogni altra forma di governo. Nata dalla Fratellanza Musulmana e attiva principalmente nella Striscia di Gaza, Hamas fu tollerata per decenni da Israele e finanziata dalle petrolmonarchie del Golfo, e soltanto con la Prima Intifada si organizzò come movimento politico (prima esclusivamente religioso e poi di lotta armata) secondo un ideale nazionalista-islamico.

Durante la Prima Intifada, i palestinesi riuscirono ad accattivarsi nuovamente l’opinione pubblica internazionale a causa della dura reazione del governo israeliano, all’epoca guidato dalla destra sionista di Yitzhak Shamir (Likud). Nel 1988, re Hussein di Giordania rinunciò ufficialmente all’amministrazione della Cisgiordania, e l’OLP di Arafat non perse l’occasione per divenire finalmente l’istituzione di riferimento di questa porzione di territorio. Arafat comprese il contesto storico di fine Guerra Fredda e cercò di farsi benvolere dagli USA, non ultimo abbandonando il metodo terroristico nell’operato dell’OLP. Tuttavia, nel momento in cui l’OLP abbandonava i comportamenti più temuti sia dagli Israeliani che da tutti i governi dei paesi arabi e occidentali, Hamas iniziò a professare un jihad (sforzo) – inizialmente solo religioso e successivamente politico (armato) – per la riconquista della Palestina storica in nome del Corano, divenendo così nemico sia di Israele che dell’OLP.

Gli accordi Oslo, l’assassinio di Yithzak Rabin e l’elezione di Netanyahu

I primi anni ’90 videro un avvicinamento tra palestinesi e israeliani sotto gli auspici di George H.W. Bush senior, che portò alla stipula degli Accordi di Oslo del 1993 (propiziati dal governo norvegese e firmati alla Casa Bianca, dove nel 1992 si era insediato Bill Clinton), occasione in cui Yasser Arafat strinse la mano a Yitzhak Rabin – primo ministro laburista israeliano, eletto nel 1992.

Gli accordi previdero due questioni fondamentali:

  1. Il riconoscimento tra OLP e Israele come reciproci interlocutori politici.
  2. La graduale formazione di uno Stato palestinese, da realizzarsi entro 5 anni. I primi territori trasferiti all’Autorità Nazionale della Palestina (ANP) furono la Striscia di Gaza e Gerico in Cisgiordania. Gli altri territori individuati furono divisi in aree in cui si esercitava in maniera maggiore o minore l’autonomia dei palestinesi.

Nel luglio 1994, Arafat si trasferì a Gaza nel tripudio generale dei palestinesi e si mise a capo dell’ANP.

Gli accordi di Oslo (“la pace dei coraggiosi”, secondo Rabin) portarono tuttavia a delle conseguenze inattese per l’opinione pubblica internazionale: Arafat (palestinese “esterno” o “tunisino”) non godette realmente di un pieno supporto e decise di monopolizzare il controllo dell’ANP, mentre Yithzak Rabin venne da subito contestato e denigrato in patria, soprattutto dai fondamentalisti ebraici e il 4 novembre 1995 venne assassinato da uno di essi. Sull’onda di questo evento traumatico, Al-Fatah (il partito di Arafat) vinse le elezioni – boicottate dai partiti islamisti come Hamas – del 1996 e Arafat ottenne il ruolo di presidente del Consiglio Nazionale della Palestina (CNP), istituzione che avrebbe dovuto essere sostituita nel 1999 dallo stato autonomo di Palestina. In Israele, alle elezioni del 1996, si impose il giovane Benjamin Netanyahu del Likud, che sfruttò la retorica della “sicurezza” e tornando ad un approccio alla questione palestinese “pre-Oslo”, cioè di pace come frutto della sicurezza (e non viceversa). Netanyahu bloccò dunque lo sviluppo degli Accordi di Oslo, indisponendo anche il presidente Bill Clinton.

La Seconda Intifada e la crescita di Hamas

Fu Ehud Barak, israeliano labourista eletto nel 1999, insieme ad Arafat, a presentarsi a Camp David dal presidente Clinton nel luglio 2000, per un nuovo round di negoziati volti alla definizione della parabola degli accordi di Oslo. Questo incontro fu inconcludente e nel giro di due mesi, la passeggiata di Ariel Sharon alla Spianata delle Moschee fece esplodere tutta la rabbia repressa dei palestinesi per dare vita alla Seconda Intifada. Questa nuova insurrezione fu differente dalla prima; in primo luogo, si reputa sia stata organizzata dall’alto, da vertici dell’ANP al fine di distogliere l’attenzione dal fallimento di Camp David II; in secondo luogo, fu molto più violenta della prima, dato che alla popolazione palestinese si affiancarono polizia e miliziani. In terzo luogo, la rivolta della popolazione si rivelò diretta anche contro i membri dell’ANP “esterni”, cioè quelli arrivati da Tunisi nel 1994, come Arafat stesso. Il principale attore di questa Seconda Intifada fu Hamas, che combatté sia contro Israele che contro la vecchia leadership dell’ANP.

La costruzione del muro illegale da parte del governo israeliano e la morte di Arafat

L’11 settembre 2001 permise al neoeletto Sharon (Likud) di avere il via libera per colpire Hamas, nel quadro della lotta al terrorismo globale. Con la legittimazione degli USA, Sharon iniziò operazioni militari di riconquista dei Territori passati sotto l’ANP, mise in ginocchio l’agricoltura di alcune zone rurali della Palestina e sostituì la mano d’opera palestinese con quella proveniente dal Sud del Mondo. Non ultimo, a partire dall’aprile 2002, Israele cominciò la costruzione di un muro per separare Israele dagli insediamenti palestinesi a tutto discapito di questi ultimi. Muro ritenuto gravemente dannoso dalle Nazioni Unite e illegale dalla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja nel 2004, ma che Israele non ha smesso di costruire negli anni a venire. Proprio nel 2004 Israele colpì duro con omicidi e attentati ai vertici dei partiti politici palestinesi, uccidendo il capo di Hamas (lo sceicco Yassin) e al-Rantissi (altro importante politico palestinese della Striscia). Lo stesso anno, infine, l’11 novembre 2004, morì anche Yasser Arafat.

Le lotte interne per il governo dei Territori Palestinesi: la guerra tra Fatah e Hamas e l’isolamento di Gaza

Come accennato, la Seconda Intifada è considerata anche una “Intrafada”. Dal 2000 al 2004, oltre che con Israele, ogni formazione palestinese non allineata alla strategia politica dell’OLP (Hamas in primis, ma anche Jihad Islamico, le Brigate martiri di Al-Aqsa – nata da Al-Fatah – e il Fronte popolare di liberazione della Palestina) iniziò una guerra per l’egemonia politica dei Territori Palestinesi.

Nel 2005, le nuove elezioni per la presidenza dell’ANP videro vincere Mahmud Abbas (Abu Mazen, ancora in carica nel 2023), membro di Al-Fatah; Hamas si costituì vero partito politico e vinse le legislative del 2006. Nel 2007, avvenne nel territorio di Gaza una vera e propria guerra civile, e vi combatterono Hamas e tutti i movimenti islamisti, contro al-Fatah: Haniyeh (capo di Hamas) contro Abu Mazen. L’esito fu la vittoria violenta di Hamas a Gaza, mentre in Cisgiordania, dove Al-Fatah era preponderante, ci fu la scacciata dei simpatizzanti di Hamas. Questo scontro aperto tra Hamas (ormai padrone della Striscia di Gaza) e Al-Fatah (che governava la Cisgiordania) produsse un isolamento drammatico per la prima – sovraffollata e sempre più povera anche perché affamata dal blocco dei beni di prima necessità messo in atto da Israele e dal fatto che Hamas era ritenuto un’organizzazione terroristica da USA e altri membri della comunità internazionale.

@Limes

I governi Netanyahu, la fine del dialogo e la retorica fallimentare della pace come frutto della sicurezza 

Nel 2009, con l’avvento di Netanyahu al potere in Israele, qualsiasi forma di dialogo diventò praticamente impossibile, visto che la strategia del Likud è una strategia securitaria, oltre all’impulso per la costruzione di nuove colonie, soprattutto in Cisgiordania. Nulla ha potuto neanche l’avvento di Barak Obama alla Casa Bianca (nel 2008), che più volte ha cercato di tenere la situazione nel Medio Oriente arabo sotto controllo. La situazione negli ultimi circa 15 anni sembrava dunque cristallizzata in una, vista anche la poca mescolanza che il governo di Israele ha avuto (Netanyahu è alla sua 6ª legislatura).

Il governo di Israele del 2023, il cosiddetto ‘governo dei coloni‘, ha aumentato la violenza nei confronti dei civili palestinesi, gli espropri delle loro case e la costruzione di insediamenti illegali. Dal 7 ottobre le cose sono ulteriormente precipitate, con il massacro di civili israeliani da parte di Hamas e la barbara risposta del governo di Israele, con l’uccisione di migliaia di civili palestinesi e la distruzione e occupazione di Gaza.

@Limes

Il confronto israelo-palestinese degli ultimi 15 anni: tra conflitto permanente e crimini di guerra

È probabilmente dal 2007 in poi che si può parlare di guerra permanente tra Israele e i Territori palestinesi. Israele sembra attuare a suo piacimento momenti di violenza a tregue. A che fine? Il mantenimento dello status quo. La soluzione a due stati a lungo auspicata dalla comunità internazionale non pare più praticabile; da un lato, come sottolinea l’analista del Medio Oriente Gilles Kepel, dal momento in cui Hamas ha scacciato Al-Fatah da Gaza manu militari, nella Palestina storica convivono tre Stati: Israele, la Cisgiordania di Al-Fatah propensa ad accordi con Israele e i suoi alleati, e la Striscia di Gaza islamista governata da Hamas e amica di Iran, Turchia e Qatar.

Dall’altro, i governi Netanyahu non hanno mai potuto venire meno alla promessa securitaria e di continua colonizzazione dei Territori occupati, al fine di non perdere consensi e mantenersi al potere. E, come già analizzato, l’ultimo governo Netanyahu – eletto nel 2022 – è il più estremo della storia di Israele, con alcuni ministri che vivono nelle colonie israeliane.

Dunque, a meno di una svolta interessata e strumentale (e al momento impensabile) da parte di Israele, difficilmente, sarà possibile riaprire i negoziati per uno stato palestinese indipendente.

Anche prima del 7 ottobre, la popolazione palestinese di Gaza faceva i conti con una vita terribile all’interno di una prigione a cielo aperto, con l’ingresso di risorse contingentate, disoccupazione alle stelle e densità abitativa fra le più alte al mondo (v. Carta 4). Per comprendere l’isolamento di Gaza, si prenda ad esempio ciò che è accaduto nel 2010, quando una nave umanitaria turca che intendeva portare aiuti alla popolazione di Gaza è stata abbordata al largo e 9 membri dell’equipaggio sono stati uccisi dalla marina militare israeliana.

Dopo la Seconda Intifada, poi, due operazioni militari devastanti nella Striscia vennero condotte da Israele nel 2008 e nel 2014 (oltre al permanere di una tensione violenta costante). Tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009, nell’operazione militare Piombo Fuso, messa in atto dal governo uscente di Ehud Olmert (laburista), come ritorsione verso la nuova ondata di missili spediti da Hamas nel deserto del Negev: le stime di Amnesty International per questa operazione sono di 1.400 morti palestinesi e il ferimento di oltre 5.000, oltre a decine di milioni di dollari di aiuti materiali. Gaza era quasi rasa al suolo e questa operazione è considerata dall’ONU “crimine di guerra”. Nel 2014, come ritorsione per l’uccisione di tre adolescenti ebrei, Israele lanciò “Margine di protezione”, che fece nel giro di poche settimane circa 1.500 morti civili palestinesi.

Gli attacchi continui di coloni ed esercito israeliano in Cisgiordania

La Cisgiordania è sicuramente un posto migliore dove vivere rispetto a Gaza, ma molti problemi la caratterizzano. Tra questi, la continua espansione delle colonie ebraiche, cioè di insediamenti in cui famiglie sioniste accettano di trasferirsi al fine di iniziare a vivere (in maniera per nulla pacifica verso i palestinesi) nel Grande Israele. Il suo territorio è molto frammentato e governato alternativamente da Israele, dall’Autorità Palestinese o da entrambe; il muro in continua costruzione separa comunità palestinesi al fine di “proteggere” Israele e le colonie da eventuali attacchi palestinesi; le risorse idriche scarseggiano e anche qui arriva continuamente la violenza delle Israeli Defence Forces (IDF, l’esercito israeliano).

Il rapporto dell’Osservatore delle Nazioni Unite sulla situazione in Palestina dal 1967 ad oggi è stato pubblicato a luglio 2023. Spiega come nel solo 2022, circa 9.000 operazioni sono state condotte dalle IDF nella Cisgiordania (inclusa Gerusalemme est e i campi profughi). Tra queste si considerino: raid notturni di militari volti a terrorizzare la popolazione, ingressi in casa da parte di soldati che rompono le porte di ingresso, arresto di palestinesi (compresi donne e bambini) seguiti da custodie cautelari, falsi processi e detenzioni arbitrarie.

Il fallimento della classe politica palestinese e la guerra permanente di Israele

Ma le IDF non si limitano alle scorribande notturne e al bullismo verso la popolazione palestinese; lo dimostrano veri e propri attacchi militari come quelli di Jenin dell’estate 2023, che non sono altro che l’ultimo (in ordine di tempo) tassello della guerra permanente condotta da Israele contro le sue due controparti palestinesi.

Dal punto di vista interno, poi, Al-Fatah ha perso tutta la residua legittimazione a governare che era rimasta agli occhi dei palestinesi. Abu Mazen ha 83 anni e non è stato in grado di sostituire Arafat in quanto a carisma, rimanendo in carica certamente più del dovuto.  Il fallimento della leadership palestinese, insomma, secondo le parole di Giovannangeli, è consistito nell’“incapacità di trasformare un movimento di liberazione nella classe dirigente dello Stato in formazione” e nel 2023 le condizioni di vita nei territori palestinesi (soprattutto Gaza) sono pessime, con prospettive nulle di una soluzione pacifica e proficua all’orizzonte.

La svolta epocale di questo periodo storico potrebbe essere il ricambio generazionale?

Tra le conseguenze dell’immobilismo del processo di pace, della corruzione e inefficacia dei partiti palestinesi e della crisi economica e sociale perenne che colpisce Gaza e la Cisgiordania, infatti, vi è uno spontaneismo armato (una sorta di Terza Intifada?) della Generazione Z. Laici e arrabbiati i giovani di Nablus (città della Cisgiordania, v. Carta 3) hanno costituito un gruppo armato che agisce contro i coloni e le IDF e comunicano con Tik Tok; sono “i Leoni di Nablus”. Hanno rotto con Al-Fatah, Hamas e Jihad Islamica e guardano con disprezzo alla gerontocrazia dell’ANP. Questi giovani palestinesi e i loro comportamenti sono una cartina di tornasole della società palestinese, privi di speranze per un futuro prospero, sono disposti a rischiare la vita per urlare al mondo le ingiustizie che subiscono.

Insomma, resterà da vedere se il ricambio generazionale, che prima o poi dovrà arrivare (in maniera pacifica o meno) ai vertici dell’ANP e in generale ai vertici dei poteri decisionali palestinesi, potrà portare a qualcosa di meglio rispetto a quello che è avvenuto negli ultimi 15 anni, dal momento che da parte israeliana una soluzione pacifica sembra sempre più lontana e irraggiungibile.

Fonti

Le seguenti fonti sono state fondamentali per l’elaborazione del testo e si invita – nel caso si volesse approfondire la storia e l’attualità dei paesi arabi – a prenderne visione.

  • Emiliani, M. (2012). Medio Oriente: una storia dal 1918 al 1991, Laterza: Bari
  • Emiliani, M. (2012). Medio Oriente: una storia dal 1991 a oggi, Laterza: Bari
  • Emiliani, M. (2020). Purgatorio arabo. Il tradimento delle rivoluzioni in Medio Oriente, Laterza: Bari
  • Kepel, G. (2021). Il ritorno del profeta. Perché il destino dell’Occidente si decide in Medio Oriente, Feltrinelli: Milano

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Geografo, si interessa di Mediterraneo e paesi arabi, che sono l’oggetto dei suoi studi e dei suoi articoli. È appassionato di storia delle relazioni internazionali, letteratura e sport. Nei suoi scritti presta particolare attenzione alle disuguaglianze sociali ed economiche.
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