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Il sistema di accoglienza dei migranti in Italia, spiegato per bene

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Secondo gli ultimi dati del Ministero dell’Interno, al 15 febbraio 2024, le persone in accoglienza sul territorio italiano sono quasi 139mila. Ma come si accede al percorso di accoglienza? Quali strutture esistono? Quali servizi vengono erogati?

Poiché la normativa riguardante l’accoglienza e l’integrazione dei richiedenti asilo e rifugiati è soggetta a continui cambiamenti, proviamo a ripercorrere le varie fasi dell’accoglienza, evidenziando che cosa è cambiato con l’entrata in vigore del DL 20/2023. DL meglio noto come “Decreto Cutro” perché messo a punto dopo il naufragio del 26 febbraio 2023, quando un’imbarcazione di legno partita dalla Turchia, con a bordo 180 persone, si è spezzata a pochi metri dalla spiaggia di Steccato di Cutro. Saranno 94 le vittime accertate e decine i dispersi.

Le prime fasi dell’accoglienza: hotspot, CPA E CAS

Le persone approdate sul territorio nazionale vengono condotte negli hotspot. Queste strutture sono localizzate in prossimità delle principali aree di sbarco o dei porti nei quali, solitamente, vengono convogliati i flussi migratori in arrivo via mare. Infatti, gli hotspot attualmente attivi si trovano a Lampedusa, Messina, Pozzallo e Taranto. In aggiunta, dal 2023 dovrebbe essere operativo anche l’hotspot di Porto Empedocle, la cui gestione è stata affidata, per sei mesi, alla Croce Rossa Italiana. Qui i migranti sono trattenuti il tempo necessario per il completamento delle operazioni di primo soccorso e identificazione, con fotosegnalamento e raccolta delle impronte. Inoltre, è negli hotspot che i migranti ricevono l’informativa legale e possono manifestare la volontà di chiedere protezione internazionale. Se questo accade, ma non è stato possibile ultimare le procedure necessarie ad avviare la domanda di asilo, i migranti possono essere trasferiti, su disposizione del prefetto, nei Centri di Prima Accoglienza (CPA): strutture governative dislocate sull’intero territorio nazionale e riservate, appunto, ai richiedenti asilo. Tra questi rientrano anche gli ex CARA (Centri di accoglienza per richiedenti asilo) e gli ex CDA (centri di accoglienza). Nei CPA sono erogate l’assistenza materiale, sanitaria e la mediazione linguistico-culturale. Il DL 20/2023 ha eliminato l’assistenza psicologica – e questo potrebbe compromettere l’emersione di eventuali vulnerabilità dei migranti, soprattutto di tipo psichico e\o legate a questioni di identità di genere e orientamento sessuale – l’insegnamento dell’italiano e i servizi di orientamento legale e al territorio, disposti dal DL 130/2020.

Ci sono poi i Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS), strutture temporanee pensate per far fronte all’esaurimento dei posti nei centri governativi e, per questo, individuate sul territorio all’occorrenza dalle prefetture. Tuttavia, negli anni i CAS sono diventati parte stabile del sistema, tant’è che per molte persone hanno rappresentato l’unico strumento di inserimento sul territorio. Anche qui, come nei CPA, dal 2023 i servizi erogati sono stati ridotti al minimo, rispetto quanto previsto dalla normativa in vigore precedentemente (DL 130/2020). Si tratta di tagli non nuovi per il Sistema di accoglienza italiano: nel 2018 il “Decreto Sicurezza” (DL 113/2018) aveva diminuito drasticamente le prestazioni (ne avevamo parlato qui), mantenendo però, a differenza del DL 20/2023, l’informativa legale. Così facendo, diverse realtà hanno preferito non partecipare ai bandi aperti dalle prefetture per la gestione operativa dei CAS. Nei bandi, infatti, viene calcolata una retta giornaliera per ciascun utente, che diminuisce con il calare dei servizi. Se questa è troppo bassa risulta impossibile per l’ente assumere personale qualificato ed erogare un servizio dignitoso alle persone accolte. In questo modo si rischia di rendere il sistema maggiormente esposto ad azioni speculative, attuate da enti privati quasi unicamente interessati al profitto. In merito, il Decreto Cutro ha previsto la nomina di un commissario per la gestione temporanea dei CAS, così come degli hotspot, dei CPA e dei CPR (Centri di permanenza per il rimpatrio), qualora ricorra un grave inadempimento degli obblighi previsti dallo schema del capitolato di gara adottato per ciascuna tipologia di centro, ove l’immediata cessazione dell’esecuzione del contratto possa compromettere la continuità dei servizi indifferibili per la tutela dei diritti fondamentali nonché la salvaguardia dei livelli occupazionali (art.6).

Al di là di quanto appena detto, la diminuzione dei servizi comporta ripercussioni soprattutto sui beneficiari e sul loro processo di integrazione. Erogare corsi di italiano, assistenza legale o attività finalizzate all’inclusione lavorativa e/o sociale, significa innanzitutto riempire il tempo dei richiedenti asilo, contenendo l’inattività, l’isolamento e il senso di impotenza che spesso accompagna i migranti nei loro percorsi. Secondariamente, queste attività concorrono a prevenire eventuali situazioni di vulnerabilità, sociale ed economica, perché funzionali a fornire gli strumenti indispensabili al raggiungimento dell’autonomia. La prevenzione della marginalità, dell’illegalità, dello sfruttamento lavorativo e dei problemi di ordine pubblico, passano quindi anche da qui, ma un sistema che continua ad essere impostato sull’emergenza sembra dimenticalo: nell’agosto 2023, per assicurare un maggior turn over nelle strutture di accoglienza, una circolare del Ministero dell’Interno esortava i prefetti a concludere le misure d’accoglienza per i richiedenti che hanno ottenuto la protezione internazionale, sebbene in attesa del permesso di soggiorno o di accedere al Sistema di Accoglienza e Integrazione.

Sempre per fronteggiare l’eventuale carenza di posti nei CPA o nei CAS, nel DL 20/2023 (art.5-bis) è stata inserita la possibilità di trasferire i richiedenti asilo in strutture di accoglienza provvisoria, rispetto alle quali non sono forniti molti dettagli, se non che la modalità di attivazione è analoga a quella dei CAS, così come le prestazioni erogate. Rimanendo sempre all’interno di una visione emergenziale, fino al 31 dicembre 2025, sarà possibile realizzare nuovi hotspot e CPA anche in deroga ad ogni disposizione di legge, diverse da quella penale, antimafia e dalle disposizioni dettate dall’UE.

La seconda accoglienza: il SAI

La seconda accoglienza, che ha come obiettivo la riacquisizione dell’autonomia individuale dei migranti sul territorio, viene garantita all’intero dei progetti SAI, ossia del Sistema di accoglienza e integrazione (ex SPRAR ed ex-SIPROIMI), al quale, dal 2023 tornano (come nel 2018) ad accedere al servizio soltanto i rifugiati o i titolari di altre protezioni, salvo casi specifici di richiedenti. Tra questi i minori stranieri non accompagnati; i neomaggiorenni affidati ai servizi sociali in prosieguo amministrativo; i migranti che si trovano in particolari situazioni di vulnerabilità; coloro che sono entrati in Italia grazie ai corridoi umanitari o programmi di reinsediamento nel territorio nazionale; i profughi afghani arrivati in Italia tramite operazioni di evacuazione; infine, i profughi ucraini secondo le disposizioni previste dalla normativa emergenziale seguita al conflitto in atto.

Ricordiamo, brevemente, che il SAI è coordinato dal Servizio Centrale, attivato dal Ministero dell’Interno, ed è costituito dagli enti locali che vi aderiscono volontariamente, e che, assieme agli enti del terzo settore, realizzano sul territorio progetti di accoglienza integrata. Il Decreto Cutro ha lasciato invariati i tempi di permanenza nei progetti (6 mesi prorogabili di altri 6) e i servizi erogati. Quindi, oltre all’alloggio (che può essere in appartamenti o in centri collettivi) e all’assistenza materiale, sono previste ad esempio attività di accompagnamento rivolte alla conoscenza del territorio e all’accesso ai servizi locali; l’insegnamento della lingua italiana; l’orientamento e l’accompagnamento all’inserimento lavorativo e, successivamente, abitativo; attività atte a favorire la costruzione di una rete territoriale, anche mediante attività socio-culturali e sportive; il sostegno psicologico; l’orientamento e il supporto legale.

Al 31 gennaio 2024, si contano 887 progetti attivi sul territorio italiano, per un totale di 37.869 posti di accoglienza. I grafici seguenti riportano il numero di progetti e di posti di accoglienza attivi nei tre anni appena trascorsi:

Il 2022, secondo l’ultimo rapporto annuale presentato lo scorso 2 febbraio, si è concluso con 945 progetti – 41 destinati a persone affette da disagio mentale e\o disabilità fisica, 217 per minori stranieri non accompagnati e 687 per i cosiddetti “ordinari” – che hanno coinvolto 804 enti locali.

Grafici estrapolati dal Rapporto SAI 2023: Presentato nuovo Rapporto annuale SAI: confermata la solidità del sistema | RETESAI

Rispetto ai beneficiari accolti, 53.222, si osserva un incremento del 2,9% della presenza femminile, che conferma il trend in crescita in atto da qualche anno, sia all’interno del SAI che, più in generale, del fenomeno della femminilizzazione dei flussi migratori. Oltre il 59% dei rifugiati accolti ha un età compresa tra gli 0 e i 25 anni. Ad incidere su entrambi i dati è stato il conflitto in Ucraina, che ha spinto non solo un numero maggiore di donne e bambini a fuggire, ma anche ad un ampliamento dei posti SAI dedicati ai nuclei familiari. L’Ucraina, inoltre, rientra al quarto posto tra le venti nazioni da cui proviene ben il 92,5% dei beneficiari: Nigeria, Afghanistan, Pakistan, Ucraina, Bangladesh, Mali, Somalia, Gambia, Tunisia, Costa d’Avorio, Senegal, Guinea, Ghana, Siria, Egitto, Iraq, Camerun, Marocco, Sudan ed Eritrea.

La tipologia abitativa prevalente, in cui si realizzano oltre l’80% dei progetti, è l’appartamento, preferibile ai centri collettivi di medie e grandi dimensioni in quanto consente di distribuire i migranti sul territorio, evitando la formazione di eventuali “ghetti” e, inoltre, sembra essere più adatto a facilitare il percorso di inclusione e i autonomia dei beneficiari.

In conclusione

Le modifiche attuate dal Governo Meloni continuano ad affrontare l’accoglienza dei migranti dal punto di vista emergenziale, senza provare a proporre un cambio strutturale quantomeno per chi ha diritto a chiedere e, eventualmente, ottenere la protezione internazionale in un Paese diverso dal proprio. Un cambio che, invece di interpretare l’accoglienza solamente come obbligo e dispersione di risorse, potrebbe pensarla come parte imprescindibile di un percorso più lungo e complesso: il processo di integrazione.

📸 Foto credits | Unsplash

Il sistema di accoglienza dei migranti in Italia ad ottobre 2022

Articolo redatto da Fabio Colombo

Era l’estate 2017. La retorica sul sistema di accoglienza dei migranti in Italia lo dipingeva come un girone infernale privo di logiche comprensibili. Alcuni si limitavano a denigrarlo, dando origine alla fortunata epica del business dell’immigrazione. Altri si interrogavano, volevano capirci di più. Tra questi Giuli, che in un commento a corredo di un precedente articolo chiedeva con disarmante secchezza:

Qual è la differenza tra i vari centri di accoglienza in Italia CPSA, CDA, CARA, CID, CIE, CPR, SPRAR?

Ora molte di quelle sigle non esistono più. O forse sì. Il sistema di accoglienza dei migranti in Italia è cambiato molto, ha provato prima a diventare più diffuso e trasparente – almeno, nelle intenzioni – sotto la regia dell’ex ministro dell’interno Minniti e ha poi subito una svolta radicale con il decreto in materia di immigrazione e sicurezza introdotto dal suo successore Matteo Salvini a dicembre 2018. Decreto che è poi stato nuovamente modificato dalla ministra Lamorgese a ottobre 2020.

Il risultato è un meccanismo in continua transizione, che proviamo a descrivere in modo chiaro e aggiornato, per quanto le informazioni siano disperse e frammentate.

Il processo di accoglienza dei migranti in Italia

Il sistema di accoglienza dei migranti in Italia opera su due livelli: prima accoglienza, che comprende gli hotspot e i centri di prima accoglienza, e seconda accoglienza, che comprende il SAI (Sistema di Accoglienza e Integrazione) – che con il decreto Lamorgese ha sostituito il SIPROIMI (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati) introdotto da Salvini – e i CAS, Centri di Accoglienza Straordinaria, ibrido tra prima e seconda accoglienza.

Vediamo ora meglio come funzionano nello specifico le diverse componenti del sistema di accoglienza: la prima accoglienza e il SAI. Trattiamo alla fine i CAS, concependoli come un’anomalia del sistema.

Prima accoglienza: Hotspot e Centri di prima accoglienza

La prima accoglienza è svolta in centri collettivi dove i migranti appena arrivati in Italia vengono identificati e possono avviare, o meno, la procedura di domanda di asilo. In particolare gli hotspot sono centri dove vengono raccolti i migranti al momento del loro arrivo in Italia. Qui ricevono le prime cure mediche, vengono sottoposti a screening sanitario, vengono identificati e fotosegnalati e possono richiedere la protezione internazionale (di fatto la grande maggioranza dei migranti che arrivano via mare lo fa).

Dopo una prima valutazione, i migranti che fanno domanda di asilo vengono trasferiti (in teoria entro 48 ore) nei centri di prima accoglienza, dove vengono trattenuti il tempo necessario per individuare una soluzione nella seconda accoglienza.

Il sistema basato su hotspot e centri di prima accoglienza ha in teoria sostituito il precedente sistema basato su sigle che dovremmo ormai considerare superate: i vari CPSA (Centri di Primo Soccorso e Accoglienza), CDA (Centri di Accoglienza) e CARA (Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo).

Il condizionale è d’obbligo perché trovare informazioni chiare e ufficiali è molto complicato e la transizione di cui sopra da CPSA, CDA, CARA ai centri di prima accoglienza è stata realizzata con estrema lentezza, tanto che le diverse sigle hanno convissuto per un lungo periodo.

Secondo le informazioni del Ministero dell’Interno, gli hotspot sono quattro: Lampedusa, Pozzallo, Messina e Taranto. Ciascuno ha poche centinaia di posti, e il numero di migranti presenti varia a seconda del numero di persone che sbarcano e della velocità con cui vengono trasferite ai centri di prima accoglienza.

I centri di prima accoglienza in funzione sono 9, contro i 12 segnalati a maggio 2019 e i 15 del 2018 e sono distribuiti in 5 regioni: Sicilia, Puglia, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Calabria. Il disegno iniziale era di aprire un Centro di Prima Accoglienza per regione, ma evidentemente le direttive sono cambiate.

E coloro che non fanno domanda di asilo? Vengono condotti nei CPR (Centri di Permanenza e Rimpatrio), ex CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione). I CPR sono centri dove vengono rinchiusi coloro che hanno ricevuto procedimenti di espulsione e devono essere rimpatriati. Nel decreto Minniti-Orlando, che ha istituito i CPR, i migranti potevano essere trattenuti per un massimo di 90 giorni, estesi a 180 dal decreto Salvini, riportati a 90 del decreto Lamorgese.

I CPR sono attualmente 9 (Bari, Brindisi, Caltanissetta, Gradisca d’Isonzo, Macumer, Palazzo San Gervasio, Torino, Roma e Trapani). I numeri variano in continuazione: il totale dei posti disponibili varia da 500 a 1.000, e nel 2021 sono transitati nei CPR 5.174 migranti.

@Lettera27

Seconda accoglienza: il SAI (ex SIPROIMI, ex SPRAR)

Una volta transitati dagli hotspot e dai centri di prima accoglienza, i richiedenti asilo vengono assegnati alla seconda accoglienza, il Sistema di accoglienza e integrazione (SAI) introdotto con la riforma Lamorgese. Il SAI sostituisce il Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati (SIPROIMI), istituito con il Decreto sicurezza nel 2018, che a sua volta sostituiva il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR), in vigore dal 2002 al 2018.

Si tratta di un ritorno al passato, in quanto il SAI ritorna ai principi dello SPRAR, ossia a un’accoglienza più orientata all’integrazione. Al sistema possono accedere sia i richiedenti asilo che i titolari di protezione, mentre la riforma Salvini aveva limitato l’accesso al sistema solo a coloro che avevano già ottenuto una risposta positiva alla domanda di asilo (status di rifugiato o protezione sussidiaria) e ai minori stranieri non accompagnati.

I richiedenti asilo ricevono assistenza materiale, legale, sanitaria e linguistica, i titolari di protezione hanno anche servizi più esplicitamente rivolti all’integrazione e all’orientamento lavorativo. Se i posti nel SAI si esauriscono, si ricorre al sistema di accoglienza straordinaria, ossia i CAS, di cui tratteremo tra poco.

Per tutto il 2019 e il 2020, anni in cui è stato in vigore il decreto Salvini, i richiedenti asilo sono stati dirottati ai CAS senza avere possibilità di essere accolti nel sistema di accoglienza ordinario. Va detto che già dal 2014, quando cioè i numeri dei migranti in arrivo sulle coste italiane cominciarono a salire, molti richiedenti asilo venivano di fatto dirottati sui CAS, visto che il programma SPRAR era di piccole dimensioni.

Secondo l’ultimo Rapporto SIPROIMI-SAI (pdf), su un totale di 37.372 persone accolte nel sistema nel 2020 i richiedenti asilo sono il 25,7% dei beneficiari dei progetti, percentuale che era del 58% nel 2015 e del 47% nel 2016, in piena emergenza, mentre era scesa al minimo del 18,7% nel 2019 come conseguenza della linea Salvini. Il 62,5% dei beneficiari sono invece titolari di una forma di protezione: 27% di rifugiati, 18,7% di protezione sussidiaria, 9,3% di permessi per casi speciali e 5,4% di protezione umanitaria (qui spieghiamo le differenze), in netto calo visto che da fine 2018 non esiste più. I minori stranieri non accompagnati rappresentano invece il 12% dei beneficiari

Ma facciamo un passo indietro, per comprendere il senso e le evoluzioni di questo sistema di accoglienza dei migranti in Italia. Lo SPRAR fu istituito con la legge 189 del 2002, anche se in realtà una rete di accoglienza decentrata che coinvolgeva comuni e organizzazioni del terzo settore nella sperimentazione di esperienze di accoglienza era già attiva dal 1999. Si tratta quindi di una pratica dal basso, che è poi stata istituzionalizzata diventando un sistema nazionale.

Il sistema è coordinato dal Ministero dell’Interno in collaborazione con ANCI, l’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani. Gli enti locali che scelgono di aderire al SAI possono fare domanda per accedere ai fondi ministeriali in qualsiasi momento, rispondendo ad un avviso pubblico sempre aperto.

Una volta che la domanda viene approvata dal Ministero, l’ente locale riceve un finanziamento triennale per l’attivazione di un progetto di accoglienza sul proprio territorio. A quel punto l’ente pubblica a sua volta una gara d’appalto per assegnare le risorse ottenute ad un ente gestore, che deve essere un ente non profit (le famose “cooperative”, ma ci sono anche associazioni). La proposta ritenuta migliore ottiene l’appalto per la gestione del progetto, con il comune che rimane comunque come ente di riferimento.

@lettera27

I progetti devono implementare il principio base del sistema: l’accoglienza integrata, che implica la costituzione di una rete locale (con enti del terzo settore, volontariato, ma anche altri attori) per curare un’integrazione a 360 gradi nella comunità locale, da realizzarsi attraverso attività di inclusione sociale, scolastica, lavorativa, culturale.

Gli enti devono individuare gli alloggi in cui inserire i beneficiari, che possono essere appartamenti o centri collettivi di piccole (15 persone circa), medie (fino a 30 persone) o grandi (più di 30 persone) dimensioni. Di fatto vengono utilizzati soprattutto appartamenti, nell’85% dei casi, e centri di piccole dimensioni, nel 6,5% dei casi.

Negli alloggi i rifugiati e titolari di protezione sussidiaria possono restare per sei mesi, prorogabili di altri sei mesi, durante i quali sono accompagnati a trovare una sistemazione autonoma. Oltre agli alloggi, gli enti gestori sono chiamati a fornire una serie di beni e servizi: pulizia e igiene ambientale (che sono comunque anche svolti dagli ospiti in autogestione); vitto (colazione e due pasti principali, meglio se gestiti in autonomia dagli ospiti); attrezzature per la cucina; abbigliamento, biancheria e prodotti per l’igiene personale di base; una scheda telefonica e/o ricarica; l’abbonamento al trasporto pubblico urbano o extraurbano sulla base delle caratteristiche del territorio.

Ci sono poi una serie di altri servizi per l’inserimento sociale che fanno la differenza per l’obiettivo di una reale accoglienza e integrazione: iscrizione alla residenza anagrafica del comune; ottenimento del codice fiscale; iscrizione al servizio sanitario nazionale; inserimento a scuola di tutti i minori; supporto legale; realizzazione di corsi di lingua italiana, o iscrizione e accompagnamento a corsi del territorio; orientamento e accompagnamento all’inserimento lavorativo; orientamento e accompagnamento all’inserimento abitativo; attività socio-culturali e sportive.

Per fare tutto questo ci vuole personale. Gli enti gestori quindi assumono operatrici e operatori che lavorino nei progetti a supporto dei beneficiari. Si tratta solitamente di: personale di coordinamento e amministrazione, operatori sociali, psicologi, assistenti sociali, operatori legali, interpreti e mediatori culturali, insegnanti di lingua italiana, addetti alle pulizie, autisti, manutentori. Nel 2020 il totale di persone impiegate nei progetti SAI è stato di 14.076 persone (donne per il 60%).

Il personale rappresenta la spesa più importante nei progetti. La restante quota va all’attivazione di servizi per l’integrazione (borse lavoro, iscrizione a corsi o ad attività sportive o culturali), eventuali interventi di manutenzione alle strutture, il pocket money che va direttamente in mano ai beneficiari, e che possono spendere come desiderano. Si tratta di un contributo che va dagli 1,5 ai 3 euro al giorno, che incide per meno del 10% sul costo dei progetti.

Secondo gli ultimi dati riferiti a giugno 2022, sono 719 gli enti locali con progetti SAI attivi, in crescita del 10% rispetto al 2021. I progetti attivi sono in totale 847, in aumento rispetto ai 760 del 2021. I posti disponibili nel sistema SAI sono oltre 39 mila, dato in netta crescita rispetto ai 30 mila del 2021, dopo anni di calo.

Quanto ai beneficiari (qui i dati fanno riferimento al 2020) si tratta soprattutto di uomini (79%) e giovani (il 94% ha meno di 40 anni, il 61% meno di 25 anni). La nazionalità più rappresentata è la Nigeria (7.124 persone accolte, il 19% dei beneficiari), seguita da Pakistan (9,5%), Mali e Bangladesh (7%).

Nonostante i numerosi aspetti positivi del sistema un po’ per tutti gli attori coinvolti, a causa soprattutto della ancora scarsa adesione degli enti locali, il sistema di seconda accoglienza diffusa nemmeno nei tempi d’oro era mai riuscito a decollare dal punto di vista quantitativo, ed è per questa ragione che è stata introdotta l’accoglienza straordinaria.

L’accoglienza straordinaria: i CAS

Il sistema di accoglienza dei migranti in Italia così concepito si è rivelato insufficiente a rispondere al bisogno di accoglienza delle centinaia di migliaia di richiedenti asilo arrivati in Italia tra metà 2014 e metà 2017. Per questo sono stati introdotti i CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria), concepiti come strutture temporanee da aprire nel caso in cui si verifichino “arrivi consistenti e ravvicinati di richiedenti” (Decreto Legislativo 142/2015, art. 11) che non sia possibile accogliere tramite il sistema ordinario.

I CAS tuttavia sono nel tempo diventati la regola, e il loro nome è quanto mai improprio. Si tratta infatti non necessariamente di centri (si possono usare anche appartamenti, come nel SAI) e l’accoglienza è tutt’altro che straordinaria: si tratta infatti della modalità ordinaria in cui sono stati inseriti i migranti, almeno dal 2015 al 2020.

A differenza dei progetti SAI, gestiti da enti non profit su affidamento dei comuni, i CAS possono essere gestiti sia da enti profit che non profit su affidamento diretto delle prefetture. Ogni prefettura territoriale pubblica quindi delle gare d’appalto periodiche per l’assegnazione della gestione dei posti in modalità CAS.

I CAS possono essere gestiti in modalità accoglienza collettiva o accoglienza diffusa. L’accoglienza collettiva comprende strutture anche di centinaia di persone, che sono poi quelle che danno più spesso dei problemi sia per i migranti che per i territori dove sono situate: hotel, bed & breakfast, agriturismi, case coloniche. L’accoglienza diffusa avviene invece in appartamento e, seppur con meno garanzie di qualità rispetto agli appartamenti inseriti nel SAI, risulta comunque in un impatto più sostenibile sul territorio in cui viene attuata.

Fonte: Mygrants

Come il SAI, anche i CAS vengono finanziati con il Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo e vengono, come detto, assegnati tramite gare d’appalto basate su una retta giornaliera per ciascun utente. La retta media era fino a dicembre 2018 di 35 euro a persona accolta al giorno. Il Decreto Salvini ha abbassato notevolmente queste rette, ora rialzate dopo la riforma Lamorgese.

Come abbiamo spiegato più nel dettaglio in questo articolo, questo taglio ha fortemente limitato i servizi per l’integrazione: l’insegnamento della lingua italiana, il supporto alla preparazione per l’audizione in Commissione Territoriale per la propria richiesta di asilo, la formazione professionale, la gestione del tempo libero (attività di volontariato, di socializzazione con la comunità ospitante, attività sportive).

Sono state ridotte al minimo le figure professionali volte al sostegno e assistenza in particolare alle persone vulnerabili: assistenti sociali e psicologi. Tutti tagli che hanno portato numerose cooperative a rinunciare a partecipare ai bandi, ritenendo impossibile poter offrire un servizio dignitoso e professionale. La conseguenza è che sono stati incentivati a partecipare ai bandi soprattutto quei soggetti privati meno interessati alla qualità del servizio offerto e al benessere delle persone, e disposti a tagliare su tutto pur di gestire il servizio non in perdita.

Con la riforma Lamorgese il ricorso ai CAS è da valutare solo dopo l’esaurimento dei posti nel sistema ordinario SAI, riportando l’accoglienza straordinaria a una dimensione, appunto, straordinaria. Tuttavia, essendo i posti nel SAI ancora limitati e i numeri dei migranti in arrivo in aumento, andrà verificato quanto effettivamente si ricorrerà ai CAS.

Attualmente i CAS presenti sul territorio italiano sono circa cinquemila per un totale di 80 mila posti disponibili, di cui a fine 2021 erano occupati circa 52 mila, in aumento fino agli oltre 60 mila di settembre 2022.

Le prospettive del sistema di accoglienza dei migranti in Italia

Dopo quasi cinque anni di progressivo calo di presenze di migranti nel sistema di accoglienza (dai 183 mila del 2017 ai 75 mila del 2021), i numeri stanno riprendendo a salire. Secondo i dati del Ministero dell’Interno sono quasi centomila i migranti presenti nel sistema a settembre 2022.

 

Posti

Presenze

Hotspot

n.d.

405

CPA e CAS

80.000

67.458

SAI

39.000

31.733

Totale

119.000

99.596

Dati al 30 settembre 2022

I CAS continuano quindi a ospitare il 68% delle persone presenti nel sistema di accoglienza dei migranti in Italia, segno che ancora la transizione da accoglienza straordinaria a ordinaria si deve compiere. E probabilmente non si compirà, visto che l’aumento delle persone in arrivo nel 2022 porterà ad un aumento di posti nei CAS, più semplici e veloci da attivare dei SAI.

Sul futuro del sistema incombe poi anche il cambio di governo. Il nuovo esecutivo di destra dovrà decidere se mantenere il sistema di accoglienza dei migranti in Italia nella sua forma attuale o introdurre ulteriori cambiamenti come fece Salvini durante il suo periodo da Ministro dell’Interno.

Per ricordarci di come evolve il sistema di accoglienza dei migranti in Italia, teniamo nella pagina seguente la versione precedente di questo articolo.

Il sistema di accoglienza dei migranti in Italia ad agosto 2017

Articolo redatto da Fabio Colombo

Seguiamo una logica che segue il percorso di un migrante che arriva sulle coste italiane e poi entra, appunto, nel sistema di accoglienza, con un processo che possiamo rendere visivamente così:

Il sistema di accoglienza in Italia opera su due livelli: prima accoglienza, che comprende gli hotspot e i centri di prima accoglienza, e seconda accoglienza, il cosiddetto SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati).

In teoria, se tutto filasse liscio (l’accoglienza ordinaria, linea piena nell’infografica), la prima accoglienza dovrebbe servire a garantire ai migranti primo soccorso, a procedere con la loro identificazione, ad avviare le procedure per la domanda di asilo. Dovrebbero essere procedure veloci, per poi assegnare i richiedenti asilo ai progetti SPRAR, ossia alla seconda accoglienza, fiore all’occhiello del sistema, un programma che riesce a garantire un processo di integrazione nei territori a 360 gradi, che va ben oltre il vitto e l’alloggio.

Però non fila tutto liscio. I beneficiari del sistema di accoglienza sono aumentati a dismisura dal 2014, a causa del numero crescente di arrivi via mare in Italia di persone che fanno domanda di asilo, entrando quindi nel sistema di accoglienza.

Non solo. Il programma SPRAR per funzionare bene come funziona, garantendo una reale accoglienza e integrazione nel territorio, ha bisogno dell’adesione dei comuni, che i comuni diano cioè la loro disponibilità a gestire un progetto di accoglienza sul proprio territorio.

Moltissimi comuni non lo vogliono fare, nonostante i progetti siano pagati con soldi dello Stato. Non lo vogliono fare per ragioni politiche. Un po’ perché sono di un altro colore politico rispetto al governo, un po’ perché non vogliono assumersi la responsabilità di avviare un progetto che porta “i profughi” a contatto con i propri elettori.

Così, il sistema non può funzionare. Troppe domande, troppi pochi posti. Aumentare i posti, di fronte alle difficoltà nel rapporto con i comuni, è un processo lento. C’è bisogno di una soluzione rapida, “di emergenza” (la linea tratteggiata nell’infografica), che viene individuata nei cosiddetti CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria), un ibrido che formalmente rientra nella prima accoglienza a cui si accede spesso direttamente dai porti di sbarco, ma praticamente dà ormai un’accoglienza di lungo periodo come accade nella seconda accoglienza.

Vediamo meglio come funzionano nello specifico le diverse componenti del sistema di accoglienza: la prima accoglienza e lo SPRAR. Trattiamo alla fine i CAS, concependoli come un’anomalia del sistema.

Prima accoglienza: Hotspot e Centri di prima accoglienza

La prima accoglienza è svolta in centri collettivi dove i migranti appena arrivati in Italia vengono identificati e possono avviare, o meno, la procedure di domanda di asilo. Il sistema dei centri è in fase di riforma, frutto di politiche congiunte a livello europeo e della legge Minniti-Orlando che ha introdotto modifiche ancora da implementare. Questo nel frattempo il panorama dei diversi centri operativi.

Gli hotspot sono centri dove vengono raccolti i migranti al momento del loro arrivo in Italia. Qui ricevono le prime cure mediche, vengono sottoposti a screening sanitario, vengono identificati e fotosegnalati e possono richiedere la protezione internazionale (di fatto la grande maggioranza dei migranti che arrivano via mare lo fa). Ad oggi gli hotspot sono quattro: Lampedusa, Pozzallo, Trapani e Taranto.

Dopo una prima valutazione, i migranti che fanno domanda di asilo vengono trasferiti (in teoria entro 48 ore) nei centri di prima accoglienza (noti anche come hub regionali), dove vengono trattenuti il tempo necessario per individuare una soluzione nella seconda accoglienza. Questi al momento i centri di prima accoglienza operativi, con le presenze al 23 gennaio 2017 così come riportate da un report della Commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema di accoglienza della Camera dei Deputati (pdf).

Il sistema basato su hotspot e centri di prima accoglienza ha sostituito il precedente sistema basato su sigle che dobbiamo ormai considerare superate: i vari CPSA (Centri di Primo Soccorso e Accoglienza), CDA (Centri di Accoglienza) e CARA (Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo).

In realtà questa catena lineare hotspot-centri di prima accoglienza-seconda accoglienza è più sulla carta che sulla realtà. Ce lo conferma Stefano Trovato, Responsabile Area Immigrazione del CNCA (Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza), a cui abbiamo chiesto aiuto per comprendere il complesso funzionamento del sistema di accoglienza. Il CNCA è una federazione nazionale che riunisce circa 250 organizzazioni del terzo settore in Italia, più di 100 delle quali gestiscono progetti di seconda accoglienza. Trovato ha quindi uno sguardo completo, anche dal basso, sul processo di accoglienza.

“In molti casi i migranti vengono condotti direttamente dal porto di sbarco al CAS”, concepito come forma di prima accoglienza anche se può essere un appartamento in mezzo a una città. C’è quindi ancora una distanza importante tra teoria e pratica, dove spesso prevale la necessità di gestire emergenze, soprattutto in questa fase di transizione tra i vecchi e i nuovi centri.

E coloro che non fanno domanda di asilo? Posto che sono molto pochi, vengono condotti nei CIE. I CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione) sono centri dove vengono rinchiusi coloro che hanno ricevuto procedimenti di espulsione e devono essere rimpatriati. I migranti dovrebbero essere trattenuti per un massimo di 90 giorni (estendibili però abbastanza facilmente a 12 mesi). I CIE operativi erano quattro: Torino, Roma, Brindisi e Caltanissetta. Scriviamo erano, perché la recente riforma Minniti-Orlando ha cancellato i CIE sostituendoli con i CPR (Centri di Permanenza e Rimpatrio) che dovrebbero diventare 20, uno per Regione, ed essere più piccoli.

Attualmente è in corso la transizione da CIE a CPR. A quanto sappiamo alcune regioni hanno già inviato al Ministero dell’Interno una lista di strutture che sul proprio territorio dovrebbero ospitare i Centri di Permanenza e Rimpatrio. Si tratta di Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Piemonte, Emilia Romagna, Lazio, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sardegna, Sicilia. Non è ancora chiaro quando queste strutture saranno effettivamente operative, né quando verranno individuate le strutture nelle altre 9 regioni.

Seconda accoglienza: lo SPRAR

Una volta transitati dagli hotspot e dai centri di prima accoglienza, i richiedenti asilo vengono assegnati alla seconda accoglienza, entrano cioè a far parte del programma SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati). Almeno, in teoria. Perché, come abbiamo già visto, essendo il programma SPRAR di piccole dimensioni, e ospitando anche rifugiati e titolari di protezione sussidiaria e umanitaria, di fatto i richiedenti asilo che arrivano in Italia vengono sempre più dirottati sui CAS.

Una pratica confermata dai dati, riportati dal Rapporto annuale SPRAR 2016. Nello SPRAR si tende attualmente ad accogliere soprattutto i rifugiati e i titolari di protezione sussidiaria e umanitaria: sono il 53% dei beneficiari, una percentuale in continua crescita (erano il 42% nel 2015), mentre i richiedenti asilo sono scesi dal 58 al 47%.

Negli alloggi del sistema SPRAR sono inseriti, abbiamo detto, soprattutto rifugiati e titolari di protezione sussidiaria o umanitaria, che possono restare nel progetto per sei mesi, prorogabili di altri sei mesi, durante i quali sono accompagnati a trovare una sistemazione autonoma. I richiedenti asilo invece restano per tutto il tempo necessario alla risoluzione della loro pratica, cioè fino a quando non ricevono la risposta, affermativa o negativa, rispetto alla loro domanda di asilo. Se ricevono una risposta negativa, ossia il diniego della protezione internazionale, devono lasciare il sistema SPRAR.

Ci sono poi tutta una serie di servizi per l’inserimento sociale che gli enti gestori sono tenuti a garantire, e che fanno la differenza per l’obiettivo di una reale accoglienza. Sono i servizi che consentono al rifugiato/richiedente asilo di inserirsi in un sistema legale, sanitario, educativo, sociale; di imparare la lingua con cui comunicare con gli italiani; di avere qualche chance lavorativa; di inserire i minori a scuola insieme a tutti gli altri minori del territorio; di fare sport, o cultura. E consentono alla popolazione locale di conoscere queste persone, condividendo occasioni di festa, quotidianità, magari anche conflitto, però mediato dagli operatori del progetto.

Per fare tutto questo ci vuole personale. Gli enti gestori quindi assumono operatori che lavorino nei progetti a supporto dei richiedenti e rifugiati ospiti: personale di coordinamento e amministrazione, operatori sociali, psicologi, assistenti sociali, operatori legali, interpreti e mediatori culturali, insegnanti di lingua italiana, addetti alle pulizie, autisti, manutentori. Nel 2016 il totale di persone impiegate nei progetti SPRAR è stato di 8.505.

Il personale rappresenta di solito la spesa più importante nei progetti. La restante quota va all’attivazione di servizi per l’integrazione (borse lavoro, iscrizione a corsi o ad attività sportive o culturali), eventuali interventi di manutenzione alle strutture, il pocket money che va direttamente in mano ai beneficiari, e che possono spendere come desiderano. Si tratta di un contributo che va dagli 1,5 ai 3 euro al giorno, che incide per meno del 10% sul costo dei progetti.

Secondo gli ultimi dati aggiornati al 1 aprile 2017, sono presenti nel sistema SPRAR 25.743 persone, di cui duemila circa minori non accompagnati. Sono attivi in tutta Italia 638 progetti che coinvolgono 544 enti locali (soprattutto Comuni), così distribuiti:

25 mila posti sono del tutto insufficienti a coprire la richiesta, che cresce sempre di più insieme agli sbarchi sulle coste italiane. Perché allora non mettere a disposizione più posti? Perché non ci sono soldi?

No, non è questo il motivo. I soldi ci sono. A non esserci, abbiamo detto, è la volontà dei comuni italiani di ospitare migranti sul proprio territorio. L’adesione dei comuni al programma è infatti volontaria, e degli ottomila comuni italiani solo mille sono finora coinvolti in progetti SPRAR. Questa la mappa dei comuni dove sono presenti strutture di accoglienza SPRAR a fine 2016.

Fonte | Rapporto Annuale SPRAR 2016

Eppure il sistema SPRAR è riconosciuto come una buona pratica sotto diversi punti di vista: garantisce un coordinamento proficuo tra Stato centrale e enti locali, pone attenzione alla distribuzione territoriale dei migranti, garantisce un supporto all’inserimento sociale molto importante per prevenire conflitti con la popolazione locale, si prende cura anche di categorie vulnerabili con servizi dedicati, come i minori non accompagnati e i disabili.

In sostanza l’egoismo politico degli amministratori locali impedisce ad un programma virtuoso di entrare a regime, e costringe lo Stato a dirottare le risorse sull’accoglienza straordinaria (i CAS, di cui diremo fra poco). Se tutti i comuni aderissero allo SPRAR, riusciremmo a distribuire molto bene i migranti presenti nel sistema, garantendo loro anche un accompagnamento di qualità per l’integrazione e l’inclusione sociale ed economica, e prevenendo molte situazioni di conflitto con la popolazione locale.

L’accoglienza straordinaria: i CAS

Lo abbiamo detto, pochi comuni aderiscono allo SPRAR, e questo rende il sistema insufficiente a rispondere al bisogno di accoglienza delle centinaia di migliaia di richiedenti asilo in arrivo in Italia. Per questo sono stati introdotti i CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria), concepiti come strutture temporanee da aprire nel caso in cui si verifichino “arrivi consistenti e ravvicinati di richiedenti” che non sia possibile accogliere tramite il sistema ordinario.

Dato che dal 2014 gli arrivi ravvicinati e consistenti sono la regola, i CAS sono diventati la regola, e il loro nome è quanto mai improprio. Si tratta infatti non necessariamente di centri (si possono usare anche appartamenti, come nello SPRAR) e l’accoglienza è tutt’altro che straordinaria: si tratta infatti ormai della modalità ordinaria in cui vengono inseriti i migranti (il 78% delle presenze, come vedremo).

È una soluzione, potremmo dire, di “rientro dalla finestra”: da una parte costruisco una pratica virtuosa ma volontaria con i comuni. Dall’altra, visto che molti comuni non collaborano e io devo sistemare tutti i migranti che arrivano, attivo un sistema di accoglienza parallelo gestito direttamente da me, e costringo tutti i comuni dove gli enti gestori individuano le strutture ad ospitare migranti sul proprio territorio.

A differenza dei progetti SPRAR, gestiti da enti non profit su affidamento dei comuni, i CAS possono essere gestiti sia da enti profit che non profit su affidamento diretto delle prefetture. Ogni prefettura territoriale pubblica quindi delle gare d’appalto periodiche per l’assegnazione della gestione dei posti in modalità CAS.

I CAS possono essere gestiti in modalità accoglienza collettiva o accoglienza diffusa. L’accoglienza collettiva comprende strutture anche di centinaia di persone, che sono poi quelle che danno più spesso dei problemi sia per i migranti che per i territori dove sono situate: hotel, bed & breakfast, agriturismi, case coloniche. L’accoglienza diffusa avviene invece in appartamento e, seppur con meno garanzie di qualità rispetto agli appartamenti inseriti nello SPRAR, risulta comunque in un impatto più sostenibile sul territorio in cui viene attuata.

“Di fatto però – segnala Stefano Trovato – le nuove gare d’appalto per i CAS fatte dalle prefetture sono impostate sulla modalità dei grandi centri, e chiedono ad esempio di avere un presidio sanitario con medico interno alla struttura. Ma se io scelgo l’accoglienza diffusa in appartamento cosa devo fare? Avere un presidio sanitario in ogni appartamento? Assumere un medico ad hoc per i richiedenti asilo? È un’impostazione da grande centro, proprio quella che dovremmo superare – continua Trovato – anche se io non ci vedo una scelta politica quanto una mancanza di coordinamento e risorse di tempo e persone che si possano dedicare nelle prefetture alla pianificazione e gestione delle gare”.

Come lo SPRAR, anche i CAS vengono finanziati con il Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo e vengono, come detto, assegnati tramite gare d’appalto basate su una retta giornaliera per ciascun utente. La retta indicativa riconosciuta agli enti gestori è di 35 euro a persona accolta al giorno, ma ogni prefettura può modificare la base d’asta di partenza, alzando o abbassando la retta. Anche qui, circa 1,5 – 3 euro al giorno sono destinati al pocket money per i richiedenti asilo.

Pur avendo quindi nella pratica una funzione praticamente identica allo SPRAR, i CAS sono concepiti e gestiti in modo molto diverso, come se fossero strutture temporanee dove parcheggiare i beneficiari in attesa che facciano il loro ingresso nel bel mondo dello SPRAR. Nei fatti però non lo sono, perché i beneficiari restano spesso nei CAS per tutta la durata della loro pratica di asilo. Questo disallineamento tra teoria e pratica conduce a situazioni problematiche.

I posti vengono assegnati per rispondere a emergenze, la prefettura ha bisogno di strutture in tempi brevi, il che la costringe ad accettare anche soluzioni non ottimali. Trovato però puntualizza: “è vero che arrivano flussi importanti che mettono sotto pressione le prefetture, ma è anche vero che questi flussi erano previsti. Se negli anni precedenti si poteva essere un po’ sorpresi, per il 2017 si potevano pianificare meglio le cose, perché già dal 2016 si prevedeva un flusso di circa 200 mila migranti, invece si continua a lavorare sull’emergenza continua”.

Altro problema è che con i CAS viene meno il patto di fiducia tra Ministero e territori, perché la ripartizione è gestita direttamente dal Ministero, tramite le Prefetture, senza coordinarsi con l’ANCI e spesso senza nemmeno avvisare i comuni che gruppi di richiedenti asilo saranno distribuiti sul proprio territorio.

C’è da dire che questa modalità, che tanto suscita le proteste dei comuni e di alcuni cittadini, deriva anche dalla riluttanza di molti comuni ad aderire alla rete SPRAR, situazione che ha di fatto costretto il Ministero ad operare in modo coercitivo senza prendere accordi con enti che probabilmente avrebbero ostacolato l’apertura del CAS sul proprio territorio. È questa la ragione alla base delle polemiche che sono arrivate alla cronaca nazionale in tempi recenti, come ad esempio quella sorta nella zona dei Nebrodi, in provincia di Messina.

Numeri e costi del sistema di accoglienza dei migranti in Italia

Alla fine di questo complesso percorso di accoglienza per i richiedenti asilo, rifugiati e destinatari di protezione sussidiaria e umanitaria, tiriamo le somme numeriche ed economiche del sistema. Questi gli ultimi dati disponibili sulle presenze nel sistema di accoglienza dei migranti in Italia.

Fonte | Commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema di accoglienza Camera dei Deputati

Alla data del 23 gennaio 2017 erano presenti nel sistema di accoglienza italiano 175.550 persone, di cui 14.750 (l’8%) nella prima accoglienza, 136.978 (il 78%) nei CAS, e 23.822 (il 14%) nello SPRAR.

È quindi evidente come l’accoglienza straordinaria dei CAS sia diventata la modalità primaria per inserire i richiedenti asilo nel sistema di accoglienza italiano, mentre l’accoglienza ordinaria riesce ad assorbire solo il 20% della domanda, tra prima e seconda accoglienza.

I comuni coinvolti in qualche forma nel sistema di accoglienza, perché gestiscono progetti SPRAR o ospitano centri di prima accoglienza o CAS, sono 3.153, secondo quanto affermato dal Ministro dell’Interno Minniti in un intervento alla Camera dei Deputati lo scorso 18 luglio 2017. Ci sono quindi ancora quasi cinquemila comuni del tutto esenti dall’accoglienza sul proprio territorio.

Per quanto riguarda i costi del sistema, facciamo riferimento ai dati indicati nel Def (Documento Economico e Finanziario) approvato dal Consiglio dei Ministri l’11 aprile 2017.

Nel 2016 l’Italia ha speso per il sistema di accoglienza dei migranti circa 2,5 miliardi di euro, quasi il doppio rispetto al 2015, quando la spesa era stata di 1,3 miliardi. La previsione per il 2017 contenuta nel Def parla di una cifra compresa tra i 2,9 e i 3,2 miliardi di euro. In termini percentuali, passiamo dallo 0,1% del PIL del 2015 allo 0,15% del 2016, al potenziale 0,17% del 2017.

Per quanto riguarda la ripartizione di questi costi, l’ultimo dato disponibile fa riferimento al 2015, quando allo SPRAR furono destinati 242 milioni di euro, mentre il restante miliardo di euro è stato utilizzato per la prima accoglienza (inclusi i CAS).

Capiamo da questi dati che l’ostacolo allo sviluppo dello SPRAR non sono i fondi. Un ampliamento della rete SPRAR è infatti sempre possibile economicamente, destinando le risorse impiegate per i CAS. Parliamo in ogni caso di cifre che vengono riversate sul territorio in termine di creazione di posti di lavoro, affitti e consumi.

A queste vanno poi aggiunte le spese per le operazioni di soccorso e salvataggio in mare, che ammontano a circa 800 milioni di euro l’anno. Ogni anno l’Italia riceve dall’Unione Europea un contributo di circa 100-120 milioni di euro, destinato a crescere per il 2017 e a cui vanno aggiunti i fondi distribuiti dalla Commissione Europea tramite i bandi del fondo FAMI (Fondo Asilo Migrazione e Integrazione), che ammontano a circa 600 milioni di euro per il periodo 2014-2020.

Il sistema di accoglienza che verrà?

La situazione, come abbiamo visto lungo questo excursus sul sistema di accoglienza in Italia, è estremamente fluida. Nuove leggi ridisegnano i processi, smantellano sigle, individuano nuovi attori. E chissà quanto dureranno.

Per quanto riguarda la prima accoglienza, ci si muoverà in due direzioni. Da una parte verrà rafforzata la rete dei centri di prima accoglienza, individuando sempre più hub regionali possibilmente di sempre più piccole dimensioni, per non impattare troppo su singoli territori. Dall’altra si verificherà la trasformazione dei CIE in CPR, con l’individuazione di una struttura per regione dove rinchiudere i migranti oggetto di provvedimenti di espulsione.

Quanto alla seconda accoglienza, lo slogan è “più SPRAR, meno CAS”, ma la sua applicazione è tutt’altro che semplice. L’obiettivo è far aderire sempre più comuni alla rete SPRAR per continuare ad aumentare, possibilmente a ritmi sempre maggiori, i posti disponibili nelle strutture del programma.

Se guardiamo i numeri, vediamo come in effetti il numero di posti disponibili e, di conseguenza, di beneficiari del programma SPRAR è in continua crescita dalla sua istituzione ad oggi, ma i ritmi appaiono ancora troppo lenti rispetto alla domanda proveniente dai tanti richiedenti asilo che arrivano in Italia.

Fonte | Rapporto annuale Sprar 2016

Per incrementare ulteriormente il numero di comuni aderenti, e dunque di posti, la strategia del governo è quella di migliorare gli incentivi all’adesione. In particolare si punta molto sull’introduzione dalla clausola di salvaguardia, che consentirà ai comuni aderenti allo SPRAR di vedere limitare la presenza di migranti nelle strutture di accoglienza sul territorio a circa 3 per 1000 abitanti, esponendo gli altri comuni al rischio di vedersi imporre numeri ben superiori attraverso il canale del CAS.

“Si tratta certamente di una strategia condivisibile – dice Stefano Trovato – ma bisogna considerare anche alcune conseguenze pratiche. Va bene distribuire le persone ma poi gestire le persone sparpagliate in comuni magari di poche centinaia o migliaia di abitanti e molto distanti fra loro è più complicato, sia per i beneficiari, che sono dispersi in situazioni isolate difficili da sostenere, sia per gli enti gestori, che vedono i costi per gli spostamenti salire, e di molto”.

Vedremo se questa strategia si rivelerà vincente. Il lavoro dell’ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani, promotrice dello SPRAR insieme al Ministero dell’Interno) in questo senso è molto intenso, e volto a spiegare ai sindaci i vantaggi dell’adesione al programma. I sindaci stanno così cominciando a capire che, al di là dello schieramento politico di appartenenza, l’attivazione di progetti SPRAR conviene a tutti, perché un’accoglienza fatta bene è certamente vantaggiosa per il territorio.

D’altra parte ci sono, e ci saranno, ancora molti comuni che, per ragioni politiche, rifiutano a prescindere di aderire allo SPRAR salvo poi sollevare la popolazione locale contro il governo quando la prefettura impone l’apertura di un CAS sul proprio territorio.

Il sogno di trasformare tutti i CAS in SPRAR vale quindi certamente la pena di essere perseguito, ma sembra ben lontano dal realizzarsi, nonostante tutti avrebbero da guadagnarci: gli italiani, i migranti, i comuni, lo stato.

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