Sudan quotidiano6 min read
Reading Time: 6 minutesMi trovo in Sudan, proprio nel momento in cui sta succedendo qualcosa di storico. Aprile 2019, il governo di Omar al-Bashir viene destituito dopo quasi 30 anni. Seguono due mesi di sit-in per chiedere un cambiamento democratico. Il 3 giugno il sit-in viene attaccato dall’esercito e muoiono circa 100 persone. La speranza tuttavia non è sconfitta: il 30 giugno più di un milione di persone manifesta per le strade di Khartoum. Militari e civili stanno in queste settimane negoziando un accordo per gestire la transizione politica del paese. Come raccontare la quotidianità, mia e dei sudanesi, e cosa succede alla vita quotidiana delle persone nei momenti in cui si fa la storia?
Riprendo a camminare lentamente, metto in pausa la musica. La ascolto ad alto volume nella cuffietta destra. Il mio orecchio sinistro è immerso nelle voci, nei rumori, nella chiamata alla preghiera del tardo pomeriggio. In quel preciso momento, un aereo passa sopra la mia testa con un rombo assordante, si appresta ad atterrare. Sono pervaso da un diffuso malore, un’improvvisa fitta al petto. Il cronometro segna 50 minuti, l’orologio mi ricorda che è il 6 di aprile. Si parla di un grande cambiamento, è caduto il governo in carica da quasi trent’anni; nessuno sa dove porterà questa tormenta.
Mi trovo al Green Yard, un parco giochi con alcune giostre ed una pista di atletica tagliata a metà a formare una U irregolare. Circondata da piccoli bar che preparano esclusivamente tè, caffè, panini – nel paese non è ammessa alcuna bevanda alcolica – è il luogo d’incontro favorito dalle famiglie di Khartoum. Una piccola giostra a forma di galeone ruota su un perno emettendo un rumore sinistro, misto alle urla dei bambini che provano il brivido di volare a qualche metro da terra, non di certo all’altezza degli enormi velivoli che passano sulle loro teste ogni giorno.
Attorno alla pista, signore con il viso quasi interamente coperto da un velo a tinte accese cercano di vendermi sacchetti di noccioline, chiacchierare in un inglese molto semplice, salutarmi, ricevere un piccolo aiuto in denaro, vedere che aspetto ha da vicino un cawaja, termine locale usato per indicare persone straniere dalla pelle bianca. Se non fosse per la piccola striscia di tessuto nera, appoggiata sul naso, non potrei nemmeno vedere i loro occhi truccati con molta cura e precisione. Sono seguite da bambini che mi propongono caramelle e chewing gum, cercando di prendermi la mano e di correre con me alcune decine di metri.
Ho appena finito la mia sessione di corsa facendo slalom tra le famiglie sudanesi che preparano il loro pic-nic serale sedendosi su delle stuoie, distribuendo samowar, pentole, piatti, contenitori di plastica, tazze, vassoi. Sono composte in genere da cinque, sei persone, che camminano a gruppetti attraversando lentamente e facendo poca attenzione alla pista di atletica.
Fa molto caldo, forse trenta gradi; durante il giorno, si superano facilmente i quaranta. Continuo in direzione dell’uscita principale, iniziando la sessione di stretching, seguendo con lo sguardo un altro aereo che si avvicina, abbassandosi sempre di più in linea parallela al terreno. Senza cuffiette, torno a sentire le urla dei bambini sulla giostra galeone, le chiacchiere in arabo delle donne che distribuiscono la cena, un paio di timide chitarre scordate e ritmati tamburi in pelle.
Un capannello di giovani studenti canta un ritornello incalzante, li attraverso con un imbarazzato “Sorry!”. Gridano
Madania!
“Governo civile!”, il canto ripetuto dai manifestanti durante le proteste contro il precedente regime ed a favore di una svolta democratica in Sudan. Si parla di un grande cambiamento, le nuove generazioni si tolgono di dosso la polvere del passato e quella portata dal vento: nessuno sa dove porterà questa tormenta.
C’è aria di cambiamento, in Sudan. La popolazione sta dimostrando da mesi per le strade, facendosi largo tra gas lacrimogeni e, in alcuni casi, vere pallottole. Ci sono stati morti, feriti, pestaggi. Si chiede a gran voce un cambio di governo per andare oltre l’esperienza del Presidente Omar Al-Bashir, dai più soprannominato “Bisha” – ovvero “piccolo, non importante” – in carica da quasi 30 anni.
Every Little Thing is Gonna Be Alright
recita una classica ballata ancora ascoltatissima in Sudan. Qualcosa è già cambiato in meglio. Il Sudan sta correndo verso un traguardo difficile, ben più di molte maratone: trovare una nuova vita dopo quasi trent’anni di dittatura e violenta repressione. Il traguardo è però ancora lontano, bisogna continuare a correre.
Raggiunto il lato opposto del prato, vado in direzione del quartiere Al-Amarat, distante circa mezzo chilometro lungo l’arteria principale Africa Road, strada parallela alla pista d’atterraggio. Il traffico è fluido, ma incessante. Attraversare la strada è impresa ardua, pericolosa, che richiede parecchia pazienza ed attenzione. Mi rimetto solo una cuffietta, ritrovando il mio album preferito di Jorge Ben Jor, Fôrça Bruta. Qualche volta lo alterno all’etereo Bruce Springsteen di Atlantic City e all’immancabile passione trasmessa da Born to Run. Il connubio musica e corsa è per me quasi rituale. L’alternarsi dei brani mi dà le corrette informazioni sul tempo passato e rimanente, in modo più preciso anche di un cronometro.
Il connubio suoni e odori della cultura musulmana locale, fatta di moetzin, preghiere, caffè servito dalle tea ladies su piccoli tavolini improvvisati ma accuratamente decorati, ed il rock occidentale per me ha sempre funzionato senza alcun problema. Molti ragazzi sudanesi ascoltano la mia stessa musica, pur preferendo spesso i classici Reggae Roots o gli evergreen di Bob Marley unito al pop più radiofonico.
La breve, intensissima fitta al petto diviene ora pungente nausea. L’inizio della stagione degli haboob, le tempeste di sabbia in arrivo dal vicino deserto, è vicina. La calma che anticipa il caos, quando l’aria si fa piena di sabbia ed ogni respiro gratta ferocemente la gola. Mi sembra quasi d’essere in una standup comedy firmata Louis CK, dove il finale caustico che segue il divertimento di una battuta riporta sempre, pesantemente e malinconicamente, ad un cinico realismo. Posso ancora udire il frastuono dei motori, un altro aereo sta per decollare. Si parla di un grande cambiamento, la gente è già per strada, non si sa ancora cosa capiterà. Nessuno sa dove porterà questa tormenta.
Ci sono moltissimi sudanesi che chiedono un cambiamento storico, sostanziale: un governo democratico dopo decenni di soffocante paura e repressione. Sono pronti a rimanere seduti per mesi sotto il sole cocente, in protesta non violenta, in attesa di ottenere un risultato concreto di fronte il Quartier Generale delle Forze Armate. Preferiscono rischiare di essere uccisi che rimanere ancora fermi, immobili, impigliati nelle corrotte dinamiche del passato. Hanno già iniziato la loro lotta.
Dopo poco più di due mesi di presidio, lo scorso 3 giugno il sit-in è stato brutalmente disperso dalle forze RSF – Rapid Support Forces, l’evoluzione dei Janjaweed già responsabili di atroci crimini in Darfur. Da allora il Green Yard è occupato dalle stesse milizie, utilizzato come punto d’appoggio logistico in posizione strategica. Le famiglie sudanesi – né nessun altro – sono ammesse al suo interno. L’accordo tra militari e civili è stato apparentemente trovato. La situazione è in costante evoluzione.