Still life, vite ancora vive2 min read

21 Gennaio 2014 Cultura -

Still life, vite ancora vive2 min read

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Still Life
@JornVeberg

Più che il suo significato tecnico di ”natura morta”, il titolo del film cattura per quello più letterale di ”ancora (in) vita”. E Still Life è, infatti, un magnifico e rigoroso inno alla vita.

John May ha il singolare compito di far celebrare, a spese del comune inglese per cui lavora, le esequie di chi è morto senza parenti. Un compito che potrebbe essere svolto con burocratica indifferenza, tanto chi va a guardare se è fatto bene o no?

E invece John ama il suo lavoro. Con appassionata precisione ricostruisce le vite solitarie di questi defunti, sottraendoli almeno nell’ultimo saluto all’insignificanza solitaria che le ha contraddistinte.

Solitario e meticoloso anche nella vita privata, quindi capace di identificarsi con i destini silenziosi dei suoi ”utenti”, resta vittima dei tagli di spesa dell’amministrazione britannica e viene licenziato. Ma prima ottiene di fare l’ultimo lavoro.

Abile detective delle (ex) vite degli altri – sua l’idea di far suonare al funerale la musica più coerente col profilo umano che ha ricostruito – la sua ultima indagine lo porterà a deviare dalla monotonia ripetitiva e un po’ ossessiva della sua esistenza (questa sì una ”Still life” come quelle morandiane). Ad aprirsi alla vita.

Ma John – un gigantesco Eddie Marsan – ha dimestichezza più con la fine della vita che con la vita stessa. E il rigore un po’ orientale del film, che fa venire in mente la fissità ed essenzialità del cinema sudcoreano e giapponese, lo registra senza sbavature.

L’apparente sconfitta del nostro eroe si ribalta così, con un sorprendente squarcio poetico, nella sua vittoria, nel riconoscimento della sua bontà. Del suo testardo amore per il lavoro.

Due note per chiudere. La storia è vera, frutto di un’autentica ”osservazione partecipante” del regista fra gli impiegati funebri inglesi.

A proposito del regista, Uberto Pasolini: è italiano (non c’entra nulla con PPP, è invece nipote di Luchino Visconti), e il film è italo-inglese. Ed è un capolavoro.

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Aspirante antropologo, vive da sempre in habitat lagunar-fluviale veneto, per la precisione svolazza tra Laguna di Venezia, Sile e Piave. Decisamente glocal, ama lo stivale tutto (calzini fetidi inclusi), e prova a starci dietro, spesso in bici. Così dopo frivole escursioni nella giurisprudenza e nel non profit, ha deciso che è giunta seriamente l'ora di mettere la testa a posto e scrivere su tutto quello che gli piace.
2 Commenti
  1. Fabio Colombo

    ho apprezzato molto il film, ma non il suo troppo esplicito finale. visualizzare ciò che è già presente nell'immaginazione degli spettatori mi è apparso una violenza, soprattutto rispetto allo stile sobrio e minimale del resto del film.

  2. Piergiorgio Rossetto

    già, avrebbe potuto fermarsi prima. Ma son tempi duri, anche per l'immaginazione degli spettatori, ed è facile scambiare un ''finale aperto lirico'' con un ''finale cupo e tragico''.

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