Sociologia del libro: la lettura come esperienza sensoriale12 min read
Reading Time: 9 minutesChe cos’è un libro? Questa domanda oggi potrebbe sollevare accese discussioni tra gli aficionados dei libri di carta e chi invece ha già optato, almeno in parte, per i libri elettronici. Noi però vogliamo parlarne partendo da un leggero spostamento di prospettiva: pensandolo innanzitutto come oggetto, proponiamo una sociologia del libro in quattro puntate. Partiamo dalla lettura come esperienza sensoriale.
Un libro è un oggetto sociale, in quanto presuppone e produce relazioni, ma anche – e prima di tutto – un oggetto materiale. È infatti materico, dotato di proprie dimensioni, di un peso, di una concretezza imprescindibili. Soprattutto quando parliamo di narrativa, inoltre, il libro non coincide con la storia che contiene ma ne è, piuttosto, il supporto: in senso funzionale, quindi, non c’è poi molta differenza fra le tavolette d’argilla, i rotoli di papiro, i volumi di carta e i reader digitali.
Dal punto di vista sensoriale, invece, la differenza c’è eccome: è proprio con questo supporto, infatti, che entriamo inizialmente in contatto quando vogliamo leggere una storia e sono proprio le sue proprietà sensibili che, in molti casi, ci fanno preferire un libro ad un altro. Ecco perché proprio e solo dalla sua materialità può partire una ricostruzione della sociologia del libro.
Sociologia del libro: il gusto
Questo è vero soprattutto nel caso del libro cartaceo che è diventato, nel corso del tempo, un vero e proprio “oggetto di gusto”. Innanzitutto di gusto estetico, inteso secondo l’accezione originale del termine “estetica” che significa “percezione sensoriale” (aisthesis): il libro cartaceo, infatti, si è dimostrato capace di solleticare, attivare e catturare i nostri sensi, diventando così un’entità da percepire a 360 gradi, prima ancora – o comunque oltre – che da leggere.
Possiamo pensarlo persino come oggetto di gusto gastronomico: non mancano precise retoriche e strategie di marketing che, come nel caso dei cibi o delle bevande, fanno leva esattamente sulle sue “caratteristiche organolettiche”. Un esempio di marketing librario centrato sul gusto è il sito mangialibri.com, che usa come logo un panino con dei fogli stampati al posto delle fette di prosciutto e suggerisce l’idea del libro come cosa “buona da mangiare”: anzi, se possibile, di cui fare vere e proprie scorpacciate.
In questo tipo di immaginario elaborato sul gusto il lettore potenziale, insomma, viene preso per la gola. Il lessico alimentare e quello culinario sono diventati un modo molto comune di parlare dei libri. Nella nostra sociologia del libro troviamo, dunque, chi non esiterebbe a definirsi un “lettore compulsivo”, chi si sente un “lettore vorace” o “insaziabile”, chi non ha preferenze di genere letterario e si dichiara fieramente “onnivoro” o ancora chi, come la sottoscritta, a volte pensa alla propria libreria personale come ad una specie di dispensa.
C’è chi compra solo i libri “appena sfornati”, chi rilegge nostalgicamente sempre gli stessi e chi sente che il mordi-e-fuggi della biblioteca locale non basta, che un libro è sempre meglio possederlo che prenderlo a prestito, in modo da poterlo gustare a piccole dosi e a piacimento, come il gelato mangiato di sera in pace sul divano. C’è anche chi, magari arrossendo un po’, confesserebbe di essere dipendente dai libri come lo è dal cioccolato.
Quando un bel libro finisce, il lettore famelico passa subito al successivo mentre quello più sobrio continua a risfogliarlo come gratterebbe il fondo del sacchetto di patatine ormai finito: solo per rievocarne il sapore. In una dimensione molto legata all’appetito soggettivo, il consumo dei libri avviene più spesso nella sfera privata, quella più intima, di ognuno, come vedremo meglio in un’altra parte di questo reportage dedicato alla sociologia del libro. La consunzione a cui certi libri soccombono col tempo e l’uso, per altro, tende a dare una certa soddisfazione che si percepisce a metà fra la mente e le viscere: ho assaporato a fondo quel libro, l’ho davvero consumato, ne ho digerito ogni singola pagina.
Niente di strano, comunque: siamo semplicemente di fronte a casi ordinari di biblio-bulimia. “Si tratta, diranno alcuni, di una specie di disturbo ossessivo-compulsivo: tuttavia il concetto di dipendenza non è adeguato, né abbastanza profondo, per descrivere questo tipo di fame, che io chiamerei piuttosto amore”. Ne parla così Firmino, il piccolo ratto protagonista dell’omonimo libro di Sam Savage: tredicesimo figlio di una mamma che ha solo dodici mammelle, nasce fragile e cresce malaticcio in una vecchia libreria di Boston di cui inizia a mangiucchiare i libri per avere almeno qualcosa da masticare. Della carta scopre pian piano “che ha una consistenza fantastica e, in alcuni casi, un sapore gradevole” perché forma in bocca “un impasto morbido, delizioso, che potevo schiacciare contro il palato o modellare in forme interessanti e infine ingoiare senza correre rischi”. Ogni libro, si accorge ben presto Firmino, ha un suo gusto distintivo:
“All’inizio mi avventavo senza andare troppo per il sottile, in modo indifferenziato, abbandonandomi a un’orgia insaziabile – un boccone di Faulkner era come un boccone di Flaubert, per quel che mi riguardava. Ma presto cominciai a notare delle sottili differenze. Notai, prima di tutto, che ogni libro aveva un sapore diverso: dolce, amaro, aspro, agrodolce, rancido, salato, agro. Notai, anche che, ciascun gusto – e, con il passare del tempo e l’acuirsi dei sensi, il sapore di ciascuna pagina, frase e infine parola – portava con sé e suscitava nella mente un insieme di immagini e rappresentazioni di cose di cui non sapevo nulla a causa della mia limitata esperienza del mondo cosiddetto reale”.
Racconta Firmino di aver incamerato nel suo corpo, smangiucchiandone i volumi, “frammenti di filosofia, psicoanalisi, linguistica, astronomia, astrologia, centinaia di fiumi, canzoni popolari, la Bibbia, il Corano, la Bhagavad-Gītā, il Libro dei Morti, la Rivoluzione francese, la Rivoluzione russa, centinaia di insetti, segnali stradali, annunci pubblicitari, Kant, Hegel, Swedenborg, fumetti, filastrocche, Londra e Tessalonica, Sodoma e Gomorra” e ancora “la storia della letteratura, la storia dell’Irlanda, accuse di crimini indicibili, confessioni, dinieghi, migliaia di giochi di parole, decine di lingue, ricette, barzellette sporche, malattie, nascite, esecuzioni … tutto questo, e ancor di più”.
Ed è qui che la dimensione più prettamente sociale del libro inizia a manifestarsi: leggere è sì un atto privato ma anche, fin da subito, relazionale, che ci mette inevitabilmente in rapporto con altri tempi, altri luoghi, altre vite, sia sul piano immaginario che, come vedremo più avanti, su quello concreto. Un atto che, come quello alimentare, smuove i confini del nostro essere e ci spinge ad accogliere in noi qualcosa di altro da noi.
Le parole di questo piccolo topo metropolitano rimandano innanzitutto al concetto che fa da sfondo al legame fra lettura ed alimentazione: l’idea che leggere sia un po’ nutrirsi, e che le letture siano cibo per la mente e l’anima. Ma è proprio attraverso la fruizione fisica del supporto che può darsi quella psicologica e cognitiva della conoscenza veicolata dai libri.
C’è chi già nel 2012 aveva portato all’estremo questo parallelo creando dei libri letteralmente commestibili: si trattava dell’edizione limitata di una guida di sopravvivenza nel deserto ideata da Land Rover in collaborazione con l’agenzia pubblicitaria Young&Rubicam e dedicata ai guidatori off road che necessitavano di istruzioni su come cavarsela in situazioni difficili: costruire un rifugio, accendere un fuoco, orientarsi con le stelle. E, in caso di emergenza, procurarsi da mangiare: le guide furono stampate infatti su carta di patate, con inchiostro alimentare e una rilegatura a spirale in metallo da usare come spiedino. Un caso limite, ovviamente, ma che mette in evidenza il motivo per cui si può parlare dei libri come fossero succulenti cibi o addirittura buoni vini: perché è innanzitutto attraverso i nostri sensi che noi entriamo in rapporto con loro.
E il gusto non è il solo ad essere chiamato in causa.
Sociologia del libro: la vista
Anche la vista infatti, ha la sua importanza: come ogni oggetto da vendere, anche un libro deve captare lo sguardo ed affascinare, evocare, far immaginare. Su quest’aspetto naturalmente lavorano i grafici che creano titoli e copertina (mentre il resto dovrebbe farlo il visual merchandiser che posiziona i libri nelle vetrine reali o virtuali) ma, al di là del singolo esemplare, è molto interessante il fatto che ogni casa editrice si caratterizzi per una forte riconoscibilità dei propri volumi: dalla semplicità o meno della copertina allo spessore della costa alla sfumatura di colore della carta. Personalmente sono certa di essermi persa per strada molti buoni libri solo perché, quando li incontro in libreria, non mi attirano le copertine delle loro case editrici: mi riferisco proprio al tipo di stampa, alla rilegatura, ai caratteri, alle dimensioni.
Sociologia del libro: l’olfatto
Subito dopo viene l’olfatto. Che i libri cartacei abbiano un odore distintivo, non ci piove. Come giornali e riviste, ce l’hanno perché ce l’ha la carta di cui sono fatti (a sua volta costituita di fibre vegetali impastate con liquidi e colle), perché vi è impresso un inchiostro e perché sono stati sottoposti al procedimento meccanico della stampa. Ma anche perché incorporano gli odori dei luoghi in cui sono stati, delle mani che li hanno tenuti, della saliva che li ha sfogliati: i loro elementi costitutivi interagiscono attivamente con il calore, la luce e l’umidità dell’ambiente (pare che assorbano, in particolare, l’odore del tabacco).
Ecco dunque aprirsi il great divide fra i libri nuovi di zecca (che odorano, appunto, “di nuovo”) e quelli usati (con odori che variano dal dolce della vaniglia allo stantio della muffa). Molte persone, compresa la sottoscritta, hanno una passione quasi fisica per la carta in quanto materiale dei libri. Ricordo come fosse ieri l’odore stranissimo del primo libro che ho letto da cima a fondo: un’edizione paperback della Sperling&Kupfer di It, scritto da Stephen King. Avevo 12 anni e fui catturata, oltre che dalla mole, dall’odore vagamente affumicato, ma anche un po’ dolciastro, di quel volume che da anni riposava nella biblioteca estiva di mia madre. Lo divorai, è proprio il caso di dirlo, nel giro di qualche settimana e da quel momento non smisi più di leggere (e di annusare) libri.
La compulsione ad annusare i libri, se non proprio a “sniffarli”, è una tendenza più diffusa di quanto si immagini, attorno alla quale si sono formate vere e proprie comunità (penso, ad esempio, a certi thread di discussione online), solidali nel difendere quella che molti altri considerano soltanto una strana abitudine. Ogni libro sembra avere il proprio odore inconfondibile: qualcuno consiglia, in particolare, “i classici greci dell’Utet e i loro ultimi dizionari (l’Abbagnano/Fornero ha una persistenza da sballo), i saggi di Lettere italiane di Olschki e, per chi vuol provare proprio tutte le sensazioni, i primi Mammut di Newton Compton – ma con cautela, neh”.
Della carta come materiale e tecnologia si è occupato diffusamente Ian Sansom nel suo libro intitolato proprio L’odore della carta, in cui ne narra la storia e ne tesse l’elogio per il fondamentale contributo che ha dato alla nostra vita privata e alla nostra evoluzione sociale. Senza scordarsi un riferimento esplicito alla bibliomania o dipendenza dai libri che, stando agli studi condotti finora, sarebbe da collegarsi proprio all’odore della carta.
Sociologia del libro: il tatto
Tornando al coinvolgimento dei sensi, non va sottovalutato nemmeno il tatto: basti pensare alla sensazione unica che i caratteri di un titolo impressi in rilievo rilasciano ai polpastrelli mentre vi scorrono sopra. Io stessa ho passato più di qualche strano momento a percorrere le copertine dei miei libri ad occhi chiusi, per vedere se indovinavo il titolo da quella specie di alfabeto morse sui generis. Per non parlare della microscopica ma impareggiabile opportunità che le pagine di carta danno ad ogni lettore: quella di potersi ogni volta “bagnare il dito”, come disse Umberto Eco.
Sociologia del libro: l’udito
Sfogliare le pagine, a sua volta, produce un suono, anch’esso inconfondibile. I libri, infatti, fanno rumore: soprattutto quando li si apre per la prima volta all’incirca a metà e se ne fa scrocchiare il dorso. Oppure quando se ne muovono lentamente dei blocchi di pagine ripetendo più volte il gesto dell’apertura: il suono che ne esce è molto simile a quello di una risacca marina.
Sociologia del libro: i lettori digitali
I libri sono oggetti, insomma: e, come ogni oggetto, anche il libro ha i suoi maniaci. La particolare fisicità dei libri cartacei genera tante sensazioni e suggerisce delle gestualità che precedono ed accompagnano la lettura vera e propria, diventandone ad un tempo parte integrante.
Una sociologia del libro e della sua materialità non potrebbe essere completa senza un riferimento ai nuovi formati digitali. L’ pproccio basato sui cinque sensi stimola infatti alcune domande interessanti: non nostalgiche, ma pragmatiche. Quali sensazioni vengono prodotte dai libri elettronici?
Anche il libro digitale necessita di un supporto (reader), che è fatto per lo più di alluminio e materiali plastici. Il suo peso, la forma e le dimensioni non si discostano molto da quelle dei libri cartacei e, proprio per sfruttare la nostra consuetudine con la carta e l’associazione che per secoli abbiamo fatto tra carta e libro, essi ci richiedono in parte lo stesso tipo di gestualità (lo sfoglio, in alcuni casi l’apertura e la chiusura della cover) e ne riproducono persino alcuni suoni (di nuovo, quello delle pagine sfogliate).
D’altra parte i lettori digitali sembrano non poter fare particolare leva sulla vista, dato che si somigliano un po’ tutti e, più dei libri cartacei, devono fare affidamento sulla voglia personale di leggere per leggere. Infine, manca loro l’odore. A colmare questa lacuna ci avrebbe pensato, di recente, Karl Lagerfeld: consapevole dell’appeal aromatico dei libri e lui stesso accanito lettore, in collaborazione con la casa editrice Steidl e il profumiere tedesco Schön ha lanciato la linea di boccette Paper Passion, esplicitamente dedicata ai booklovers e agli sniffatori di libri che hanno “dovuto” passare agli e-book. Lagerfeld consiglia di diffondere e annusare il profumo appena prima di cominciare a leggere e di lasciarsi inebriare da una fragranza che ricorderebbe quella dei libri nuovi. A parte la mancanza di un’effettiva sinestesia, comunque, il prodotto ha un prezzo (85 Euro) non esattamente alla portata di tutti.
Se, come abbiamo visto, la sensualità dei libri gioca un ruolo così importante nelle nostre scelte, credo la questione del coinvolgimento sensoriale sia tutt’altro che secondaria: quali sensi vengono attivati e sfruttati dai reader elettronici? L’evoluzione della loro materialità avrà delle conseguenze sulle nostre scelte e tendenze di lettori? Nell’ipotesi di una sempre maggiore sostituzione del cartaceo con il digitale, su quale immaginario farà leva la pubblicità? In quali termini parleremo fra noi del nostro gusto per i libri? A quale metafora ci appoggeremo per costruire il nostro desiderio di lettura?
Sociologia del libro come esperienza sensoriale: approfondimenti
Sam Savage, Firmino. Avventure di un parassita metropolitano, Einaudi, Torino, 2008.
Mauro Giancaspro, L’odore dei libri. Fiabe e racconti per bibliofili, Grimaldi&C. Editori, Napoli, 2007.
Ian Samson, L’odore della carta, Tea, Milano, 2013.
Immagine | Antonio Tajuelo
Pier
Esiste un sesto senso, che tutti li racchiude e li riassume, è la ''libridine'', il vero e proprio sesto senso del cacciatore/raccoglitore di libri. I libridinosi sono una pacifica tribù, trasversale e globale, che può anche raggiungere, ahimè, gli abissi ossessivo-compulsivi della bibliodipendenza che offusca, cancellandola, la vita: penso a certi scrittori che vivono in case dove gli unici mobili ammessi sono librerie, o monacali tavoli e letti sorretti da libri; o a quell'editore veneziano costretto a procurarsi un altro appartamento solo per tenere i suoi libri). Ma per lo più il libridinoso è inoffensivo per sé e per gli altri, è solo una sottospecie curiosa, anzi un cyborg fatto di tessuto umano e cellulosa, il cui habitat preferenziale è, naturalmente, la libreria temperata, o la biblioteca fresca, là dove più facile è reperire le sue preziose prede.
Valentina
Questo sarà, più o meno, l'argomento del prossimo articolo ;)