Cos’è e cosa prevede il Memorandum Italia-Libia9 min read

21 Dicembre 2022 Politiche migratorie -

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Giornalista

Cos’è e cosa prevede il Memorandum Italia-Libia9 min read

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Il 2 novembre 2022 è stato tacitamente rinnovato fino al 2026 il Memorandum d’intesa tra Italia e Libia, che prevede finanziamenti e formazione alla Guardia costiera libica con l’obiettivo di fermare i flussi migratori nel Mediterraneo. Contro la proroga dell’accordo si sono espresse 40 ong, ricordando le violazioni dei diritti umani sistematicamente compiute durante le intercettazioni in mare dei migranti e all’interno dei centri di detenzione libici dove vengono condotti quelli che non ci riescono. Le testimonianze di tortura e sfruttamento avevano portato nel 2021 il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite a considerare le azioni perpetrate in Libia come «crimini di guerra e contro l’umanità».

Non essendo giunta alcuna richiesta di revoca dell’accordo da parte dell’Italia – ipotesi che le stesse ong ritenevano improbabile, dato che nemmeno i precedenti governi di centro-sinistra si erano mossi in tal senso – il Memorandum Italia Libia è stato rinnovato alla scadenza dei tre anni per un periodo equivalente. Il limite massimo per notificare la revoca, secondo l’art. 8 dello stesso, era il 2 novembre, a tre mesi dalla data di rinnovo del 2 febbraio 2023.

La storia del Memorandum Italia Libia

Il Memorandum Italia Libia, siglato nel 2017, ha origine dal contesto geopolitico condizionato dalla cosiddetta “crisi dei rifugiati” del 2015, che aveva fatto delle politiche migratorie una priorità degli Stati membri dell’Unione europea con l’obiettivo di contrastare l’immigrazione irregolare nel continente.

La breve parentesi dal 2013 al 2014 dell’operazione umanitaria Mare Nostrum aveva permesso il salvataggio di oltre 160 mila persone per mano della Marina militare italiana, che poteva agire su un’area di soccorso estesa 630 chilometri oltre quella in capo al nostro paese. Dalla sua scadenza, alla fine del 2014, i governi dell’Unione e la Commissione europea hanno deciso di puntare sulla sorveglianza delle frontiere marittime esterne, per gestire i flussi migratori nei paesi di origine e transito. L’operazione Triton, rivolta al contrasto dell’immigrazione irregolare e dell’attività dei “trafficanti”, riportava l’operatività della Marina entro le 30 miglia dalle coste italiane e maltesi e dava il via allo smantellamento del sistema istituzionale europeo di soccorso nel Mediterraneo.

Un altro tassello verso l’esternalizzazione delle frontiere veniva aggiunto nel 2016. Allora, la Commissione europea e il Servizio europeo per l’azione esterna (Eeas) avevano richiesto alla Guardia costiera italiana di predisporre un progetto per l’istituzione di un Centro nazionale di soccorso marittimo a Tripoli e per supportare le autorità libiche nella definizione della propria area di responsabilità per la ricerca e il soccorso in mare. Da qui, nel 2018, è stata delineata da Tripoli una zona Sar, l’area di mare su cui si ha la responsabilità di intervenire in caso di emergenza, sottoposta al “coordinamento” libico.

Frutto di questo contesto e culmine delle politiche anti-migratorie dell’ex ministro dell’Interno Marco Minniti, il Memorandum tra Italia e Libia è stato siglato il 2 febbraio del 2017 da Paolo Gentiloni e dall’allora presidente del Consiglio presidenziale Fayez Mustafa Serraj, riconosciuto dal Governo di accordo nazionale libico. Come deterrente alle partenze dalla Libia era stato proposto il pattugliamento direttamente in acque libiche e la creazione di centri di accoglienza in Libia, sotto il controllo dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) e dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim).

Uno schema che ricalca quello di marzo del 2016, relativo alla rotta mediterranea orientale tra Turchia e Grecia, ovvero l’accordo tra il Consiglio dell’Unione europea e il governo turco di Recep Tayyip Erdoğan per trattenere milioni di rifugiati siriani.

Da allora,il Memorandum Italia Libia non ha mai subito modifiche. Il 9 febbraio del 2020 l’ex ministro degli Esteri Luigi Di Maio aveva annunciato di aver inviato al governo di Tripoli una richiesta di modifica del’accordo, rinnovato appena sette giorni prima per altri tre anni. Nel comunicato, la Farnesina aveva spiegato di voler introdurre «significative innovazioni per garantire più estese tutele ai migranti, ai richiedenti asilo ed in particolare alle persone vulnerabili vittime dei traffici irregolari che attraversano la Libia» e di voler promuovere «il rispetto dei principi della convenzione di Ginevra e delle altre norme di diritto internazionale sui diritti umani». Gli emendamenti, articolati in otto punti, riguardavano la garanzia di una maggiore presenza delle agenzie Onlu, Unhcr e Oim in Libia. Di questa proposta non si è saputo più nulla.

Cosa prevedono gli accordi

Quanto al contenuto, ufficialmente l’obiettivo del Memorandum Italia Libia sarebbe quello di tutelare e rafforzare la cooperazione allo sviluppo in Libia e «sostenere la riconciliazione nazionale, la stabilizzazione e la democratizzazione del paese». Nel testo dell’accordo, la condizione necessaria al raggiungimento di questo sviluppo viene rintracciata nel contrasto all’immigrazione irregolare, alla tratta di esseri umani e al terrorismo, problematiche che l’intesa si propone di superare con il rafforzamento della sicurezza delle frontiere.

Il Memorandum prevede, quindi, un controllo dei confini della Libia, soprattutto al sud del paese e la predisposizione di campi di accoglienza temporanei sul territorio, sotto il controllo esclusivo del ministero dell’Interno libico, in attesa del rimpatrio o del rientro volontario dei migranti nei paesi di origine. Tra gli obiettivi del Memorandum ci sarebbe anche quello di migliorare il tenore di vita, le condizioni sanitarie e ridurre povertà e disoccupazione nei paesi d’origine dei migranti, in «una prospettiva di cooperazione euro-africana più completa e ampia finalizzata ad eliminare le cause dell’immigrazione irregolare».

La parte italiana si impegna, inoltre, a fornire supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici «incaricati della lotta contro l’immigrazione irregolare», quindi la Guardia di frontiera e la Guardia costiera. Si tratta di un sostegno attuato su più fronti, tramite l’impiego di fondi, mezzi e addestramento. Ma anche medicinali e attrezzature mediche per i «centri sanitari di accoglienza», che possano soddisfare le esigenze di «assistenza sanitaria dei migranti irregolari per il trattamento delle malattie trasmissibili e croniche gravi».

Un meccanismo che, di fatto, segue la stessa logica dei respingimenti condannati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), ma attuandoli “per procura”. Questo perché l’Italia non li realizza materialmente, ma finanzia i libici affinché siano loro a farli. Lo stratagemma servirebbe a evitare di incorrere in condanne come quella per il caso Hirsi Jamaa del 2012, quando l’Italia aveva consegnato alle autorità libiche un gruppo di 200 persone recuperate nella Sar maltese ed era stata ritenuta responsabile dalla Cedu di «aver violato il divieto di essere sottoposti a tortura o altri trattamenti inumani o degradanti, il diritto ad un ricorso effettivo ed il divieto di espulsioni collettive di stranieri».

Secondo l’accordo, la definizione delle priorità d’azione, l’attuazione e il monitoraggio degli impegni assunti spettano a un comitato misto, composto da un numero di membri uguali tra le due parti.

memorandum italia libia
Italian Coast Guard rescues migrants and refugees bound for Italy. © IOM/Francesco Malavolta 2014

La situazione politica in Libia

La Libia è un Paese politicamente instabile, diviso in due distinte aree di autorità e segnato da atti di violenza crescenti contro la popolazione. Nel 2017, il governo di Tripoli era guidato da Fayez al-Serraj, indicato dalle Nazioni Unite come Capo di Governo di unità nazionale, mentre il Parlamento di Tobruk era sostenuto dal generale Khalifa Haftar. Al momento della firma, quindi, Serraj controllava da poco più di un anno solo una parte del territorio libico, sebbene molto ampia.

Nel frattempo le condizioni politiche del paese sono diventate persino più complesse: il governo di Tripoli, presieduto da Abdul Hamid Dbeibah, dal 2021 non riesce ancora a indire nuove elezioni presidenziali e parlamentari, mentre il Governo di Stabilità Nazionale, affidato al ministro Fathi Bashagha dal Parlamento, continua a non essere riconosciuto dalle Nazioni Unite.

In questo quadro, la Guardia libica è ormai da tempo una vera e propria milizia autonoma, fuori dal controllo del governo e composta da trafficanti di esseri umani.

Quali sono le conseguenze del Memorandum Italia-Libia

A sei anni dagli accordi, il bilancio sui diritti umani delle persone migranti intercettate in Libia è disastroso. Gli uomini, donne e bambini intercettati in mare dalla Guardia costiera libica e riportati forzatamente in Libia dal 2017 a oggi sono quasi centomila.

Più di un terzo di tutti i rifugiati e migranti partiti dalle coste libiche non sono mai arrivati in Italia o a Malta: il Mediterraneo si conferma il luogo di migrazione più pericoloso al mondo. Secondo la piattaforma Missing migrants, dal 2014 a metà del 2022 le persone morte o disperse nel tentativo di attraversarlo sarebbero oltre 25.300. Secondo il Dossier statistico sull’immigrazione 2022, il tasso di mortalità del 2021, ovvero la percentuale di persone annegate e disperse sul totale delle partenze, è stato del 4,7%. Nel 2017, era il 2,6%.

Sui 19 centri di Tripoli, negli unici cinque cui hanno accesso le agenzie Onu e alcune ong sono rinchiuse 2.700 persone. Migliaia di migranti vi rimangono intrappolati per mesi nel tentativo di raggiungere l’Italia. Attraverso le testimonianze di alcuni di loro, in un rapporto della commissione d’inchiesta indipendente delle Nazioni Unite sulla Libia del 2022, si parla di una «diffusa e sistematica detenzione arbitraria, atti di omicidio, sparizione forzata, tortura, riduzione in schiavitù, violenza sessuale, stupro». Il rapporto definisce «inimmaginabili orrori» i trattamenti subiti dagli immigrati rinchiusi in questi centri “di accoglienza” che sono, in realtà, veri e propri centri di detenzione.

Nel rapporto viene confermata, inoltre, la commistione delle autorità libiche con le milizie, gruppi criminali già oggetto di sanzioni da parte dell’Onu, e il loro coinvolgimento in questo sistema di detenzione e abuso istituzionale, in un contesto di assoluta impunità. Motivo per cui, diverse ong chiedono che la Libia, che non riconosce nemmeno la convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, venga considerata dal governo italiano un “porto non sicuro”, come già indicato da una sentenza del 2021 dalla Corte di Cassazione.

Il complesso monitoraggio dei finanziamenti

Dal 2017 l’Italia ha consegnato alla Libia oltre cento milioni di euro per la formazione del personale addetto ai centri di detenzione ed equipaggiamenti destinati alla Guardia costiera libica. Le fonti di finanziamento, italiane ed europee, sono suddivise su diverse stazioni appaltanti, con il risultato di una spesa frammentata e poco trasparente.

Da anni molte organizzazioni chiedono una diversa condivisione dei dati, ma in linea contraria va il decreto firmato dall’ex ministra dell’Interno Luciana Lamorgese a marzo del 2022, con cui veniva limitato l’accesso civico ai dati. Aggiornando la “Disciplina delle categorie di documenti sottratti al diritto di accesso ai documenti amministrativi”, il Viminale aveva incluso nella categoria di quelli inaccessibili per motivi di sicurezza anche quelli «relativi a intese tecnico-operative per la cooperazione internazionale di polizia, inclusa la gestione delle frontiere e dell’immigrazione».

Tra i finanziamenti italiani più recenti, c’è quello di 10,5 milioni di euro per un anno approvato nel 2021 e quello concesso dal Parlamento a luglio di quest’anno per 11,8 milioni di euro fino alla fine del 2022. Un’inchiesta dell’Associated Press del 2019 aveva svelato come una parte dei soldi che l’Unione europea aveva inviato in Libia nei tre anni precedenti, corrispondenti a oltre 327 milioni di euro, fossero finiti nelle mani dei trafficanti di esseri umani e miliziani e riciclati in Tunisia.

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Da sempre appassionata di comunicazione, ha studiato tra Palermo, Bologna e Torino. Ha un master in giornalismo e ha collaborato con La Stampa, Il manifesto e altri. Scrive di temi sociali, diritti, marginalità. Per Le Nius si occupa di migrazioni.
1 Commenti
  1. IB

    Gentile sig.ra D'Aleo, grazie per l'interessante articolo. Però, manca completamente qualunque considerazione sui flussi che ENTRANO in Libia. È chiaro che si cerca di bloccare i migranti in Libia, ma non dice né chi siano né come si siano arrivati. Questo fa una notevole differenza, perché se parlassimo di libici, sarebbe come vedere un palazzo in fiamme e chiudere le porte per impedire che la gente esca. Però i dati di UNHCR e del cruscotto migranti ci dicono che gli arrivi dall'ovest della Libia sono in larga parte costituiti da bengalesi. Quindi persone che hanno fatto un viaggio di 7000km, al costo di 8/10.000 dollari, appositamente per entrare in Libia. Con ciò diventa chiaro che non si tratta di salvare le persone che si trovano nelle carceri libiche, ma impedire che ne entrino altre. Per capire la relazione tra causa ed effetto, sarebbe interessante comparare il numero dei salvataggi con quello degli ingressi in Libia. Ad esempio, si ha l'impressione che il memorandum Italia-Libia abbia avuto la conseguenza di spostare i flussi verso Spagna e Grecia. Infatti, nel 2018 e 2019 questi hanno registrato più ingressi che l'Italia. Per aiutare nella comprensione dei flussi, ci si dovrebbe chiedere perché le persone entrano in un territorio in guerra, con alto rischio di torture, invece che optare per Tunisia, Grecia o Canarie. Proprio perché parliamo di persone che partono da molto lontano, la loro scelta è molto diversa da un Ucraino che si limita a passare la sua frontiera. Probabilmente, valuta la rotta che massimizza la probabilità di raggiungere la destinazione.

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