Una gita a Matera o perché non ho visto Roma-Napoli3 min read

5 Aprile 2015 Uncategorized -

Una gita a Matera o perché non ho visto Roma-Napoli3 min read

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roma-napoli
@FrancescaCappa

Roma-Napoli non l’ho vista. Non so neanche quale maglia abbiamo indossato. Non ho incrociato un solo fotogramma della gara. Conosco il risultato, sto già bene così. Nel senso che va male, non serve null’altro, stong’ appost’.

Non voglio sapere nulla. Non ero a Napoli. Non ero connesso. Ieri sono stato solo due telefonate – intervallo/finale – a due amici. Brevi. Contratte. Da vecchio Totocalcio. Che facciamo? Che abbiamo fatto? Come l’inviato in bianco e nero che dettava l’articolo, solo che ho preso la corriera nella direzione opposta ed invece di trovarmi a Roma ero in Basilicata.

Matera è argillosa. Colore crudo. Una novella di Verga. Vabbuò, però lui è siciliano ed una novella l’ambienta pure a Matera, ma Benitez e compagnia non li mette mica. Di questo me ne accorgo a mie spese: la città non ha molti posti dove vedere Roma-Napoli alle 12.30 il sabato di Pasqua. Giro, cerco, chiedo. Qui? Niente. Qui? Nemmeno. Qui? Nz nz. Quasi un’ora, nulla. Sai che ti dico? Andassero tutti a quel paese. Ma sì, certo, qual è il problema? Con serenità: entro in questa osteria, mi accomodo e basta così, mi godo la cucina lucana, i sorrisi pieni di queste persone. Addio Olimpico, addio Roma: oggi sono distante anni luce.

Invece alle 13.15 sono a dieci passi, dieci. In osteria non c’è linea. Scusa, esco un secondo a fare un telefonata. Uno, due, tre, quattro, cinque. Rubrica, scroll, componi. Sei, sette, otto, nove, dieci. “Ch facimm?”. Parlo basso, chiuso, bruno. La mia talpa si chiama Gabriele. Mi risponde che lui non capisce nulla di calcio e quindi non sa cosa vede, non si può esprimere. Capisco già. Lo ammetto: ad un certo punto ho creduto di averla scampata. Quando mi sono rassegnato all’idea di non vedere una gara così importante ho pensato di essere al riparo. Del tipo: non la vedo, se si mette male non ci soffro come se la stessi vedendo.

Sto qua a leggere che il calcio è un gioco, ed uno lo deve prendere come viene. ‘Sta cosa mi fa ricordare una targa che ho visto a Notting Hill, una volta, in mezzo alla paccottiglia da turisti: “No one ever says ‘It’s only a game’ when their team is winning”. Leggo che noi napoletani cerchiamo il riscatto sociale nel calcio, e che dovremmo smetterla. Mi chiedo che volto avrò, allo specchio, il giorno in cui me la prenderò con Rafa Benitez per la mia condizione di precario, se mi riconoscerò.

Vado oltre. Il calcio senza trama e sfondo, senza romanzo e narrazione collettiva, m’importa poco. Sono nato a Napoli, azzurro, ma sono cresciuto guardando verso gli spalti, prima, e verso il campo, poi. Perché della prima volta che ho messo piede in uno stadio – il mio, il nostro – non ricordo nulla del lato tecnico della storia, neanche il risultato. Ricordo il frastuono. Lo stordimento. L’incomprensione. Lo stupore. Il timore. L’infanzia. Il resto l’ho imparato, decifrato, condiviso, rifiutato, assorbito, metabolizzato, vissuto, vomitato, amato, stretto, pianto, gioito e cento e più cose che se anche sapessi davvero scrivere – è certo – non saprei comunicare. Perché se fosse razionale, non sarebbe.

Ripenso alla mia infanzia. Alle ginocchia a terra. Il tabellone del Monopoli aperto. Se passi dal Via ritira 20mila lire. Finte. Come tutto il resto dei soldi: finti. Come tutti i giochi. Che sono finti, gratuiti e indolori a patto di non diventare passioni.

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Napoli, luglio '87. Due mesi prima gli Azzurri vincono lo scudetto, lui arriva in ritardo. Una laurea in Storia contemporanea, ma scopre che la Storia non si ripete. Poi redazioni, blog, libri, ciclismo, molti aerei, il tifo, la senape, la vecchia Albione, un viaggio di 10mila km in camper in capo al mondo. Per dimenticare quel ritardo sta provando di tutto.
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