Di cosa hanno bisogno i bambini in fuga dalla guerra?11 min read

6 Giugno 2022 Infanzia -

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Di cosa hanno bisogno i bambini in fuga dalla guerra?11 min read

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Quando i bambini fuggono, da una guerra o da qualsiasi altra emergenza, la loro quotidianità viene stravolta all’improvviso. Devono separarsi dagli affetti, dai luoghi, dalle persone di riferimento e talvolta si trovano catapultati in una diversa cultura e una diversa lingua. In questa frattura, insieme ai rischi e ai disagi legati a una migrazione forzata, per loro si apre una fase estremamente delicata anche dal punto di vista psicologico. Paure e incertezze entrano a far parte della loro esperienza, del loro processo evolutivo, della loro idea di sé e del mondo esterno.

La guerra in Ucraina, molto più di altri conflitti tutt’ora in corso, ha innescato un moto positivo di solidarietà in Italia e in Europa. L’impulso ad aiutare è senz’altro da valorizzare, ma occorre fermarsi a riflettere sul modo in cui è più opportuno agire nei confronti dei minori in fuga dalla guerra e, in generale, da situazioni di emergenza. Di quali siano i loro bisogni, e di come possiamo affrontarli, abbiamo parlato con Francesca Giordano, psicologa e psicoterapeuta dell’età evolutiva, docente all’Università Cattolica in psicologia dello sviluppo e psicologia dell’adolescenza e membro dell’Unità di Ricerca sulla Resilienza.

 

Ascolta “Di cosa hanno bisogno i bambini in fuga dalla guerra? | Intervista a Francesca Giordano” su Spreaker.

Non solo Ucraina, non solo guerra. Quanti sono i minori in fuga?

Al momento in cui scrivo, sono oltre 6 milioni e mezzo le persone che hanno lasciato l’Ucraina dal 24 febbraio 2022 (dati UNHCR). Concentrandoci sui bambini e sulla nostra penisola, secondo i dati del Ministero dell’Interno sono circa 41 mila i minori arrivati fino ad oggi in Italia. Si contano anche 66 mila  donne e 19 mila  uomini, per un totale di quasi 126 mila persone.

Sono dati che aumentano di giorno in giorno, e così probabilmente sarà fintanto che il conflitto non avrà fine. E anche in seguito, non possiamo aspettarci che gli sfollati possano rientrare subito e con facilità in un paese distrutto, minato, con un’economia e un tessuto sociale da ricostruire quasi da zero.

I minori arrivati in Italia negli ultimi due mesi hanno perso in pochi giorni buona parte delle loro certezze: attraversando il confine hanno lasciato la casa, la scuola, gli amici. Buona parte di loro ha visto smembrarsi la famiglia, lasciandone una parte (in genere gli uomini) alla guerra. Guerra di cui i bambini hanno visto gli effetti con i propri occhi, prima di partire.

Alcuni di loro arrivano accompagnati dalla madre o da entrambi i genitori; altri sono accompagnati da figure adulte di riferimento diverse e si definiscono “separati”; infine ci sono i minori non accompagnati, che arrivano soli e sono spesso i più vulnerabili nel momento in cui sfuggono al sistema nazionale di accoglienza e protezione.

Il problema dei minori in fuga non riguarda solo l’Ucraina. Ben prima che questa guerra avesse inizio, alla fine del 2020, c’erano nel mondo 82,4 milioni di sfollati a causa di conflitti e violazioni dei diritti umani (dati UNHCR 2020, pdf). Di questi, oltre 34 milioni erano minori (42%). Secondo il rapporto dell’UNHCR “Global trends forced displacement in 2020” tra il 2018 e il 2020 una media tra 290 mila e 340 mila bambini ogni anno sono nati in un “contesto da rifugiati”. I principali paesi di provenienza erano Siria, Venezuela, Afghanistan, Sud Sudan e Myanmar.

È importante aggiungere, per inquadrare meglio il fenomeno, che le guerre e le violenze non sono le uniche ragioni che costringono le persone (bambini compresi) a lasciare il luogo in cui vivono. Secondo l’Internal Displacement Monitoring Centre (IDMC) nel solo 2020 si sono registrati oltre 30 milioni di nuovi spostamenti interni a causa di eventi ambientali estremi, la cifra più alta degli ultimi dieci anni, oltre il triplo di quelli causati da guerre e violenze.

Di cosa hanno bisogno i bambini che scappano da guerre e altre emergenze?

Come abbiamo visto, uno degli aspetti più rilevanti che contraddistinguono le migrazioni forzate è lo sradicamento. Come spiega Francesca Giordano, “Sicuramente il trauma da guerra e migrazione porta a una perdita improvvisa di punti di riferimento, della propria terra, e quindi di aspetti identitari molto importanti. Il tema è proprio come aiutare queste identità disintegrate, spezzettate dalla guerra e dalla migrazione, a ricostruirsi. Il primo punto fondamentale è sentirsi accolti.”

Questa è infatti la prima delle sei Pillole di resilienza, pubblicate dall’Unità di Ricerca sulla Resilienza per aiutare chi accoglie a costruire una relazione d’aiuto consapevole. “Anche al di fuori della guerra in Ucraina,” continua Giordano, “un qualsiasi bambino che subisce una migrazione è un bambino che ha bisogno di ritrovarsi. Ha bisogno di sentirsi accolto, desiderato, ascoltato. Deve sentire intorno a sé un contesto interessato a rispondere ai suoi bisogni, alle sue preoccupazioni, alle sue domande. Il tutto in un clima che trasmetta l’idea della sicurezza e della confidenza.

“Secondo uno dei paradigmi del trauma psichico di Ronnie Janoff-Bulman, ciò che caratterizza un trauma è la rottura di tre credenze fondamentali rispetto al sé e al mondo esterno. Una di queste è l’idea del mondo esterno e dell’Altro come benevolo. Chiaramente traumi come la guerra vanno a minare la fiducia nell’Altro. Quindi l’idea dell’accoglienza deve essere anche di un contesto ben disposto nei miei confronti, che vuole accogliermi e supportarmi.

“Connesso a questo c’è il tema della sicurezza e della protezione. In un contesto estraneo non mi sento necessariamente al sicuro: ho bisogno del mio tempo. Se pensiamo ad esempio al processo dell’inserimento che si fa con i bambini alla scuola materna o al nido, vediamo che è sicuramente legato alla separazione, ma anche al sentire da parte del bambino che quello è un luogo sicuro, in cui può sentirsi protetto anche in assenza del caregiver. La componente della sicurezza e della protezione è fondamentale, a maggior ragione se si tratta di bambini che hanno vissuto una trasformazione radicale del loro contesto di vita e minacce continue alla loro sopravvivenza.

Photo by manhhai on Flickr

La sicurezza e la protezione deriva sicuramente da un luogo accogliente, protetto e curato, ma anche da una relazione d’aiuto autentica, che promuova un rapporto di fiducia con figure di riferimento stabili e incoraggianti. Una relazione capace di rispondere ai miei bisogni, ma non in maniera intrusiva.”

Si fugge per salvarsi, con l’idea di trovare una sistemazione temporanea e di tornare a casa a emergenza finita. Spesso, però, i tempi non sono brevi come si vorrebbe e per molte persone questo atteggiamento porta ad un vivere sospeso, fatto di un’attesa tanto lunga da farsi strutturale. È una dinamica che riguarda soprattutto le persone adulte, spiega Francesca Giordano:

“Un aspetto che ho notato, lavorando soprattutto con i profughi siriani, è che spesso i genitori vivevano una vita sospesa, in attesa di ritornare in Siria. C’è come un’idea di mettere in pausa la vita, ma il bambino non può mettere lo sviluppo e la crescita in pausa. Quindi, una volta accolto in un contesto sicuro e protetto, il bambino deve essere incoraggiato a ingaggiarsi, ad esempio in attività ludiche. Deve poter accrescere i propri talenti e utilizzare la fantasia.”

L’accoglienza, la valorizzazione dei talenti, l’espressione e l’elaborazione dei vissuti traumatici non hanno soltanto a che fare con un sollievo immediato. In gioco c’è l’autostima e l’attitudine futura di fronte alle difficoltà, spiega Francesca Giordano:

“Ciò che caratterizza per definizione un evento traumatico è che questo supera la capacità dell’individuo di dare risposte. Molto spesso il vissuto di impotenza e passività che la persona vive mentre è esposta all’evento permane nell’individuo e va a tradursi in un vissuto di impotenza anche rispetto ad altre attività. L’identità di vittima continua e la persona si sente incapace di vivere in maniera adattiva la quotidianità. È molto importante trasmettere ai bambini che hanno subito traumi il messaggio che le sfide possono essere affrontate, che loro hanno delle capacità che permettono di gestire le situazioni.”

Come parlare della guerra ai bambini?

“Dare un significato a quello che sta avvenendo è un aspetto chiave nel processo di resilienza e di elaborazione di esperienze traumatiche,” dice Francesca Giordano, “perché la mancanza di senso è un fattore di rischio importante: ci si sente esposti a una condizione di minaccia e avversità, e non potervi dare un nome rende ancora più esposti.

“Questo processo così importante di attribuzione di significato dovrebbe essere fatto sotto la guida di un riferimento. Per questo noi stiamo per pubblicare un silent book, un libro fatto di sole immagini. Il silent book offre la possibilità al bambino di co-narrare la storia attraverso attività guidate dagli insegnanti, proiettando vissuti ed emozioni sui personaggi. Questi libri sono luoghi di accoglienza e protezione dell’immaginazione, perché lo schermo protettivo della narrazione è importante nel poter elaborare timori e paure.”

Al di là dello strumento offerto dal silent book, che non è l’unico a disposizione, ciò che è importante è comunicare con un linguaggio accessibile ai bambini. “Non solo spiegare,” precisa Giordano, “ma anche permettere ai bambini di condividere la spiegazione che loro si sono fatti di tutto questo, perché il non detto può degenerare in interpretazioni molto più spaventose di quella che è la realtà dei fatti.”

Accanto ai bambini ucraini in arrivo, non dimentichiamolo, ci sono altri bambini che li accolgono e che sono emotivamente esposti a quanto sta accadendo: “È importante offrire anche ai bambini italiani, che sono bombardati da notizie, immagini e discorsi che riguardano l’emergenza attuale, la possibilità di condividere paure, pensieri, preoccupazioni che possono aver maturato.”

Accogliere responsabilmente: gli errori da evitare

L’errore principale da evitare è fare da soli” spiega Francesca Giordano, “agire mossi dal proprio sentimento senza seguire delle linee guida e senza inserirsi all’interno di un progetto di accoglienza. È importante sapere che non si è soli, e che non si è i soli.

In Polonia, ad esempio, questo problema è emerso con i volontari. Molti sono andati sul confine con l’Ucraina mossi da una motivazione molto forte. Il problema è che è facile che questa motivazione si sgonfi, perché si traduce in una relazione con persone che stanno vivendo un grosso disagio che può generare comportamenti difficili da gestire, soprattutto in solitudine o mossi solamente dalla voglia di aiutare.”

Il concetto di resilienza: come i bambini possono superare le difficoltà

Photo by Mirek Pruchnicki on Flickr

Francesca Giordano fa parte dell’Unità di Ricerca sulla Resilienza, un team di docenti, ricercatori e professionisti che opera nell’ambito di progetti di cooperazione e sviluppo sulle tematiche di resilienza, trauma psichico e benessere psico-sociale di minori, famiglie e comunità in contesti di disagio. Chiedo a lei cosa si debba intendere per resilienza, un termine forse abusato negli ultimi anni, o forse utilizzato con scarsa consapevolezza:

“Ci sono diverse definizioni di resilienza come costrutto psicologico. L’approccio socio-ecologico che noi utilizziamo descrive la resilienza come un processo che consente all’individuo di far fronte a eventi avversi mediante la mobilizzazione delle proprie risorse, interne ed esterne. Noi utilizziamo la metafora dell’ostrica inventata da Boris Cyrulnik: nell’ostrica inaspettatamente entra un granello di sabbia, che è spigoloso e la ferisce, generando sofferenza. In un primo momento deve resistere alla sofferenza, ma noi sappiamo che l’ostrica ha la capacità di secernere una sostanza che si deposita intorno al granello, ne smussa le spigolosità fino a trasformarlo in una perla preziosa. Analogamente, l’essere umano è in grado di rispondere alle avversità con risorse interne, ma anche risorse esterne come le relazioni.

“Sembra banale ma non lo è, perché la fase iniziale di resistenza implica spesso una chiusura, che niente ha a che fare con la mobilizzazione delle risorse. La resistenza è passiva, la resilienza invece è attiva: devo andare ad accedere alla mia autostima, ai sentimenti di autoefficacia, alla capacità di gestire le emozioni. Le risorse esterne, ovvero le relazioni, aiutano l’individuo a uscire dalla fase di resistenza, che se prolungata può portare a una sospensione, come dicevo prima: mi isolo, cerco di resistere con una serie di meccanismi di difesa, ma non riesco ad affrontare la situazione.”

Il concetto di resilienza sembra chiamarci a gran voce, evocando un futuro in cui ne conosceremo da vicino il significato. In questo momento storico noi occidentali siamo chiamati ad essere “risorse esterne” nel facilitare ciò che non è una realtà acquisita, ma un processo. Ma siamo anche chiamati a fare una scelta politica. Forse non possiamo in breve tempo fermare il fuoco delle armi. Probabilmente non possiamo impedirne l’invio e la diffusione incontrollata, in Ucraina e nei luoghi delle guerre dimenticate. In questo momento, però, possiamo costruire la pace nella nostra quotidianità, accogliendo in modo consapevole chi è più vulnerabile.

E guardando più lontano, ma neanche troppo, certo non potremo fermare dall’oggi al domani le migrazioni forzate derivanti dal riscaldamento globale. Ma possiamo gettare le basi di una gestione condivisa dei malanni del nostro Pianeta. Non abbiamo le chiavi delle frontiere, ma abbiamo quelle delle nostre case. Abbiamo la nostra sensibilità e la nostra voglia di conoscere. Quelle, sì, le possiamo aprire.

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Educatore professionale e formatore, ha lavorato in diversi ambiti del terzo settore. Nel suo lavoro mescola linguaggi e strumenti per creare occasioni di crescita personale attraverso esperienze condivise. Per Le Nius scrive di temi sociali e non profit.
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