Biodiversità e servizi ecosistemici sull’orlo del baratro. Ma non tutto è perduto9 min read
Reading Time: 7 minutesNei mesi che potremmo definire della raggiunta consapevolezza che quella climatica e ambientale è una vera e propria emergenza, arriva una nuova prova di quello che, ignorandone le richieste di aiuto, abbiamo fatto al pianeta.
Il rapporto dell’Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services (IPBES), pubblicato a maggio 2019, racconta di una perdita di biodiversità inequivocabile e senza precedenti. Una nuova analogia con la situazione climatica e una chiamata all’azione per far sì che la biodiversità del pianeta e la funzionalità degli ecosistemi sopravviva all’Antropocene, termine che identifica l’attuale epoca geologica in cui l’ambiente terrestre è fortemente condizionato a scala sia locale sia globale dagli effetti dell’azione umana.
Biodiversità, servizi ecosistemici e IPBES
Nel 1972 tre giovani scienziati del Massachusetts Institute of Technology (MIT) pubblicano uno studio (pdf) le cui conclusioni, oggi, potrebbero essere definite distopiche: i vincoli ecologici globali sull’uso delle risorse, e le emissioni, avrebbero influenzato profondamente la Terra nel XXI° secolo ed essa, in quanto sistema finito, se sfruttato in modo incontrollato avrebbe portato al collasso inteso come un declino incontrollato della popolazione e del benessere umano.
Vent’anni dopo, sotto la spinta delle Nazioni Unite, viene sottoscritta a Rio de Janeiro la Convenzione sulla diversità biologica, volta a promuovere la conservazione della varietà degli esseri viventi presenti sulla Terra, l’uso sostenibile delle risorse e l’equa ripartizione dei vantaggi derivanti dal loro sfruttamento.
Tale impegno avrebbe dovuto promuovere lo sviluppo di strategie dedicate ad integrare la tutela della biodiversità nei diversi processi decisionali ma la situazione in cui tuttora versano gli ecosistemi di tutto il pianeta dimostra che gli sforzi messi in atto non sono stati sufficienti.
Per questo motivo, nel 2005 prende avvio un complesso e multidisciplinare processo di consultazione volto ad unificare ed integrare in un unico meccanismo internazionale di consulenza scientifica incentrato sulla biodiversità tutte le diverse iniziative di analisi e valutazione esistenti nelle varie istituzioni delle Nazioni Unite.
Nasce dunque, nel 2012, l’Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services (IPBES), un organismo intergovernativo indipendente analogo, per funzioni e compiti, a quello per i cambiamenti climatici – l’IPCC – il cui obiettivo è rafforzare il rapporto tra la comunità scientifica e i decisori politici al fine di promuovere la conservazione e l’uso sostenibile della biodiversità e dei servizi ecosistemici, il benessere umano, e l’impiego della scienza nel processo politico.
Obiettivo ultimo è cercare di frenare la perdita mondiale di biodiversità e il deterioramento degli ecosistemi, colmando l’innegabile gap di comunicazione fra gli scienziati, la politica, gli esperti di comunicazione e i cittadini, attori spesso inconsapevoli di un degrado che sembra irrefrenabile.
Nonostante l’IPBES abbia già pubblicato un numero considerevole di Rapporti di valutazione, è con la pubblicazione del Global Assessment Report on Biodiversity and Ecosystem Services che i suoi moniti vengono ripresi dalla stampa internazionale.
Biodiversità e servizi ecosistemici: siamo messi male
Lo studio, che si sviluppa in 1.800 pagine, è un racconto dettagliato dello stato della biodiversità mondiale e della sua evoluzione dal 2005 ad oggi, realizzato grazie alla documentazione fornita da 400 esperti mondiali provenienti da più di 50 paesi e redatto in modo da svolgere una funzione di bilancio e controllo degli impegni assunti dalla comunità internazionale nel 1992 con la ratifica della Convenzione sulla diversità biologica.
A quanto si apprende dal report, la pressione antropica ha alterato in modo significativo tre quarti dell’ambiente terrestre e circa il 66% dell’ambiente marino, mentre circa 1 milione di specie animali e vegetali rischiano l’estinzione ad un tasso e una velocità tali da non essere giustificabile come fenomeno naturale.
Cinque sono i fattori di cambiamento diretti, su scala globale, che incidono sulla natura – dalla funzionalità degli ecosistemi alla variabilità genetica delle specie – e tutti sembrano destinati ad intensificarsi nei prossimi decenni: i cambiamenti nell’uso del suolo e del mare, lo sfruttamento diretto di determinati organismi, i cambiamenti climatici, l’inquinamento, e la diffusione di specie esotiche invasive al di fuori del loro areale di distribuzione.
Per fornire qualche dato utile a comprendere la portata dell’impatto delle azioni antropiche, basti pensare che più di un terzo della superficie terrestre e quasi il 75% delle risorse di acqua dolce sono attualmente utilizzate per l’agricoltura (pari al 12% di tutte le aree emerse del pianeta libere dai ghiacci) e il bestiame (pari al 25% delle aree totalmente libere dai ghiacci e su circa il 70% delle zone aride), contribuendo al degrado del suolo che ha ridotto del 23% la sua capacità produttiva.
A questo si aggiunge il fatto che, al 2050, il 70% della popolazione mondiale vivrà nelle aree urbane la cui ampiezza, dal 1992, è raddoppiata. Il settore agricolo, dunque, è il maggior responsabile del cambio di destinazione nell’uso del suolo, a cui si accompagna il fenomeno della deforestazione, lo sfruttamento delle risorse forestali – che ha contribuito a una riduzione complessiva di 290 milioni di ettari di copertura forestale autoctona – e la crescente urbanizzazione, andando ad impattare poi in modo significativo anche sull’inquinamento di aria, acqua e suolo.
Altro tema all’ordine del giorno, poi, è l’inquinamento da materie plastiche la cui produzione, dagli anni cinquanta in poi, ammonterebbe a 8,3 miliardi di tonnellate, di cui il 9% è stato riciclato, il 12% incenerito e il 79% accumulato in discariche o disperso nell’ambiente e il cui processo di decomposizione produrrebbe, secondo un recente studio, due importanti gas climalteranti: etilene e metano.
La dispersione di materiale plastico nell’ambiente assume una connotazione ancora più grave quando ricordiamo il suo impatto devastante sulla capacità degli oceani di agire come depositi di carbonio. Ogni anno, infatti, il 93% degli oltre 300 milioni tonnellate di rifiuti di plastica prodotti finisce nelle discariche e negli oceani. Questi rifiuti, decomponendosi, si trasformano in polimeri derivati dal petrolio sempre più piccoli e tossici: le famose microplastiche. Queste ultime sono state trovate nel plankton, che non soltanto costituisce la base della catena alimentare oceanica, ma provvede al più importante meccanismo per assorbire carbonio nell’atmosfera.
A questi numeri vanno aggiunti i 300-400 milioni di tonnellate di metalli pesanti, solventi, sostanze tossiche e altri rifiuti industriali che vengono annualmente riversati nelle risorse idriche del pianeta: si stima che solo i fertilizzanti si siano resi responsabili della creazione di più di 400 “zone morte” negli oceani, corrispondenti a più di 245 mila chilometri quadrati di acqua salata che rappresenta non solo il più importante tampone naturale che abbiamo a disposizione ma anche la casa di migliaia di specie animali e vegetali la cui scomparsa comporta un effetto a catena da cui l’uomo non sarà esente.
I sistemi marini sono poi costantemente sotto pressione a causa della pesca industriale, esercitata su una superficie pari almeno al 55% degli oceani, e che, negli ultimi 50 anni, ha purtroppo beneficiato sia di un ampliamento delle zone di pesca che della capacità di attingere a risorse ittiche che vivono in acque sempre più profonde. Questo ha comportato uno sfruttamento eccessivo degli stock ittici, comprese specie marine fondamentali per il benessere degli ecosistemi, con un 33% in overfishing già nel 2015, un 60% classificato come sfruttato in modo alquanto sostenibile e solo un 7% in condizioni di sottosfruttamento. Dai dati del 2011, si stima che la pesca illegale, non dichiarata o non regolamentata, rappresenti fino a un terzo delle catture complessive a livello mondiale.
Biodiversità, cambiamenti climatici e Obiettivi Sostenibili del Millennio
Il report dell’IPBES non manca di evidenziare il nesso causale tra cambiamento climatico e perdita di natura: dal 1980 ad oggi, infatti, le emissioni di gas serra sono raddoppiate, generando un aumento medio globale delle temperature di almeno 0,7 gradi Celsius, mentre il livello medio globale del mare è aumentato da 16 a 21 centimetri dal 1900.
Questi cambiamenti hanno provocato impatti diffusi in molti aspetti della biodiversità, a cominciare dalla stessa distribuzione delle specie e, come già ribadito, dal tasso di estinzione. Ad esempio, un aumento delle temperature globali pari a 2 gradi Celsius comporterà la scomparsa o il degrado di un numero incrementale di areali appartenenti ad un numero sempre crescente di specie. Un esempio concreto ci arriva dall’estinzione, a causa dell’innalzamento del livello del mare collegato al cambiamento climatico, di Melomys rubicola, un piccolo roditore originario di Bramble Cay, un’isola di 5 ettari al largo di Papua Nuova Guinea.
Eppure, sarebbe sufficiente osservare i dati per capire come tutelando le risorse naturali ci vengano automaticamente forniti gli strumenti per difenderci dagli impatti del clima: foreste, oceani e altre aree naturali assorbono il 60% delle emissioni globali di combustibili fossili ogni anno, le barriere coralline e le mangrovie proteggono le aree costiere da tempeste e uragani, e le aree umide – ridotte al 15% della loro estensione rispetto a 300 anni fa – riducono la portata delle inondazioni assorbendo le piogge più intense.
Nonostante gli sforzi messi in atto per raggiungere concreti obiettivi di conservazione, al pari del report dell’IPCC anche il rapporto IPBES sottolinea che il trend di sviluppo attuale non è compatibile con gli Obiettivi Sostenibili del Millennio – o Sustainable Development Goals (SDGs) – che dovrebbero essere raggiunti entro il 2030 e che, al contrario, sono ostacolati nell’80% dei casi (pari a circa 35 su 44), soprattutto relativamente a povertà, fame, salute, acqua, città, clima, oceani e suoli, ed evidenziando un nesso chiaro tra tutela della natura, obiettivi di benessere e sviluppo economico, sociale, morale e giustizia climatica.
Tali obiettivi, contenuti nell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite, contengono un totale di 169 traguardi comuni a tutti i paesi su una serie di questioni ritenute fondamentali ed imprescindibili per il benessere del pianeta e dell’essere umano.
Ciò che è stato finora messo in campo non basta, dunque, a raggiungere gli obiettivi di conservazione e sviluppo sostenibile stilati dalla comunità internazionale né a perseguire uno stile di vita che metta fine all’Antropocene e favorisca un rapporto tra uomo e natura nel quale, alla seconda, venga finalmente riconosciuto il valore etico ed economico che merita e di cui necessita.
Cosa possiamo fare per contrastare la perdita di biodiversità e tutelare i servizi ecosistemici
Il 2020 sarà un anno che potremmo definire “di controllo”. Scadono, infatti, alcuni target dell’Agenda 2030, giunge alla fine la roadmap fissata nel 2011 ad Aichi – della quale progressi concreti sarebbero stati registrati solo in 4 dei 20 obiettivi – termina il piano strategico redatto dalla Convenzione delle Nazioni Unite sulla diversità biologica e vedremo i paesi firmatari della Convenzione ONU sul Cambiamento Climatico fare i conti con gli impegni presi a Parigi. Un anno di svolta. Il giro di boa che dovrebbe comportare una presa di posizione ancora più forte e accompagnata, auspicabilmente, da azioni concrete sia da parte dei governi che dei cittadini.
La rapida e costante perdita di biodiversità, così come il deterioramento dei servizi ecosistemici – definiti dal Millennium Ecosystem Assessment come quei “benefici o contributi materiali e non materiali che la ricchezza della vita sulla terra fornisce al genere umano” – è una spinta ad intraprendere quello che il rapporto IPBES chiama “cambiamento trasformativo”, ossia una fondamentale riorganizzazione del sistema di sviluppo attraverso fattori tecnologici, economici e sociali che, nel concreto, si traduce in cambiamenti nella produzione e nel consumo di energia e cibo, nel consumo di acqua, nella gestione degli ecosistemi, nell’implementazione delle strategie di mitigazione e adattamento al cambiamento climatico e nell’adozione di un nuovo paradigma di sviluppo in accordo con l’equilibrio naturale e fondato sulla sua comprensione, non distruzione.