La forza dell’imperfezione | Cos’è un educatore professionale e come lo si diventa10 min read

19 Settembre 2022 Educazione -

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Educatore

La forza dell’imperfezione | Cos’è un educatore professionale e come lo si diventa10 min read

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Quando mi chiedono “Che lavoro fai”, già mi sento male. Siccome ci tengo alle buone maniere e non mi piace mentire, allora rispondo: “L’educatore.”

A questo punto la conversazione può prendere due strade. La prima è quella in cui l’interlocutore si accontenta della risposta, perché sa di cosa si tratta o perché non vuole approfondire. La seconda prevede una seconda domanda: “Ah, bello. E cioè?”

Insomma, è una vita che cerco di spiegare cosa faccio. Non ci sono mai riuscito come si deve. E non perché non lo sappia: il fatto è che quello dell’educatore e dell’educatrice professionale è un mondo talmente vasto che è difficile riassumerlo in poche parole.

Così adesso, quando mi chiedono cosa fa nella pratica un educatore, sospiro nel modo più teatrale e contrattacco con un’altra domanda: “Quanto tempo hai?”

E tu che stai leggendo, quanto tempo hai? Non so per quale motivo ti stia interessando all’argomento, se hai deciso di unirti agli oltre 31 mila educatori già attivi in Italia o se la tua sia solo curiosità. In ogni caso, se hai qualche minuto, proverò a spiegarti per bene cosa fa un educatore professionale, e cosa bisogna fare per diventarlo.

Cos’è un educatore professionale e come diventarlo

Partiamo dalle formalità. Secondo la legge Iori l’educatore professionale socio-pedagogico “opera nell’ambito educativo, formativo e pedagogico, in rapporto a qualsiasi attività svolta in modo formale, non formale e informale, nelle varie fasi della vita, in una prospettiva di crescita personale e sociale.”

Per diventare educatore professionale socio-pedagogico serve una laurea triennale (L19). Durante il corso si studiano principalmente temi che hanno a che fare con la psicologia, con la comunicazione, con la sociologia e, naturalmente, con la pedagogia.

Esiste poi un altro “tipo” di educatore professionale, quello socio-sanitario, il cui profilo riguarda in modo specifico anche gli aspetti sanitari e riabilitativi. Questo titolo, infatti, lo si acquisisce con un diploma di laurea (L/SNT2) in genere attivato dalla facoltà di Medicina e Chirurgia – professioni sanitarie, oppure da corsi interfacoltà.

Proprio questa divisione ha creato, e crea tutt’ora, confusione e problemi nell’accesso al ruolo a seconda della struttura in cui l’educatore si deve inserire. Sebbene la legge Iori chiarisca che l’educatore socio-pedagogico operi “limitatamente agli aspetti socio-educativi”, può capitare che questo tipo di profilo abbia più difficoltà ad essere ammesso in una struttura sanitaria, pur avendo le competenze necessarie per svolgere il lavoro al quale è chiamato. Anche per questo è necessario arrivare al più presto ad un profilo più definito e unitario della professione, conferendole finalmente l’identità e il riconoscimento che merita.

Cosa fa in pratica l’educatore professionale

Definizione a parte, la verità è che quello dell’educatore è un ruolo sfuggente, strutturalmente incerto. Il professore di pedagogia Sergio Tramma lo ha definito imperfetto. Ma questa debolezza, paradossalmente, è anche un punto di forza perché apre a un mondo di possibilità, ricerca, creatività.

In passato il ruolo dell’educatore era principalmente di tipo correttivo, contenitivo e si rivolgeva a soggetti “problematici”, oppure “sfortunati”. A partire dagli anni Sessanta le cose hanno iniziato a cambiare: l’educatore autoritario, così come quello fraterno, hanno lasciato il posto a una figura più consapevole, che si occupa di colmare le distanze tra le condizioni auspicabili e quelle reali di un soggetto o di un gruppo sociale. È un passaggio importante, perché sposta il ruolo dell’educatore all’interno della società da una posizione riparatoria, o di protezione, ad una di cambiamento.

L’educatore di oggi, quindi, è colui che ha il compito di individuare e promuovere le potenzialità delle persone o dei gruppi con cui lavora. Questo può significare sostenerle in modo attivo, prevenire il rischio che si disperdano o lavorare per ristabilirle.

Sì, ma in pratica? Perché è così difficile spiegare cosa fa un educatore professionale? Il primo motivo è la molteplicità delle sue mansioni. Il campo d’azione è vasto e variegato quanto la platea di persone che possono avere bisogno di un supporto a causa di una fragilità, oppure per sviluppare le proprie potenzialità. L’educatore, infatti, non si occupa soltanto dei “soggetti in difficoltà” a cui siamo abituati a pensare. Può certamente trovarsi a lavorare con persone disabili, bambini allontanati dalle famiglie, detenuti, persone con una diagnosi psichiatrica o con problemi di dipendenza… Ma il suo lavoro può anche essere rivolto a nuclei familiari, reparti ospedalieri, perfino condomini o quartieri.

Il secondo motivo che rende difficile spiegare il lavoro degli educatori è la varietà di servizi e luoghi in cui è possibile lavorare. L’educatore va dove ci sono le persone, e le persone sono ovunque: a scuola, nelle comunità residenziali, nei centri diurni, nelle strutture sanitarie, nelle case private… perfino in strada, in discoteca o su Internet.

Infine, sono tantissime le azioni che un educatore compie. Tanto per elencare quelle principali, l’educatore è chiamato a progettare, insieme a un’équipe di lavoro, i percorsi educativi e le attività da svolgere. In pratica scrive un progetto che, partendo dai bisogni della persona, si traduce in obiettivi, attività e metodologie di lavoro la cui efficacia dovrà essere verificata periodicamente. In tutte queste fasi, è auspicabile coinvolgere il più possibile i destinatari dei percorsi educativi, “contrattando” e stringendo con loro un patto educativo chiaro.

Lo strumento principale con cui fare tutto questo è la relazione. Molti pensano agli educatori come persone naturalmente propense a entrare in contatto con gli altri, spontanee, pronte a inventarsi qualcosa a seconda degli eventi. Tutte caratteristiche utili. Ma la relazione non è, o non dovrebbe essere, improvvisata sul momento. Come ogni azione educativa, essa deve essere intenzionale e organizzata.

Non è ancora tutto. L’educatore professionale partecipa a riunioni d’équipe, in genere formate da colleghi e, a seconda della struttura, da uno o più coordinatori e da altre figure professionali come psicologi, psicomotricisti, musicoterapeuti, ecc. In queste riunioni ci si confronta sul lavoro in corso, si programmano le attività e si prendono le decisioni più importanti.

Anche quando lavora da solo l’educatore è circondato da molte persone, di cui deve tenere conto. Ad esempio, chi si occupa di un minore in carico al servizio sociale, dovrà confrontarsi con l’assistente sociale e con gli altri attori coinvolti: genitori, insegnanti, allenatori, altri educatori, ecc.

Con quanto ho detto fino a qui spero di aver demolito alcuni miti rispetto alle motivazioni che portano a scegliere questo lavoro. Il più importante è quello della vocazione, della bontà d’animo. Non che si debba essere freddi e cattivi per fare gli educatori, non è questo il punto. Trovare “la giusta distanza” è anzi una delle sfide più difficili da risolvere. Il fatto è che quella dell’educatore è una professione che, prima di tutto, deve dare un servizio. Ben venga il cuore, ma dev’esserci anche progettualità, intenzionalità e consapevolezza del proprio ruolo.

Come in molte altre professioni, oltre che durante il corso di studi, molte competenze si acquisiscono sul campo. Sebbene sia importantissimo conoscere, ad esempio, le dinamiche e le tecniche di comunicazione, la relazione con le persone non può seguire un rigido protocollo. Sulla base delle proprie caratteristiche e conoscenze, ogni educatore deve costruire negli anni il suo modo di leggere le situazioni e rispondere di conseguenza.

Qui torniamo all’educatore imperfetto di cui ho parlato all’inizio, e questa riflessione mi porta a dire che una delle caratteristiche essenziali degli educatori è la capacità di coltivare il dubbio, di mettere in discussione le certezze e di guardare alle situazioni lavorative da prospettive diverse. Il rischio, altrimenti, è di appiattirsi su schemi di azione rigidi che non possono rispondere adeguatamente alle esigenze delle persone, che sono tutte diverse e originali.

Photo by Dylan Gillis on Unsplash

Le giornate degli educatori

Elena lavora per una piccola cooperativa sociale. Ha un contratto di 38 ore alla settimana e per coprirle tutte deve lavorare su diversi servizi. La mattina fa sostegno educativo nelle scuole della sua città. Due ore in una scuola, tre in un’altra. Dopo un panino veloce mangiato in macchina, nel primo pomeriggio lavora in un servizio educativo domiciliare: va a casa di alcune famiglie in difficoltà a fare attività con i bambini e gli adolescenti. Nel tardo pomeriggio si sposta in un centro di aggregazione giovanile, dove lavora con i ragazzi e le ragazze che lo frequentano. Oggi è venerdì: non deve dimenticare che stasera lei e i suoi colleghi saranno con un camper fuori da una discoteca: distribuiranno test per il tasso alcolico e forniranno informazioni sulle sostanze psicoattive. Ogni tanto suona il telefono: le chiedono quando è disponibile per un incontro di rete. Allora lei fruga nello zaino col telefono tra la spalla e l’orecchio, trova l’agenda e guarda sconfortata le pagine fitte di impegni.

Tommaso lavora in un centro residenziale per disabili. Ha un orario abbastanza regolare, un luogo di lavoro definito. Oggi, appena entrato in servizio, prepara le borse della piscina di alcuni utenti della struttura e con il pulmino li accompagnerà all’impianto sportivo del paese, dove tra vasca attrezzata e spogliatoi passeranno tutta la mattina. All’ora di pranzo imboccherà una signora che non è più in grado di mangiare da sola e nel pomeriggio terrà un laboratorio musicale.

Laura si occupa di case, o meglio, dell’abitare. Stamane, dopo aver diretto un risveglio muscolare nel cortile di una casa popolare, andrà in una sala condominiale per spiegare come fare la raccolta differenziata. Quasi di sicuro si troverà a mediare nell’ennesima discussione tra condomini. Nel pomeriggio accompagnerà una famiglia rimasta senza alloggio nell’appartamento messo a disposizione dal Comune. Parlerà in spagnolo, perché la famiglia è da poco arrivata in Italia e dovrà pattuire con loro le regole e gli obiettivi da raggiungere per riuscire a riconquistare l’autonomia. Verso sera si metterà al computer per creare delle locandine da affiggere in giro per la città: la sua cooperativa ha indetto un concorso fotografico per raccontare il quartiere.

Quanto guadagna un educatore professionale

Un educatore professionale può essere inquadrato in diversi contratti nazionali, a seconda del contesto in cui si inserisce: enti del terzo settore, pubblica amministrazione o settore privato. Il contratto più diffuso è forse quello delle cooperative sociali, dove con un inquadramento D2 lo stipendio mensile è di 1594,15 € lordi.

Pur essendo un lavoro di responsabilità, che richiede una certa specializzazione, non si tratta certo di una paga alta. Anche questo aspetto contribuisce a quello che, a mio parere, è ancora uno scarso riconoscimento sociale di questa professione.

Possibili specializzazioni e sbocchi futuri

Ho sentito molti educatori dire: “Non puoi fare questo lavoro per sempre.” Non so se abbiano ragione o meno, ma colgo nelle loro parole alcune criticità. Ad esempio la fatica di continuare a lavorare a contatto con i giovani quando si invecchia. Oppure la difficoltà nel far fronte a quello che è uno dei rischi professionali più seri per gli educatori: il burnout.

Molti educatori, quindi, si chiedono come le loro carriere possano trasformarsi in qualcosa d’altro senza dover cambiare completamente lavoro e ricominciare da capo. Una possibilità, raggiunta una certa esperienza, è quella di diventare coordinatori di uno o più servizi.

Per chi può e vuole proseguire con il percorso di studi è possibile diventare pedagogisti, oppure specializzarsi in un’attività come la mediazione culturale, la musicoterapia, l’arteterapia o la danzaterapia. Queste opzioni aprono anche alla possibilità di sganciarsi dal lavoro dipendente e lavorare come liberi professionisti, gestendo, nel bene e nel male, il proprio tempo e le proprie risorse.

Non esiste un vero e proprio limite nell’orizzonte di carriera di un educatore. Come abbiamo visto l’ambito di intervento è ampio, e la professione in continua evoluzione. Con un po’ di creatività si può pensare di spendere le proprie competenze dove se ne vede il bisogno. Basti pensare, se posso darvi una dritta, al mondo del digitale e di Internet.

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Educatore professionale e formatore, ha lavorato in diversi ambiti del terzo settore. Nel suo lavoro mescola linguaggi e strumenti per creare occasioni di crescita personale attraverso esperienze condivise. Per Le Nius scrive di temi sociali e non profit.
2 Commenti
  1. Nicola Titta

    ASSOLUTAMENTE NON VERITIERO IN MOLTE PARTI . AD ESEMPIO QUANDO SI CITA UNA LEGE IORI CHE NON ESISTE, SENZA FARE LA CRONISTORIA DELLA FIGURA PROFESSIONALE... MI SPIACE MA NON VA .....

    • Andrea Genzone

      Buongiorno Nicola, grazie per il commento. Mi dispiace che l'articolo non la trovi d'accordo. Per quanto riguarda la legge Iori, per non appesantire la lettura ho scelto di utilizzare il "nome popolare", trattandosi in realtà di una legge di bilancio. Fare una cronistoria della figura professionale sarebbe in effetti interessante.

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