Cosa abbiamo imparato dalla pandemia7 min read

21 Gennaio 2021 Società -

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Sociologo

Cosa abbiamo imparato dalla pandemia7 min read

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Tante volte in questi mesi mi sono trovato a mulinare pensieri come una trottola impazzita. Pensieri inaspettati, folgoranti, drammatici ed esaltanti al tempo stesso. Pensieri grandi, esistenziali, ma anche piccoli, quotidiani. E tante volte in questo mulinello mi sono sorpreso a enumerare le cose che ho imparato dalla pandemia, che ho fatto mie, che abbiamo fatto nostre.

Così ho deciso di metterle in ordine, che per me vuol dire metterle per iscritto. E di condividerle con lettori e lettrici di Le Nius, naturalmente saremo contenti se vorrete aggiungere le vostre riflessioni nei commenti.

Ed ecco, secondo una mia prima lista, cosa abbiamo imparato dalla pandemia.

Che dipendiamo gli uni dagli altri

La mascherina mia protegge te, la mascherina tua protegge me; il vaccino mio mi protegge, ma se non ti vaccini anche tu non ne usciamo; stare a casa ha senso solo se lo fanno tutti, e va da sé che possiamo stare distanti solo se nessuno dei due si avvicina.

Che straordinario esercizio di responsabilità collettiva, la pandemia. È un raro momento in cui si sostanzia la società, ce la rende palpabile, diventa reale anche per i singoli, e capite che per un sociologo è una cosa esaltante.

Esiste qualcosa che è al tempo stesso dentro e fuori da noi, che noi contribuiamo a creare e cambiare ma su cui da soli non abbiamo alcun potere. E non siamo solo io, tu, lei, lui ma è qualcosa di diverso dai singoli, anche se non può prescindere dai singoli: è la collettività. E nei confronti di questa collettività abbiamo una responsabilità. Sempre, non solo in pandemia, eh.

Che stare senza gli altri è triste

La socialità è per molti, non per tutti certo, la cosa che forse più è mancata in tempo di pandemia. Non abbiamo potuto vedere “gli altri”. Gli altri da me, gli altri da noi per chi vive in un nucleo familiare, qualsiasi cosa significhi “gli altri” (amici, familiari, colleghi, baristi ecc.).

È triste, e rende la vita più monotona e limitata. Non è il solo stare con gli altri – che pure mi pare la cosa più importante, perché le relazioni sono la cosa più importante – ma anche stare senza altre cose da fare. Dover stare a casa, o comunque nel proprio comune, con molte attività ferme o limitate rende la varietà dei paesaggi fisici, umani e mentali molto più monocorde.

Senza cene da amici, aperitivi al bar, viaggi, gite della domenica, weekend in montagna; senza sport, corsi di formazione, teatro, cinema; senza concerti, eventi, festival; senza volontariato, conferenze, piscine, la nostra vita perde un po’ di colore.

Avere relazioni e attività eterogenee è importante per sentirsi vivi, attivi, stimolati. E con la pandemia lo stiamo sperimentando come non mai.

Che vicino a casa ci sono un sacco di posti bellissimi

Ho fatto il giro dell’isolato centinaia di volte nell’ultimo anno, e decine di volte ho camminato all’interno dei sacri confini comunali. È una noia, certo, ma è anche una bellezza. Che poi dipende da dove si vive, certamente, però sono convinto che la bellezza sia ovunque.

Abbiamo scoperto angoli che non conoscevamo sotto casa, e questa può essere una banalità, ma abbiamo anche imparato cosa significa conoscere davvero il territorio dove si vive. Le persone, le case, i negozi, le strade, i passaggi, le alternative.

E anche quando siamo usciti dal perimetro domestico, abbiamo visitato posti vicini, nella nostra provincia o regione. E che bellezze abbiamo scoperto.

Certo, poi che palle, sappiamo che anche lontano da casa ci sono posti bellissimi e vogliamo andarci perché cambiare contesto è importante anche per cambiare pensieri e liberarne di nuovi.

Che a volte è bello non doversi giustificare

Non sono venuto a scuola perché la scuola è chiusa. Non ho festeggiato il compleanno perché non si possono fare feste. Mamma non vengo a pranzo perché c’è la zona rossa. Me ne sono rimasto a casa perché non si poteva uscire. A capodanno non faccio niente.

E nessuno che rompe le palle. Che dice ma dai ma non esci? Ma guarda quella se ne sta sempre a casa ma cos’ha? Sì ma quello non è mai uscito dal suo comune cosa vuoi che ne sappia.

Le aspettative sociali ci hanno lasciato in pace per un po’. Tutto era giustificato a priori. Un bel sollievo per le nostre ansie da prestazione.

Che senza abbracci non si può stare

Che sofferenza, non abbracciare. Passi per una gomitata al posto della stretta di mano, ma che possiamo fare invece di abbracciare? Niente. Che vuoto umano, fisico, di calore. Che poi ne risente tutto l’incontro. È come se la conversazione non carburasse davvero bene senza l’abbraccio iniziale.

Che poi sarebbe un periodo in cui di abbracci ne andrebbero distribuiti tanti. Per consolare chi ha perso qualcuno di caro, supportare chi è malato o ha cari in ospedale, gioire con chi esce dalla malattia, ma anche, malattia a parte, farci forza, darci un segnale anche fisico dell’esserci l’uno per l’altro.

Ma non si può, ed è dura.

Che la scienza non è oggettiva ma è risolutiva

Durante questa lunga esperienza di pandemia abbiamo sentito tante voci diverse di scienziati anche autorevoli dare interpretazioni diverse, a volte contradditorie, ai dati disponibili, dare i consigli più disparati, fare previsioni poi prontamente smentite dai colleghi.

Al netto di alcune ubriacature da sovraesposizione mediatica, questo accade perché la scienza non è oggettiva. In tutti i campi i dati sono interpretabili diversamente, le visioni divergono e le previsioni pure. E, come in tutti i campi, c’è di mezzo anche la politica con i suoi interessi a utilizzare la scienza in modo strumentale.

Nonostante questo, e anzi direi accanto a questo, esiste una comunità scientifica mondiale coesa, che condivide prassi, assunti di base e metodi, e che si è mobilitata per trovare una risposta rapida ed efficace.

Il grande risultato del vaccino è stato certo raggiunto anche per motivazioni economiche però è stata una grande impresa che rimette la scienza al centro dello scenario mondiale.

Che avere buoni dati è fondamentale

A proposito, mai come in questo periodo abbiamo avuto a che fare con i dati. E abbiamo fatto esperienza di come i dati siano una materia insidiosa, perché non sempre affidabili, manipolabili, contestabili.

Non abbiamo ancora davvero idea di quanti siano i contagiati da coronavirus, nonostante certo rispetto al primo lockdown della primavera 2020 la qualità del dato sia migliorata. Non avremo mai un numero preciso neanche sui decessi da covid-19, anche se con il passare del tempo avremo stime sempre più attendibili. Non abbiamo consapevolezza di quanto i dati dei diversi paesi del mondo siano confrontabili (nemmeno delle diverse regioni italiane, a dire la verità).

Insomma, manca un’idea precisa sui dati di base del fenomeno anche se certo ora il quadro è più stabile e affidabile.

La questione qui è che non sono i dati in sé a contare, ma la loro validità, affidabilità e comparabilità. Conta la metodologia con cui i dati sono raccolti, e difficilmente quando consultiamo un dato ci facciamo tante domande metodologiche.

È un problema enorme perché è a partire da questi dati che si prendono decisioni da cui possono derivare anche questioni di vita o di morte per le persone.

Che l’equilibrio su cui si gioca la vita è fragile

Si è usata la metafora dell’esserino minuscolo e invisibile all’occhio umano capace di minacciare la vita, in senso letterale e sociale, però al di là della dimensione del virus, la pandemia ci ha ricordato come da un momento all’altro qualcosa di totalmente fuori dal nostro controllo può mettere tutto in discussione.

È un’esperienza sana, perché è così, la vita sulla terra, fondata su equilibri fragilissimi. È un fondamento che va accettato, certo non è che dobbiamo pensarci ogni minuto, però sperimentare la relatività della nostra smania di controllo ci può fare bene.

Che il sistema federale è un casino

Con la pandemia si è manifestato plasticamente, quasi come in uno spettacolo teatrale, il funzionamento del sistema istituzionale della Repubblica Italiana.

La sanità è competenza regionale, ma che senso ha di fronte a una pandemia globale? Che rischi comporta per la salute delle persone dover passare attraverso diversi livelli di governance e di efficacia dei sistemi?

Non è che sia il sistema federale in sé che per forza non funziona. È che quello italiano risponde a logiche di interesse politico estemporaneo piuttosto che a un progetto di riforma serio e migliorativo.

Ci dà l’idea di cosa succede quando si fanno riforme fondative basandosi sull’onda del momento, che in quel tempo era accontentare una Lega Nord che puntava alla secessione e si doveva accontentare con il federalismo.

La sinistra, con il solito giochino di “non lasciare i temi alla destra”, non si oppone ma anzi fa sua questa improvvisa istanza di federalismo ed è così che il nuovo assetto istituzionale si compie, con le conseguenze che vediamo manifestarsi ora ma che nel campo della sanità e del welfare sono visibili da tempo.

Un meccanismo che si ripete su tanti temi, e su tanti temi fa danni.

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Sociologo, lavora come progettista e project manager per Sineglossa. Per Le Nius è responsabile editoriale, autore e formatore. Crede nell'amore e ha una vera passione per i treni. fabio@lenius.it
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