Site icon Le Nius

Viaggio in Islanda: 15 cose da fare tra ghiacci ed ex vulcani

Viaggio Islanda
Reading Time: 17 minutes
Lago Tjörnin, Reykjavík

1. Viaggio Islanda: pensare di invaderla

Sono convinto che molto presto qualcuno invaderà l’Islanda e la spiegazione sta nei rubinetti dei suoi bagni.
Acqua calda e acqua fredda sono azionate da due manopole diverse dato che le rispettive tubature sono completamente indipendenti: la calda proviene da serbatoi geotermici, naturalissimi e puzzolenti; la fredda fluisce da fiumi glaciali e pare sia la più pura del mondo.

Ecco, sono convinto che molto presto, quando il mondo somiglierà sinistramente a un deserto assetato di acqua e di energia alla Mad Max, qualcuno invaderà l’Islanda per appropriarsi in un solo colpo delle sue infinite risorse energetiche e del suo freddo residuo. E quel qualcuno non dovrà far altro che vincere la resistenza di due elicotteri, una nave e 300 poliziotti. All’Islanda, che non ha un esercito (e non l’ha mai avuto), toccherebbe affidare la sua libertà a un manipolo di uomini e donne che da decenni si esercitano essenzialmente a salvare gatti, scambiarsi doni con orsetti in peluche e recensire prontamente i nuovi fast food del centro. A un certo punto in difesa dell’alleato invaso interverrebbero pure gli Stati Uniti (che sull’isola ci sono stati per 60 anni e se ne sono andati appena dieci anni fa), ma sarebbe comunque troppo tardi.

Non so dire perché abbia pensato a questo scenario e non a qualcosa di più romantico mentre passeggiavo incerto sul Tjörnin, il lago ghiacciato nel cuore di Reykjavík. Anzi, forse lo so: il fatto che nemmeno uno tra tutti i cigni arroccati sulla lingua di lago rimasta liquida si fosse interessato alle molliche dei soliti turisti. Questo mi ha fatto riflettere. Era il chiaro segno che qualcuno aveva già provveduto a sfamarli.

Cimitero di Laugardælir, Selfoss

2. Porgere omaggio a Bobby Fischer

Volete sapere qual è il ritmo di un sabato pomeriggio d’inverno in Islanda? Bene, fate conto che la tv di stato Ríkisútvarpið propone un programma di due ore sugli scacchi. Occhio però, non è un programma qualsiasi: dieci anni fa fece parlare di sé in tutto il mondo.

Il 10 dicembre del 2006 andava in onda la sfida tra il maestro Arnar Gunnarson e lo sfidante Bragi Thorfinsson. Dopo un grossolano errore del primo e l’inevitabile vittoria del secondo giunse in studio la telefonata di un uomo che si mise a spiegare nei dettagli due mosse spettacolari con le quali Gunnarson avrebbe potuto evitare la sconfitta. I due sfidanti riconobbero la genialità dei suggerimenti ma, soprattutto, riconobbero il suggeritore: nella diretta del sabato scacchistico islandese era appena intervenuto Robert James Fischer, detto Bobby, il più grande rivoluzionario del gioco degli scacchi. Secondo alcuni, il miglior giocatore di sempre.

Fischer viveva in Islanda da quasi due anni dopo averne ricevuto la cittadinanza per motivi umanitari. Gli Stati Uniti, la patria che Bobby aveva servito vincendo – proprio a Reykjavík – il match del secolo contro il russo Spassky in piena guerra fredda, non gli avevano perdonato l’affronto di aver disputato la rivincita con il sovietico nella Jugoslavia del 1992. Legalmente perseguito e poi persino arrestato, Fischer aveva allora accettato l’offerta d’asilo dell’Islanda che da lui era stata letteralmente messa sulla mappa proprio durante il campionato del mondo di scacchi più famoso della storia, quello in cui Bobby aveva preteso di giocare in uno stanzino senza telecamere e da cui aveva minacciato più volte di ritirarsi facendo sistematicamente attivare il telefono di Henry Kissinger.

Otto anni dopo la sua morte, ho visitato la tomba di Bobby Fischer nel minuscolo cimitero di Laugardælir, un mucchietto di case poco lontano da Selfoss. Nonostante si dice sia diventata una specie di attrazione turistica, le mie orme erano le sole irregolarità nella coltre di neve disegnata intorno alla cappella e il rimbombo metallico del cancelletto d’ingresso chiusosi dietro di me l’unico disturbo alla quiete dei corvi. Era tutto incredibilmente pacifico. Forse perché era stato lo stesso Fischer a scegliersi la serenità eterna di Laugardælir e anche la sua ultima pretesa è stata realizzata. O forse perché era un sabato pomeriggio e sulla tv islandese davano gli scacchi.

Íþróttamiðstöðin, piscina pubblica a Borgarnes

3. Invidiare i bambini islandesi in una piscina scoperta

Gli islandesi si muovono in senso antiorario nelle piscine delle loro città: per far spazio all’ultimo arrivato, ciascuno si sposta un po’ più a destra. Nelle vasche più piccoline a un certo punto qualcuno deve andare via perché quasi non ci si sta tutti. Ma le sere d’inverno, durante una delle non rare spaventose tempeste di mare o di terra, nessuno vuole alzarsi. E allora ci si stringe un po’ di più.

“Flott!” dicono, appena dentro l’acqua, uomini e donne di ogni età. Vuol dire più o meno “Figo!” oppure “Cool!” ed è ciò che si tende ad esclamare dopo i 7-8 secondi in balia degli elementi, necessari a raggiungere le piscine e durante i quali un adulto di razza mediterranea, seminudo dentro una tormenta di neve, può seriamente pensare di non sopravvivere. Un bambino islandese invece no. I bambini islandesi, quando sono molto piccoli, di pomeriggio dormono rigorosamente all’aperto. Non importa che tempo faccia. I loro genitori li coprono per bene, li mettono in un passeggino e poi li piazzano nel giardino di casa possibilmente vicino a una finestra. Serve a fortificarne fisico e carattere, dicono loro. Non so se serva davvero a fortificare qualcosa, ma so di certo che nelle piscine islandesi c’è sempre una manica di piccoletti biondi che si arrampica su per le scale degli scivoli. Anche mentre nevica, senza battere ciglio.

In qualche modo ce l’ho fatta anch’io a raggiungere la fluida salvezza georiscaldata. Una volta dentro, ho cercato di ridurre al minimo i centimetri quadrati del mio corpo esposti alla furia di un vento che agitava fragorosamente le bandierine triangolari tese tra i due bordi della vasca, grande al punto da non farmi intendere le parole dell’impiegato con cui avevo attaccato bottone. Passandomi una mano tra i capelli potevo percepire il gelo del mini-accumulo di ghiaccio che stava rinfrescando la mia estremità meno fortunata.

Poveri islandesi, scriveva Leopardi. Sarà. Io sono rimasto a lungo sdraiato in cima al mondo dentro il brodo primordiale della piscina pubblica di Borgarnes. E, felice, ho pensato un po’ anche a te, amato Giacomino. Flott.

Fattoria nell’Islanda meridionale

4. Convincersi di vivere dentro una saga

Guidare in Islanda, da soli, su una strada sterrata non segnalata dalle mappe degli uffici turistici è una prima volta molto simile alla prima volta più pregnante dell’umanità, quella in cui un bipede evoluzionisticamente progredito ma fondamentalmente misero si sente autorizzato niente meno che a dare un nome alle cose che vede. Proprietario di quel che attraversa, dio di tutto ciò che è a portata dei propri occhi.

In Islanda è concreta la possibilità che tu sia effettivamente il primo della tua specie a metter piede su una certa pietra nera ricoperta da un muschio spesso di secoli o a scottarti l’indice in un mini-rivolo di acqua bollente che sbuca, dal nulla, in una distesa di terra rossastra. In sella alla Suzuki che hai noleggiato di fronte al tuo ostello senti di possedere la risolutezza di Skallagrímur e la vena poetica di Egill e ti convinci che un giorno qualcuno scriverà una saga che parla di te, che certo non sei arrivato in Islanda su un vascello vichingo in fuga dall’ira del re di Norvegia cui hai ammazzato due cugini, ma insomma più o meno.

E allora quello sperone di roccia lo chiamerai “masso ruvido e appuntito di fronte alla cui parete nord qualcuno ha dimenticato un carico di Pepsi Max”, quel tronco sottile su cui sei seduto sarà per sempre “l’alberello da cui si ode perfettamente il tintinnio delle aste del supermercato Bónus rimaste senza vessilli a causa del vento”, la rete metallica nei cui pressi vedrai avvicinarsi dei cavalli in cerca di mele resterà “il recinto con dentro otto pony che hanno l’aria fiera di chi è stato preparato da sempre a sopportare qualsiasi tipo di sofferenza senza l’assillo di chiedersi il perché”. Quando il sintonizzatore dell’autoradio smetterà di girare a vuoto e si fermerà su una stazione che passa sempre Björk realizzerai con costernazione che sarà un’impresa niente male provare a rendere la tua nuova toponomastica in islandese corrente. Ma un paio di Víking doppio malto ti daranno una mano.

Il cratere di Kerið

5. Ammirare l’autodistruzione di un vulcano

Svuotarsi del tutto. Annientarsi fino ad implodere con fragore. Scomparire per diventare qualcos’altro. Liberarsi, finalmente.

Tremila anni fa Kerið era un bel vulcano. Alto e possente, dominava sulla propaggine di Islanda che si allarga a sud-ovest nella chela di granchio chiamata penisola di Reykjanes. Visto dalla valle, era il più minaccioso tra i vulcani dell’isola. Dentro, però, Kerið soffriva. Nessuno lo poteva sapere, ma Kerið bruciava di lava e di insoddisfazione. Qualcuno dice che non sopportasse l’imperfezione della sua bocca – un’ellisse anziché un cerchio – ma non è proprio sicuro. Sta di fatto che un giorno l’insofferenza di Kerið giunse a un punto di non ritorno, e il vulcano più sontuoso dell’Islanda meridionale decise di autodistruggersi. Prese tutto se stesso, viscere e anima insieme, e le lanciò per aria, verso l’oceano, a decine di chilometri di distanza. Dopo un mese Kerið era completamente sfinito e, ormai vuoto, collassò. Il suo bel cono si accartocciò su se stesso. Sprofondò sparendo dalla vista.

Ma Kerið non se n’era andato. Era diventato una cosa migliore. Kerið si era trasformato in un gjallgígur, un cratere di scorie, e lo è tuttora.

I resti del vecchio vulcano sono uno spettacolo di colori: il rosso del cuore lavico che continua a pulsare, l’acquamarina del laghetto in cui si è tramutata la bocca imperfetta, il verde dei muschi che hanno preso ad abitare le pareti rocciose. Una di loro, quella in direzione nord, è talmente poco ripida che in estate vi si tengono affollati concerti sotto il sole di mezzanotte. Il nuovo Kerið invita tutti a scendere fin dentro il suo petto, ad ammirare quel che è stato in grado di inventarsi quando, tremila anni fa, credeva proprio che non ce l’avrebbe fatta.

Reykjaladur, Hveragerði

6. Ottenere una ricompensa al rabarbaro

You always need some duglegur.

Duglegur è una bella parola islandese che, come molte  altre belle parole islandesi, non si può veramente tradurre. Alla lettera significa “efficienza”, ma in realtà si usa più spesso come complimento nei confronti di chi ha appena svolto bene il proprio compito. Una specie di “good job!” solo che qui il senso non è dire “bravo, hai lavorato bene”, ma “bravo, hai lavorato duro”. Perché tutto qui sembra funzionare intorno all’elementare legge secondo cui è fantastico ricevere un apprezzamento all’improvviso, dono inaspettato e gratuito, ma è bene fare in modo che esso giunga come normale conseguenza di un esercizio che è costato un pochino di fatica.

Questo il senso di un’ora di quasi primavera al centro di un pomeriggio di inizio marzo, dopo sei mesi di inverno; questo il senso di un fiume di acqua naturalmente calda in cui immergersi in fretta al termine di una camminata di due ore nella neve; questo il senso del profumo di caffè mentre torni a casa dopo aver fatto la spesa senza ombrello, che tanto mica serve quando il vento soffia così dalla Groenlandia. Questo è anche il senso del waffle alla marmellata di rabarbaro che puoi pensare di concederti dopo aver guidato tutto il giorno e dato delle indicazioni a un viaggiatore in cammino verso qualche cascata.

Il fiume Ölfusá

7. Aver voglia di guadare un fiume saltando

Wooooosh. Plop. Frrrrrr. Clac. La sinfonia del fiume Ölfusá assorda. Un assortito campionario di rumori, tutti variamente spaventosi, esposti in appena 25 chilometri di anse e saltelli. Il fiume più importante d’Islanda è corto. Poco dopo aver cominciato a esistere, non lontano da Selfoss, l’Ölfusá muore nell’Atlantico. Il suo è un delta magnifico, tomba dignitosa per il frutto più eloquente dell’atto d’amore tra Hvítá e Sog, i fiumi-genitori che diventano una sola cosa proprio quando, dopo aver a lungo peregrinato tra ghiacciai e campi di lava, percepiscono l’inesorabile approssimarsi dell’Oceano.

Wooooosh. Plop. Frrrrrr. Clac. Alcune grandi lastre bianche, croccanti d’avena in una tazza colma a colazione, scivolano meste nella corrente centrale dell’Ölfusá, quella più chiara. Accelerano giusto prima del ponte in corrispondenza del masso che un giorno la povera Jóra aveva gettato in mezzo al fiume. Il suo ronzino stava soccombendo in un combattimento di cavalli, allora lei perse le staffe e strappò una zampa a quello nemico. Con l’arto tra le mani, cominciò a correre così veloce che nessuno fu in grado di raggiungerla. Giunta al grande fiume, prese la roccia più pesante della scogliera e la lanciò al centro esatto dell’Ölfusá, poi con due balzi prodigiosi lo guadò. Arrivò infine presso il monte Hengill, dove venne trasformata nel mostro più terrificante che si ricordi da queste parti.

Wooooosh. Plop. Frrrrrr. Clac. I salmoni non riesci a vederli, ma certo già fervono i preparativi per l’utopica risalita del fiume a primavera, che terminerà puntualmente con la cattura da parte di un pescatore del luogo o di un turista americano. Ma ai salmoni questo non importa affatto.

Wooooosh. Plop. Frrrrrr. Clac. I pensieri non riesci a sentirli, sulle rive del fiume, perché il frastuono è troppo forte. Potresti urlare a squarciagola, ma non ti udirebbe nessuno. E la totale irrilevanza della tua presenza può farti sentire il bisogno di allontanarti, veloce come le nuvole che si riflettono sull’Ölfusá.

Pylsu Vagninn, Selfoss

8. Gustare l’hot-dog più saporito di sempre

Erano scese dal bus da due porte diverse per poi ricongiungersi un attimo dopo. Mano nella mano, percorrevano a grandi passi i duecento metri che separavano la fermata obbligatoria di fronte al distributore Olís dal ponte che segna la fine del centro abitato.

Avevano quindici anni e due berretti gialli, ma nessun guanto. Faceva troppo caldo per i guanti, c’erano tipo 2 gradi. Non avevano nemmeno zainetti sulle spalle: forse erano già tornate da scuola e avevano fatto in tempo a lasciarli a casa o, più probabilmente, a scuola non c’erano proprio andate. Dovevano aver sentito per tutta la notte il rumore della neve che, a gruppetti, scivolava giù dal tetto spiovente della loro casa, togliendo il disturbo per il resto dell’inverno o almeno per il resto della settimana. Dovevano aver sentito quel rumore e avevano deciso di andare a farsi un giro in paese.

Non saprei nemmeno dire se fossero sorelle. Certo, si somigliavano. Un po’ come tutte le islandesi della loro età, erano un grazioso misto di bianco, oro e blu. Potrebbero anche essere state due semplici compagne di classe. Sì, ecco cos’erano: erano due vicine di banco che si volevano bene come sorelle e una era la migliore amica dell’altra.

Se avessi potuto scommettere su quello che si stavano raccontando ad alta voce mentre saltellavano verso di me, avrei puntato sul futuro: cosa si sarebbero inventate per diventare amiche di Gummi, il più carino della classe; come sarebbero state le vacanze estive nelle fattorie dei nonni, dove internet è lentissimo; verso dove avrebbero volato prendendo la prima volta un aereo da Keflavík; che avrebbero fatto da grandi e se sarebbero tornate un giorno a vivere in Islanda. Poi si sono interrotte perché, mentre il sole apriva squarci di colore nelle colline di lava alle nostre spalle, sono entrate anche loro da Pylsu Vagninn, specialità hot dog. Lì hanno ordinato il panino più buono della loro vita, ma questo ancora non lo sapevano.

Fjaðrárglijúfur, Snæfelsness Peninsula

9. Guardare il cielo di tanto in tanto

“Dove i ghiacciai incontrano il cielo, il suolo cessa di essere terreno e la terra diventa un tutt’uno con il cielo; lì non c’è più dolore, e quindi la gioia non è necessaria; solo la bellezza vi regna, al di là di tutte le pretese.

Essere un poeta significa sentirsi uno straniero su una spiaggia lontana. Nella terra a cui io appartengo, ma che potrei non raggiungere mai, gli uomini non hanno preoccupazioni, perché nessuno ha bisogno di sottrarre agli altri.

La mia terra è una terra di abbondanza; è la terra che la Natura ha donato all’uomo, dove la società non è una società di truffatori, dove i bambini non sono malaticci ma sani e contenti, e i giovani uomini e le giovani donne possono perseguire le loro aspirazioni, perché è naturale che sia così.

Potete prendervi tutto di me, ma non la libertà di guardare il cielo di tanto in tanto”.

Estratto da “Heimsljós – World Light” di Halldór Laxness, premio Nobel per la letteratura

Old House, Eyrarbakki

10. Riscoprire l’America

Bjarni amava molto suo padre Herjólfur. Quando, di ritorno da una spedizione in Scandinavia, scoprì che Herjólfur era partito per la Groenlandia, Bjarni lasciò immediatamente Eyrarbakki per mettersi sulle sue tracce.

Una serie di tempeste, però, lo mandarono molto presto fuori rotta. Quando intravide la terraferma, quella non era certo la Groenlandia: “una terra boscosa e con colline basse” avrebbe raccontato dopo. Bjarni allora ripartì, perché a lui interessava la Groenlandia e ritrovare suo padre. Due giorni dopo approdò in un “luogo pianeggiante” e no, ancora non era arrivato. Proseguì altri tre giorni verso nord, ed ecco finalmente “una terra montagnosa e piena di ghiacciai”. Ma Bjarni non era ancora convinto che quella fosse la Groenlandia e se ne andò di nuovo. Dopo altri quattro giorni in mare, avvistò una costa che appariva esattamente come una di quelle che aveva sentito anni addietro in qualche storia sulla Groenlandia e decise di fermarsi. Attraccò la sua barca di fronte a quella che avrebbe presto scoperto essere la nuova tenuta di suo padre. Era l’anno 986 e Bjarni, in cerca di Herjólfur, aveva toccato, nell’ordine, il Newfoundland, il Labrador e l’isola di Baffin. Era stato il primo uomo a raggiungere il Canada.

Bjarni aveva scoperto l’America cinque secoli prima di Colombo, ma non lo sapeva o forse non gli interessava. Non ritentò mai di tornare nelle attraenti regioni del nuovo mondo, anzi finì col vendere la sua barca a Leif, il figlio di Erik il Rosso. Leif tornò dalla sua esplorazione narrando le meraviglie di Vinland, la fantomatica “terra del vino”, in un racconto che è stato ritenuto poco più che una leggenda fino ad appena 50 anni fa, quando a L’Anse aux Meadows, isola di Terranova, sono stati scoperti i resti di un villaggio vichingo. Somigliava tantissimo a Eyrarbakki.

Oltre mille anni dopo Bjarni e Leif, Eyrarbakki non ha più nemmeno una barchetta nel suo porto naturale sull’Atlantico. Persino i pescatori se ne sono andati. Sono rimaste meno di 500 persone, decine di case colorate, una chiesa, parecchi cani sonnacchiosi e un’indicibile necessità di mettersi in viaggio.

Heimaey, Isole Vestmann

11. Camminare in un mare di lava

Camminare in mezzo alla lava solida è come stuzzicare la crosta formatasi su un ginocchio sbucciato. Da piccolo lo facevo di continuo. Gli indici delle mie mani non smettevano di tormentare il grumo indurito di piastrine che il mio organismo utilizzava come difesa dalle cadute dalla bici o dalle strisciate sull’asfalto-improvvisato-campo-di-basket. A un certo punto la crosta veniva via e allora c’erano due possibilità: la ferita si era già rimarginata e al suo posto c’era un pezzetto di pelle nuova di zecca, rosa e liscissima, oppure il graffio si riapriva in una nuova, dolorosa fuoriuscita di sangue. E tutto ricominciava da capo.

E se le croste sono la prova più inequivocabile di un corpo attivo, capace di auto-rigenerarsi quando necessario, allora l’Islanda, emaciata in lungo e in largo, è un ragazzino vivace, una piccola peste, una specie di Deadpool geologico. Le Isole Vestmann sono la sua cicatrice più fresca. Surtsey, l’ultimo grumo, è emersa nel 1963; Heimaey, quello più grande, è cresciuto del 20% nel 1973. Quella volta, siccome l’Eldfell era parecchio incazzato, i 5000 abitanti di Vestmannaeyjar dovettero andarsene di corsa in una notte.

Per questo a Vestmannaeyjar la cronologia degli eventi è ordinata in base a “prima dell’eruzione” e a “dopo l’eruzione”. Diverse abitazioni sono ancora oggi riscaldate dal calore residuo generato dall’eruzione. Il profilo dell’arcipelago, nonostante l’abbondanza di gabbiani che addobbano le rocce scoscese e accompagnano l’entrata dei traghetti nel porto, è tutt’altro che ospitale: qui è stato registrato il vento più stordente dell’Atlantico, una roba da oltre 200 all’ora.

Camminare in mezzo alla lava solida delle Vestmann significa in un certo senso toccare le proprie ferite, controllare lo stato dei rattoppi della propria anima. Dà sollievo e insieme minaccia. Proprio come l’idea di sdraiarsi su una bella panchina pubblica in braccio all’Eldfell quando si fa sera e il nero delle croste è ancora più nero, mentre il rosso del sangue vivo sta dentro, ribolle e non si vede.

Berserkjahraun, Snæfelsness Peninsula

12. Far diventar vera una leggenda (senza aver bevuto)

Intorno all’anno 1000 Vermunður di Bjarnarhöfn,  detto il mingherlino, tornò dalla Norvegia con due mercenari della categoria dei berserker. Erano uomini estremamente prestanti, per certi versi selvaggi, debordanti nella loro efficienza. Nell’islandese antico berserkr indicava l’abitudine a combattere senza alcuna armatura.

I due si rivelarono ben presto di difficile gestione e allora Vermunður decise di donarli a suo fratello Styrr di Hraun, detto l’assassino. Avvenne che uno dei due berserker si innamorò di Ásdís, figlia di Styrr, e ne chiese la mano al padre. Styrr, del tutto contrario all’idea di concedere sua figlia a un bruto di tal risma, ma al contempo preoccupato della possibile reazione dell’omaccione al suo diniego, gli offrì una possibilità: il mercenario avrebbe avuto la mano di Ásdís qualora fosse riuscito a costruire una strada nell’ispido campo di lava che divideva Hraun da Bjarnarhöfn.

Il berserker accettò e in men che non si dica aprì un largo varco tra le rocce. Styrr, con le spalle al muro, quella sera stessa pensò di uccidere i due servi. Li chiuse in una sauna bollente e li colpì ripetutamente con una fiocina mentre cercavano di liberarsi. Poi gli diede sepoltura proprio accanto alla strada che avevano prodigiosamente realizzato nell’estremo settentrionale del campo di lava, dove giacciono tutt’ora.

La vicenda è tratta dalla Saga di Eyrbyggja, una delle più importanti e complesse saghe islandesi, tutta ambientata nello scenario irreale della penisola di Snæfellsnes, l’Islanda in miniatura, che tra le altre cose contiene anche il passaggio che conduce al centro della terra, almeno stando a quanto sostiene Jules Verne. La vicenda avrebbe conservato lo status di leggenda se non fosse che, all’inizio del secolo scorso, alcuni scavi nella strada dentro il campo di lava portarono alla luce gli scheletri di due uomini, entrambi di costituzione molto robusta, e con essi la consapevolezza che continuare a raccontare storie è sempre un ottimo modo per farle rimanere vive o per farle diventare vere.

Vatnasafn, Stykkishólmur

13. Specchiarsi nella biblioteca dell’acqua

Pungente, chiaro, umido, mite, turgido, frenetico, tetro, capriccioso, bello, frigido, rinfrescante, piacevole, cupo, munifico, vivace, sgargiante, fuori controllo, buono, grigio, ventoso, indomabile, luminoso, severo, tonificante, sereno, tiepido, rigido, nitido, calmo, temperato, delizioso, fiero, freddo, imprevedibile, fresco, tranquillo, debole, meraviglioso, stagnante, fermo, caldo, cinico, lucido, feroce, opprimente, mutevole, stupendo, crudo, sopportabile, sfolgorante, cattivo, cheto, saggio, truce, tempestoso, pazzo, pericoloso, inclemente, nebbioso, amabile, pesante, secco, favorevole, variabile, irascibile, depresso, chiuso, scuro, spietato, lieve.

In un monolocale nel punto più alto di Stykkishólmur c’è un pavimento di gomma, colore della terra. Sopra ci hanno inciso un centinaio di aggettivi, in islandese e in inglese. Sono riferiti alle condizioni del tempo, quello metereologico e quello dell’anima. Fuori. Dentro.

Fuori: l’industriosità di un porticciolo da cui un giorno sì e un giorno no, alle tre in punto, dopo aver emesso un lungo suono, Baldur salpa. Baldur è un battello grande ma non troppo, comunque sproporzionato rispetto alle barchette dei pescatori. Va a Flatey, l’unico abitato tra le centinaia di scogli che un giorno di pioggia qualcuno ha conficcato tra le onde blu della baia di Breiðafjörður.
Dentro: la calma apparente di ventiquattro colonne di vetro piene d’acqua, alte dal pavimento di gomma fino al soffitto, ciascuna proveniente da un diverso ghiacciaio d’Islanda. Specchi. Moniti.

Il monolocale nel punto più alto di Stykkishólmur, dove il principale datore di lavoro dopo la pesca è un convento, è diventato la Biblioteca dell’Acqua, un’installazione artistica famosa e pure un grandioso inno alle previsioni del tempo, quello metereologico e quello dell’anima, che qualche volta ancora sbagliano e ci regalano gloriosi cambi di programma.

Hellnar, Snæfelsness Peninsula

14. Lasciare la porta aperta per vedere l’aurora boreale

Esistono paesi in cui gli alberi sono solo genealogici. Niente si mette in mezzo tra te e te stesso, tra te e le montagne, tra te e i boschetti radi di abitazioni che qualche cuore ardito chiama città.

Esistono città che sono una strada sola. Cominciano a una pompa di benzina e finiscono a un’altra pompa di benzina. La caserma è fotogenica, il pub non apre mai, la piazza è una piscina e la chiesa è sempre una chiesa. Sono stretti tra un fiume e una gettata di lava e prendono la forma mobile della terra e il colore fluorescente delle case.

Esistono case a più piani con la porta d’ingresso su un lato e le pareti imbottite di libri, che vorrebbero raccontarti storie di fantasmi ogni notte, appena spegni la luce. Puoi dormirci senza girare la chiave, così non fai troppo casino se alle tre del mattino senti il bisogno di uscire a caccia di aurore boreali, ché quelle sembra ti cerchino mentre sciolgono il cielo d’inverno in una colata di verde smeraldo. Dentro quelle case ci trovi molto probabilmente del caffè etiope, una scatola di Monopoli, un disco di Jacques Brel, un divano rosso ad angolo; certamente c’è un bel gatto che gatteggia tutto il giorno tra il termosifone e il finestrone della cucina con zero voglia di uscire a fare i suoi bisogni, mentre fuori nevica e il suo padrone fa bollire un haddock per cena.

Esistono uomini che hanno la pelle dura e l’animo sottile. Sono poeti con le scarpe sporche di fango, pianisti con le dita storte, tenori con la erre arrotata. Lavorano un pochino dopo cena, ti prestano la macchina se hai perso l’unico bus, ogni domenica vanno a cercare un panorama nuovo. Sostengono di non sapere nulla, ma potrebbero insegnarti tutto. Di solito vivono in case a più piani con la porta d’ingresso su un lato e le pareti imbottite di libri, in città che sono una strada sola, dentro paesi in cui gli alberi sono solo genealogici. Ce n’è in giro ancora qualcuno e incontrarli è un buon motivo per sentirsi bene, dopotutto.

Kolaportið, Reykjavík

15. Attendere il risveglio di Katla

Una fessura larga due metri e lunga duecento si aprirà senza preavviso un sabato mattina nel pavimento di Kolaportið e comincerà a spruzzare fiamme dapprima piccole poi sempre più alte, che consumeranno in un istante il pane fresco e il merluzzo essiccato, si prenderanno le collezioni di vinili invendute e i maglioni fatti a mano, inceneriranno il bastone del pensionato e la borsetta della puttana e un orrido concerto di boati prenderà il posto del tramestio del mercato coperto di Reykjavík. Il mercato non sarà più mercato ma epifania e il resto del mondo davanti ai telegiornali dirà ecco i vulcani si sono svegliati e ora chi lo sa, forse adesso tocca a Katla, ché l’aspettiamo dal ’68 e ha accumulato rabbia da sparare lava da bruciare e polvere che sfascerà l’economia del mondo, e arriveranno carestie fino al Mediterraneo, e qualcuno piangerà per gli islandesi, però cazzo lo dovevano sapere, altro che invasioni, cosa ci stavano a fare su quell’isola, sarà mica un posto dove vivere e sposarsi e fare figli, no quello è l’inferno camuffato da paradiso, quella è la suprema tentazione del demonio, quella è la punizione di dio in persona per chi ha osato colonizzare un’isola empia, per chi ha creduto potesse essere ospitale, e adesso invece gli uomini spariranno di lì per sempre, come un tempo sparirono gli alberi, e il fuoco delle viscere del pianeta marcherà il paese da nord-ovest a sud-est, si berrà i ghiacci e dominerà per secoli.

Ma quel sabato mattina non è ancora giunto. Qualcuno giura non verrà mai.

E allora Kolaportið continua a brulicare di vita ed è pure uscito un po’ di sole. Un vecchio ha messo su All you need is love e il gelato alla liquirizia è richiestissimo, una diciottenne si fa un selfie stupido, un ubriacone rimbalza nel flipper delle bancarelle e un bambino dorme all’aperto. La temperatura è sempre sotto i 5 gradi e l’utopia degli islandesi ha vinto: il resto del mondo sta ancora domandandosi come abbiano fatto a sopravvivere e cosa ci stiano a fare su quell’isola fuori dal mondo e da ogni ragione.

Foto @Leonardo Piccione

CONDIVIDI
Exit mobile version