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Cosa succede nello Yemen?

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Mazrak Camp, north-west Yemen, @IRIN photos

Negli ultimi mesi la situazione in Yemen è degenerata: ogni possibile trattativa per la pace è fallita, i bombardamenti incessanti continuano a mietere vittime civili e il Paese è afflitto da una crisi umanitaria senza precedenti. Cerchiamo di capire meglio qual è la situazione e le forze in gioco in quello che rimane dello Yemen.

Le forze in campo

Il Paese è attualmente diviso fra tre principali fazioni: da una parte, il governo sunnita di Mansur Hadi sostenuto dalla coalizione araba capeggiata dall’Arabia Saudita; dall’altra i ribelli sciiti Houthi che appoggiano il precedente capo di governo Ali Abdullah Saleh, costretto a lasciare la guida del Paese nel 2012 dopo 34 anni; il terzo fronte indipendente è invece aperto contro i terroristi sunniti di Al-Qaeda, da sempre attivi nel Paese, che hanno approfittato dello scoppio della guerra civile per rafforzare la propria posizione in alcune regioni.

I ribelli controllano attualmente la capitale Sanaa e alcune provincie Occidentali dello Yemen, mentre le forze governative si contendono l’influenza sulla parte Orientale del Paese con Al-Qaeda. Il presidente Hadi è sostenuto militarmente dalla coalizione araba guidata dall’Arabia Saudita che comprende altri Paesi sunniti quali Kuwait, Emirati Arabi, Bahrein, Giordania, Marocco, Senegal e Sudan. Gli Houthi godono invece dell’appoggio politico dell’Iran e degli Hezbollah libanesi.

@Al Jaazera

La crisi umanitaria in Yemen

La più grande crisi umanitaria odierna

Con queste parole Josè Graziano da Silva, direttore generale della Fao, ha descritto l’attuale situazione in Yemen durante un briefing al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Sempre secondo il direttore della Fao:

Le dimensioni della crisi alimentare nello Yemen sono sconcertanti, con 17 milioni di persone che soffrono di grave insicurezza alimentare e, di questi, sette milioni sono sull’orlo della carestia.

Già prima della guerra, lo Yemen importava il 90% degli alimenti di base: la chiusura delle frontiere e il blocco navale imposto con l’inizio della guerra, hanno condannato il popolo yemenita a morire di fame. I continui bombardamenti della coalizione araba hanno poi distrutto buona parte degli impianti di produzione alimentare e tagliato tutti i principali collegamenti fra le campagne e le grandi città. La capitale Sanaa e le altre città assediate sono rimaste completamente isolate ed è quasi impossibile anche per gli operatori umanitari trasportare cibo e beni di prima necessità per i civili che subiscono il fuoco incrociato delle fazioni.

Il New York Times descrive una carestia talmente drammatica da portare alcune famiglie a vendere le proprie figlie per il matrimonio in cambio di cibo. Oltre alla carestia, sembra che il Paese sia vittima anche di una nuova epidemia di colera: lo scorso maggio, il Ministero della Salute yemenita ha dichiarato lo stato di emergenza a causa della diffusione della malattia. Secondo i dati governativi, sarebbero più di 300.000 i casi di colera segnalati nel Paese. A contribuire alla diffusione dell’epidemia vi è stato anche il completo collasso del sistema sanitario. Per colpa dei bombardamenti sauditi, nell’intero Yemen solo il 45% degli ospedali è rimasto operativo e le forniture mediche (medicinali inclusi) rimangono scarse su tutto il territorio. Secondo uno studio condotto dalle Nazioni Unite, più di 7 milioni di persone vivono in aree ad alto rischio di trasmissione del colera, con più di due terzi della popolazione che non ha accesso all’acqua potabile.

Gli altri numeri della crisi diffusi nello stesso report danno un’idea chiara di quanto la situazione sia drammatica: su una popolazione totale di 27 milioni di persone, 19 milioni di yemeniti hanno bisogno di assistenza umanitaria; dal marzo del 2015 sono state uccise più di 10.000 persone, di cui 4.667 civili fra i quali 1.540 bambini; i feriti sono stati più di 44.000 e fra questi 6.000 sono rimasti disabili; oltre 3 milioni di persone hanno dovuto lasciare le proprie case e di queste 121.000 hanno già lasciato il Paese.

Le responsabilità dell’Italia nella guerra in Yemen

Dall’inizio del conflitto, l’Arabia Saudita ha coordinato numerosi raid aerei della coalizione araba contro obiettivi definiti “sensibili”, per indebolire l’esercito dei ribelli. Con questo pretesto, i bombardamenti sauditi hanno distrutto sopratutto strade, ospedali e infrastrutture dedicate al soccorso della popolazione civile. In questo massacro, anche l’Italia ha le proprie responsabilità: per anni il nostro Paese è stato fornitore di sistemi militari per l’Arabia Saudita e il commercio di armi non si è fermato neanche dopo lo scoppio del conflitto in Yemen. Secondo quanto riportato dal rapporto consegnato dagli osservatori dell’Onu al Consiglio di Sicurezza, alcune bombe inesplose rinvenute nel 2016 a Sanaa riportano sigle e numeri di serie riconducibili a industrie italiane. Lo stesso rapporto evidenzia come:

Il conflitto ha visto diffuse violazioni del diritto umanitario internazionale da tutte le parti in conflitto. Il gruppo di esperti ha condotto indagini dettagliate su questi fatti e ha motivi sufficienti per affermare che la coalizione guidata dall’Arabia Saudita non ha rispettato il diritto umanitario internazionale in almeno 10 attacchi aerei diretti su abitazioni, mercati, fabbriche e su un ospedale.

L’Italia si è quindi indirettamente resa complice di crimini di guerra. Ma questa evidenza non ha fermato il commercio con i sauditi. Francesco Vignarca, portavoce di Rete Disarmo, lo scorso maggio ha denunciato, dati alla mano, l’ipocrisia italiana sulle esportazioni delle nostre armi dalle pagine di Repubblica:

I dati di export di RWM Italia verso l’Arabia Saudita sono spaventosi: 19.675 nuove bombe autorizzate nel solo 2016 con una esportazione effettiva di 2.150 ordigni, per 32 milioni di euro. Tutte queste autorizzazioni, rilasciate verso Paesi in conflitto, violano la legge 185/90 sull’export militare che impedisce una consegna, se l’invio viene fatto in aree in stato di guerra. Il provato utilizzo in Yemen di ordigni di fabbricazione italiana da parte saudita, dovrebbe bloccare qualsiasi tipo di accordo. Da tempo chiediamo al Governo di non contribuire, con queste licenze, ad alimentare un conflitto sanguinoso.


23 settembre 2016
Una pace difficile. Lo scorso 2 agosto si è ufficialmente chiuso il tavolo per la pace fra il governo yemenita e i ribelli houthi. La delegazione governativa ha abbandonato le trattative in Kuwait dopo l’ennesimo rifiuto degli houthi alla proposta presentata dall’inviato Onu Ould Cheikh Ahmed. L’accordo prevedeva il ritiro dei ribelli sciiti dalla capitale Sana’a e dalle due principali città del Paese con la consegna delle armi e la restituzione delle istituzioni statali occupate dall’inizio del conflitto. Ma le garanzie proposte non rispecchiavano le aspettative dei ribelli che invece continuavano a chiedere a gran forze la formazione di un governo di unità nazionale, con la nomina di un presidente scelto da entrambe le parti per guidare la transizione politica. Le trattative iniziate nell’aprile di quest’anno si sono quindi rivelate un completo fallimento ed anche il cessate il fuoco concordato non si è mai di fatto concretizzato.

La proposta di Kerry. Ad intervenire sulla questione yemenità è il segretario di Stato americano John Kerry con una nuova proposta di pace presentata a fine agosto in Arabia Saudita. Alla presenza dei rappresentanti di Gran Bretagna, Emirati Arabi Uniti e degli stessi sauditi, Kerry ha presentato il suo piano: la creazione di un governo di unità nazionale che includa gli houthi a patto che questi abbandonino le armi e consegnino i loro armamenti pesanti ad una terza parte con funzioni di garante. Quasi immediata è stata la reazione del governo yemenita attualmente in esilio proprio in Arabia Saudita: il consiglio dei ministri riunito a Riad ha accettato la linea di principio proposta dal segretario americano e il governo sembra disponibile per riaprire un tavolo delle trattative coi ribelli. Nel mentre le grandi potenze cercano di mettere d’accordo le parti in causa, in Yemen i civili stanno pagando il prezzo più alto: da una parte i raid aerei dell’Arabia Saudita e dall’altra gli attentati terroristici di Al Qaeda e di Daesh, l’ultimo dei quali a fine agosto ha provocato ben 70 morti nelle strade di Aden. Il paese è devastato, come ci mostra brevemente questo video di Middle East Eye.

I raid e le vittime civili. I raid della coalizione saudita sono stati più di 8.600 secondo le stime dell’associazione Yemen Data Project. Secondo la stessa ong, di questi almeno 3.577 hanno avuto come obiettivo siti civili e provocato la morte di centinaia di cittadini. Il governo di Riyad si difende da tali accuse per bocca del ministro degli esteri Adel al-Jubeir, che punta il dito direttamente contro i ribelli:

Gli houthi hanno trasformato le scuole, gli ospedali e le moschee in centri operativi, in depositi di armi rendendoli non più siti civili. Ora sono obiettivi militari. Erano una scuola un anno fa, non adesso che vengono bombardati.

Ogni zona del Paese è diventata in questo modo obiettivo sensibile per i raid della coalizione saudita, generando paura non solo fra i cittadini ma anche fra gli operatori umanitari che stanno operando nella regione. Proprio il 16 agosto scorso uno dei bombardamenti ha colpito un’ospedale da campo sostenuto da Medici senza frontiere ed ha provocato la morte di uno dei medici volontari assieme ad altri 10 civili. Solo due giorni dopo, l’associazione umanitaria ha deciso di evacuare il proprio staff dalla parte settentrionale del Paese per motivi di sicurezza.

Bombe made in Italy. Anche l’Italia ha una sua parte di responsabilità nei bombardamenti indiscriminati dell’Arabia Saudita: come riporta un’inchiesta de l’Espresso, parte delle bombe che cadono sul suolo yemenita sono di fabbricazione italiana e sono state vendute agli arabi sotto l’autorizzazione del nostro governo.

Un conflitto logorante. La risposta degli houthi alla proposta di Kerry tarda ad arrivare, ma la situazione in Yemen continua a peggiorare. Secondo le stime dell’Onu, nei 18 mesi di guerra civile yemenita le vittime del conflitto ammonterebbero circa a 10.000 ed oltre 2,8 milioni di sfollati. Fin dall’inizio del conflitto, sia i ribelli che il governo pensavano di poter prevalere sull’altra fazione direttamente sul campo di battaglia. Proprio per questo motivo la guerra si è protratta così a lungo e i tentativi di pace in Kuwait sono falliti. Non sono bastati lo spettro di Al Qaeda e dell’IS e l’intervento diretto dei sauditi per smuovere questa convinzione. Ma dopo un anno e mezzo di conflitto entrambi gli schieramenti stanno scontando il pesante logoramento delle loro risorse sia belliche che umane. Con l’aggravarsi della situazione umanitaria del Paese in molti si stanno chiedendo se una vittoria sul campo sia effettivamente ancora fattibile. Anche se una delle due parti dovesse riuscire a prevalere militarmente sull’altra, non rimarrebbe granché su cui governare e i costi per la ricostruzione sarebbero insostenibili per uno dei Paesi più poveri del mondo già da prima del conflitto. Per questo motivo, nel formulare la sua proposta di pace, Kerry ha promesso anche l’intervento degli USA per la ripresa attraverso uno specifico fondo di aiuto. Resta da capire quanto questo contribuito possa essere gradito dai ribelli sciiti amici dell’Iran, ma è sotto gli occhi di tutti che da solo lo Yemen non potrà mai riprendersi dalla distruzione causata dal conflitto.


23 luglio

@www.aawsat.net

La tregua. Grazie all’intervento delle Nazioni Unite, lo scorso aprile è iniziata la tregua fra i ribelli houthi e il governo yemenita. Dopo mesi di guerra civile e il parziale ritiro della coalizione araba guidata dall’Arabia Saudita, l’ONU è riuscita a far sedere i due schieramenti ad un tavolo per la pace. La situazione della regione stava degenerando rapidamente e, se il conflitto fosse proseguito, probabilmente non ci sarebbero stati vincitori: la guerra ha causato più di seimila vittime, costringendo milioni di cittadini ad abbandonare le proprie case; la situazione umanitaria si è aggravata a causa del concreto spettro della carestia, mentre le strutture e i servizi essenziali sono ormai arrivati del tutto al collasso. Grazie alla tregua, si sono aperti corridoi umanitari in tutto il Paese. I negoziati per la pace sono iniziati il 18 aprile nel vicino stato del Kuwait, territorio neutrale per entrambe le fazioni. A coordinare le trattative è l’inviato speciale dell’Onu per lo Yemen Ismail Ould Cheikh Ahmed, mentre un comitato speciale con rappresentanti militari di entrambe le fazioni ha il compito di fare il possibile per mantenere il cessate il fuoco e la stabilità della tregua.

Gli ostacoli. A tre mesi dall’apertura del tavolo per la pace, non si sono ancora registrati grossi passi avanti. Purtroppo, sembra mancare la reale volontà politica di trovare un accordo. Sia il governo yemenita che i ribelli houthi non sono apparentemente interessati a creare un governo condiviso per il controllo della regione. Entrambe le parti hanno fatto di tutto per disertare e rinviare gli incontri fissati per le trattative. I rappresentanti della delegazione governativa in Kuwait la scorsa settimana hanno fatto sapere che “A causa della testardaggine [dei ribelli] e i loro ritardi, non è stato possibile raggiungere un accordo su nessuna delle questioni in agenda”, mentre dal canto loro gli houthi continuano a chiedere più garanzie per un governo di transizione condiviso in cambio dell’abbandono delle armi. L’inviato Onu Ould Cheikh Ahmed sta lavorando per tornare al tavolo delle trattative con una proposta base che raccolga i principi generali già accettati dalle due parti. Entro la prima settimana di agosto le delegazioni dovrebbero rivedersi per discutere la road map di Ahmed. Intanto, il vice ministro degli Esteri del Kuwait, Khaled al-Jarallah, ha dichiarato che il suo paese non ospiterà più il negoziato a meno che non si trovi una soluzione entro la scadenza stabilita per l’ultimo incontro: “Fin dall’inizio abbiamo trovato un accordo con le parti per condurre un negoziato su certe tempistiche. Il Kuwait sta ospitando il dialogo da troppo tempo, è abbastanza”.

Gli obiettivi delle fazioni. È evidente che i due schieramenti perseguano obiettivi diametralmente opposti: da una parte il governo yemenita, di ispirazione sunnita e appoggiato dall’Arabia Saudita, che punta in realtà al totale scioglimento del movimento degli houthi e al ripristino totale dell’autorità del Presidente eletto ʿAbd Rabbih Manṣūr Hādī; dall’altra, invece, i ribelli delle minoranze sciite che vogliono consolidare la propria influenza nella penisola araba, sotto la spinta anche dal vicino Iran. La condivisione del potere fra sunniti e sciiti per alcuni osservatori è uno scenario quasi fantascientifico e quindi le trattative attualmente in corso in Kuwait si risolveranno molto probabilmente con un nulla di fatto. Nel frattempo, in Yemen sono ricominciate le ostilità con le truppe governative che stanno coordinando un attacco per riconquistare la città di Harad, in mano ai ribelli houthi. La questione yemenita mette a dura prova gli equilibri in tutta la penisola araba e l’influenza di Arabia Saudita e Iran giocheranno un ruolo fondamentale nella risoluzione del conflitto.

Al Qaeda. Nel sud-est del Paese le cellule jihadiste di al Qaeda mantengono il controllo dei propri avamposti. Malgrado l’intervento militare della coalizione araba coordinata dall’Arabia Saudita, i terroristi mantengono il pieno controllo di molte città della parte meridionale e continuano imperterriti le loro azioni contro il governo yemenita. All’inizio di luglio è stata proprio la capitale provvisoria, Aden, a finire nel mirino dei jihadisti: un commando di al Qaeda era riuscito ad ottenere il controllo dell’aeroporto militare della città, dopo un rapido assalto aperto da due attentatori suicidi saltati in aria al checkpoint di ingresso. Solo dopo qualche ora, col supporto aereo degli elicotteri sauditi, le forze governative sono riuscite a riprendere il controllo dell’aeroporto. Malgrado la ritirata dei jihadisti, il fatto che al Qaeda sia riuscita a penetrare fino alle porte di Aden è un chiaro segnale di quanto la situazione in tutto lo Yemen sia instabile e imprevedibile. Malgrado l’apparente tregua a nord-ovest, la guerra nella parte meridionale non si è mai arrestata.


25 aprile 2015

L’Arabia Saudita sta bombardando il territorio yemenita, gli sciiti houthi occupano ancora buona parte settentrionale del territorio e il gruppo Aqpa di Al Qaeda tiene sotto controllo il sud-est del Paese. L’Iran cerca di rifornire di armi i ribelli sciiti mentre l’Isis manifesta la sua presenta sul territorio con attentati nelle moschee.

Cosa succede nello Yemen?

La storia. Sotto la spinte delle primavere arabe, nel 2012 il Presidente yemenita Ali Abdullah Saleh è costretto a lasciare l’incarico dopo essere rimasto al potere per ben 34 anni, prima come leader dello Stato indipendente Yemen del Nord e poi come Presidente del Paese riunificato dal 1990.

A succederlo è il suo ex-vice Abd Rabbo Mansur Hadi, eletto tramite regolari elezioni alle quale si è presentato come unico candidato. Le sfide per il nuovo Presidente sono molteplici: lo Stato deve risolvere il problema della scarsità di risorse idriche e rispondere all’estrema povertà in cui verte buona parte della popolazione. A tali questioni, si aggiungono anche le minacce della cellula Aqpa di Al Qaeda presente nel Paese e le incessanti richieste degli houthi, un gruppo di ribelli sciiti zaydisti originari dello Yemen del nord.

L’apparente incapacità di Hadi di rispondere alle continue crisi diplomatiche con queste realtà ha portato i militanti houthi ad agire e a partire dal settembre del 2014 hanno iniziato a marciare verso la capitale Sanaa. La loro avanzata non viene arrestata dall’intervento dell’esercito e nel Gennaio del 2015 concretizzano il colpo di Stato che costringe presidente e governo alla fuga.

Hadi si rifugia nella sua città natale nel sud del Paese, Aden, dalla quale ritira le sue iniziali dimissioni e condanna duramente il colpo di Stato rivendicando il proprio ruolo di unico Presidente legittimo dello Yemen. A marzo Aden viene dichiarata “capitale transitoria”, innescando la reazione degli houthi che lanciano una nuova offensiva proprio verso la capitale del Sud, appoggiati dagli uomini del vecchio Presidente Saleh, deposto dopo la primavera araba.

@arabpress.eu

A questo punto della storia entrano in gioco anche gli attori internazionali. Il 26 marzo l’Arabia Saudita, che ha sempre sostenuto il governo yemenita contro le pressioni degli houthi, mobilita 150.000 forze di terra e 100 aerei per colpire le basi strategiche dei ribelli sciiti. Il 14 aprile le Nazioni Unite, con una risoluzione, impongono un embargo sulla armi degli houthi e chiede a questi di ritirarsi dai territori occupati.

La comunità internazionale e buona parte dei paesi del Golfo Persico sono tutti dalla parte del Presidente Hadi, che intanto è dovuto fuggire in Arabia vista la vicinanza dei ribelli ad Aden. Il timore più grande degli amici USA del Golfo è l’interesse che l’Iran ha dimostrato nelle vicende yemenite: il governo di Teheran non è mai stato in buoni rapporti con l’America e di conseguenza coi suoi “amici” nella penisola araba. Dopo l’intervento militare da parte dell’Arabia Saudita, il governo iraniano ha subito condannato l’azione e ha chiesto l’immediata cessazioni delle azioni militari straniere nei territori yemeniti. Lo stravolgimento di poter nello Yemen portato degli houthi potrebbe portare nuovi alleati per l’Iran, rafforzando influenza sciita nella regione.

Gli jihadisti. Anche Al Qaeda ha beneficiato dal caos generato dalla ribellione degli houthi: a metà aprile il gruppo jihadista Aqpa ha rafforzato la propria posizione nelle zona sud-est del Paese, assicurandosi il controllo della città di Mukalla. Approfittando della crociata dei ribelli contro Hadi, il gruppo terroristico sta cercando di espandere la propria sfera di influenza oltre la parte orientale del Paese trovandosi spesso a combattere contemporaneamente sia contro le truppe degli houthi sia contro i lealisti del Presidente fuggitivo.

Paradossalmente, la preoccupazione più grande di Aqpa deriva dai propri nemici ma dai suoi potenziali alleati: l’Isis ha annunciato il suo arrivo nello Yemen a Marzo con la rivendicazione degli attentati suicidi in due moschee della capitale Sanaa che sono costati la vita a 137 persone. Alcuni gruppi jihadisti facenti parte delle truppe di Aqpa, hanno accusato Al Qaeda di non essere in grado di tutelare gli interessi dei sunniti yemeniti e hanno perciò disertato in favore dello Stato Islamico. La schermaglia interna alle file sunnite che non fa che rendere ancora più instabile e incerta la situazione nel Paese.

La situazione ad oggi. Il 21 Aprile l’Arabia Saudita annuncia la fine dei raid aerei prevista dall’operazione “Firmess Storm” sotto pressione del Presidente Hadi. Nuovi scontri nel Sud del Paese hanno però convinto la coalizione araba di riprendere i raid sempre sotto la guida dell’Arabia. Gli USA hanno deciso di mantenere la presenza di alcune navi da guerra nel Golfo ufficialmente per “garantire la libertà di navigazione”, ma per molti osservatori il reale intento è quello di rimanere presenti nella regione e far valere la propria posizione nei confronti gli alleati arabi.

La tensione è tornata a farsi alta quando, nelle ultime ore, è stata segnalata la presenza nel Golfo di un convoglio di navi iraniane sospettate di trasportare armi per gli houthi. Dopo un primo momento di incertezza, il convoglio ha deviato dirigendosi verso nord lasciandosi alle spalle i territori sotto il controllo dei ribelli. Gli jihadisti rimangono per il momento nelle proprie posizioni, ma l’Isis ha diramato in rete il primo video dove rivendica la sua presenza in Yemen: il filmato è contornato da effetti speciali degni di Hollywood e contiene esplicite minacce violente rivolte ai ribelli sciiti houthi.

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