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Cosa succede in Egitto? | La repressione del regime di Al Sisi e le scelte del governo italiano

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@the guardian

“Grazie” al clima di terrore e agli attentati terroristici che hanno colpito l’Egitto negli ultimi mesi, il Presidente Al-Sisi è riuscito ad accentrare su di sé il potere mettendo a tacere anche le opposizioni. L’ex-generale è diventato di fatto un dittatore non molto diverso da Mubarak, sopratutto grazie ai provvedimenti straordinari dati dallo stato di emergenza attualmente in vigore: questo conferisce ampi poteri alle forze di sicurezza, sospende il diritto alle manifestazioni di ogni genere e limita le libertà di opinione, di riunione e di stampa.

L’adozione dello stato di emergenza risale allo scorso maggio, dopo gli attentati avvenuti alle chiese copte di Tanta e Alessandria. Il provvedimento ha provocato grosso dibattito fra l’opinione pubblica egiziana, in quanto lo stato di emergenza era rimasto perennemente in vigore per tutto il mandato di Mubarak, iniziato nel 1981 e finito solo con la caduta del dittatore.

La paura concreta, sopratutto per l’opposizione, è che con il pretesto del terrorismo Al-Sisi concretizzi le sue aspirazioni assolutistiche. L’attuale situazione istituzionale dimostra come l’Egitto sia già tornato ad essere di fatto un regime: nel 2013 era stata approvata una legge che vietava manifestazioni contro il governo e nel 2016 è stato istituito un consiglio supremo per controllare i media, con la facoltà di revocare le licenze e multare o sospendere le trasmissioni non il linea col governo. Sono agghiaccianti i dati riguardanti la violazione dei diritti umani: secondo le organizzazioni umanitarie, dal 2013 al 2017 sarebbero state imprigionate circa 60.000 persone fra dissidenti, oppositori e presunti terroristi. Per Amnesty International, nelle carceri egiziane si verificano quotidianamente pratiche di tortura. Secondo l’Arab Network for Human Rights Information, lo stato di emergenza è attuato solamente per “sopprimere la libertà di opinione, di espressione e i diritti umani”.

L’Italia e il caso Regeni

L’attenzione dell’opinione pubblica italiana è tornata sull’Egitto dopo gli ultimi sviluppi relativi all’omicidio di Giulio Regeni, il ricercatore italiano ucciso nel febbraio del 2016. Dopo che le autorità egiziane avevano rifiutato di collaborare per scoprire le circostanze e gli autori materiali dell’omicidio Regeni, il governo italiano nell’aprile del 2016 aveva richiamato in patria il proprio ambasciatore dalla sede al Cairo. Ma nel Ferragosto di quest’anno lo stesso diplomatico è stato rimandato presso l’ambasciata italiana nella capitale egiziana, provocando forti polemiche riguardo la posizione del governo rispetto al regime di Al-Sisi. Ad alimentare l’indignazione generale ha contribuito anche una recente inchiesta a cura del New York Times in cui, sulla base di diversi elementi probatori e testimonianze già note, vengono rinnovate le accuse di un coinvolgimento diretto del governo egiziano nell’uccisione del giovane ricercatore.

L’articolo evidenzia come gli apparati di sicurezza egiziani abbiano avuto un ruolo centrale nel rapimento di Regeni, ma non è in grado di stabilire i gradi di responsabilità dei vertici di potere. Non è chiaro quindi se vi sia stato un effettivo ordine di esecuzione, ma è accertata la volontà d’insabbiare l’accaduto scaricando inizialmente la responsabilità sulla criminalità locale.

Le relazioni diplomatiche fra Italia e Egitto erano congelate proprio dall’aprile 2016, ma con la riconferma del nostro ambasciatore al Cairo i rapporti sono stati ufficialmente riallacciati. Già lo scorso luglio si erano creati i presupposti per un riavvicinamento: una nostra delegazione parlamentare, formata da tre senatori della Commissione difesa del Senato, era stata accolta amichevolmente nel palazzo presidenziale per un colloquio diretto col Presidente Al-Sisi. Lo scopo principale della visita era quello di trovare nuove soluzioni per regolare i flussi migratori e discutere la situazione della vicina Libia, divisa fra due governi antagonisti. La delegazione italiana ha comunque chiesto chiarimenti riguardo il caso Regeni e Al-Sisi ha risposto con una poco credibile promessa di verità: “Vedrete che avrete la verità. Faremo di tutto per consegnare i colpevoli dell’omicidio Regeni alla giustizia.”

Il governo italiano, chiamato a rispondere in parlamento della scelta di rimandare l’ambasciatore in Egitto, scelta comunicata alla vigilia di Ferragosto, scarica parte delle responsabilità sulla mancata verità per Regeni sull’Europa, rea di non averla supportata a dovere nella pressione sul regime. Resta il fatto che il quadretto che esce dall’inchiesta del New York Times non è per nulla edificante per l’Italia, incapace di mostrare un atteggiamento coraggioso in difesa della memoria di Giulio Regeni e vittima delle sue stesse fobie da campagna elettorale sulla fantomatica invasione di migranti.

L’importanza dell’Egitto per l’Italia

L’atteggiamento di apertura mostrato dall’Italia nei confronti dell’Egitto è da ricondurre ai diversi interessi che passano attraverso i rapporti diplomatici fra i due Paesi. In primo luogo, ci sono diverse importanti aziende italiane che si trovano a operare in Egitto. Prima fra tutte Eni che, recentemente, ha scoperto un nuovo giacimento di gas nelle acque territoriali egiziane di una portata talmente rilevante da poter diminuire sensibilmente la dipendenza dell’Italia dalla fornitura Russa.

Vi è poi la questione legata agli sbarchi e al controllo delle acque territoriali libiche: Al-Sisi è il principale amico del generale Haftar che controlla la Cirenaica e che finora ha avuto rapporti molto tesi col nostro Paese. Al momento, l’unico modo per poter dialogare col governo libico orientale sembra quello di passare attraverso una mediazione con l’Egitto. Gli attuali accordi con le tribù del Fezzan che controllano i confini meridionali della Libia non offrono garanzie sufficienti a causa dei continui conflitti interni fra le tribù stesse. Per assicurare un controllo efficace sui flussi migratori parrebbe dunque necessario stabilire accordi precisi col generale Haftar. Questa prospettiva spaventa buona parte delle associazioni umanitarie e di cooperazione internazionale: è dimostrato che il governo libico orientale pratica torture e metodi di prigionia in violazione dei diritti umani. È dunque probabile che i migranti in fuga dalla guerra possano essere trattenuti e imprigionati in condizioni inumane.

Non bisogna dimenticare, inoltre, che l’Egitto è un importantissimo attore nello scenario del Medio Oriente: fa parte del mondo sunnita ed è amico dell’Arabia Saudita, mentre non ha buoni rapporti con Turchia e Qatar, troppo vicini ai Fratelli Musulmani, strenuamente combattuti da Al-Sisi; è in buoni rapporti con gli Usa ed è anche vicina alla Russia di Putin; rispetto alle questioni relative all’Iran sciita è sempre rimasto neutrale e la sua posizione lo rende un importante interlocutore per la questione israelo-palestinese. Mantenere rapporti stretti con il Cairo rappresenta per l’Italia una garanzia per esercitare la propria influenza anche nel Medio Oriente.


16 luglio 2016
Nel 2013 il Presidente Morsi, eletto coi Fratelli Musulmani alla guida dell’Egitto, viene destituito un colpo di Stato dai militari. Il generale Abd al-Fattah al-Sisi assume il controllo ad interim del Paese, per poi venire eletto Presidente nelle elezioni del 2014. In questo triennio sono molte le ombre che hanno caratterizzato il governo dell’ex-generale egiziano.

Il regime e le sparizioni. La crescente influenza di al-Sisi in tutti gli apparati statali e il controllo degli organi di stampa da parte del governo, hanno trasformato la Repubblica Egiziana in un vero e proprio regime. Sono ormai mesi che Amnesty International muove forti accuse nei confronti dello strapotere del Presidente. Secondo un dossier pubblicato questa settimana proprio da Amnesty, fra il 2015 e il 2016 sarebbero migliaia le persone arrestate per aver manifestato la propria opposizione ad al-Sisi. Tra loro molti studenti, accademici, ingegneri e medici professionisti, sequestrati e portati in una destinazione ignota per essere interrogati e torturati. Queste torture, condotte dall’Autorità nazionale per la sicurezza, sono spesso sfociate in veri e propri delitti, prontamente insabbiati e fatti passare come fenomeni di criminalità locale. Il caso del ricercatore italiano Giulio Regeni è solo uno dei tanti esempi di sequestri finiti in tragedia.

La situazione economica: di male in peggio. Dall’insediamento di al-Sisi, l’economia egiziana ha subito una consistente recessione, con l’inflazione che ha raggiunto livelli elevatissimi. La poca trasparenza delle autorità di sicurezza nazionale (vedi il caso del volo Egypt Air) e la costante paura dei sequestri hanno contribuito fortemente al rallentamento della crescita. A risentire negativamente di questa situazione di terrore è stato sopratutto il settore del turismo, colonna portante dell’economia egiziana fin dai tempi di Mubarak. La riduzione della spesa pubblica e il rilancio di progetti per nuove infrastrutture nazionali non sono state sufficienti per spingere la ripresa economica e l’abbattimento dei livelli di disoccupazione.

La lotta al terrorismo. Malgrado il consolidamento del regime e la crisi economica, al-Sisi continua a mantenere i favori del mondo occidentale. Lo stesso premier italiano Renzi nel luglio del 2015, in un’intervista alla televisione del Qatar, Al Jazeera, definì il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi “un grande leader” e “l’unica speranza per l’Egitto”. L’atteggiamento della comunità internazionale nei confronti del leader egiziano è giustificato dalla sua lotta contro i jihadisti attivi nelle valli del Sinai e in tutta la regione araba: attraverso il coordinamento internazionale, gli aerei egiziani hanno più volte condotto raid contro le basi dell’Isis sia in Iraq che in Siria e al-Sisi non ha mai nascosto il proprio supporto al generale Haftar in Libia, principale oppositore degli estremisti in Cirenaica. La posizione strategica dell’Egitto e le difficili situazioni diplomatiche in Siria e in Libia, rendono al-Sisi uno dei più influenti interlocutori di tutto il Medio-Oriente. Un alleato prezioso per l’Occidente per ridefinire nuovi equilibri geo-politici per tutta la regione araba.

Il difficile rapporto con la Turchia. Il Presidente turco Erdogan e al-Sisi non sono mai stati in buoni rapporti a causa delle profonde differenze ideali che guidano il loro operato: Erdogan è tra i maggiori sostenitori della Fratellanza Musulmana, mentre il Presidente egiziano ne è un convinto oppositore; il primo è paranoico riguardo alla minaccia rappresentata dai propri generali (paura che si è materializzata con il tentato golpe nella notte di venerdì 15 luglio), mentre l’altro è un ex-generale che ha preso il potere con un colpo di stato ai danni di un governo con chiare simpatie islamiste; e ancora, gli sforzi della Turchia contro lo Stato Islamico sono stati decisamente blandi rispetto alla guerra senza quartiere condotta dall’Egitto nei confronti dell’Isis.

Il gelo tra Egitto e Turchia. Il leader egiziano ha più volte accusato la Turchia di aver offerto rifugio ai sostenitori di Morsi in fuga dalla stretta mortale dei tribunali egiziani mentre, dal canto suo, Erdogan ha condannato dal principio il colpo di Stato dei militari contro i Fratelli Musulmani. Riguardo le accuse lanciate da al-Sisi, il Presidente turco ha dichiarato:

Respingiamo i verdetti della giustizia egiziana. Le sentenze pronunciate contro Morsi e i suoi amici nascono da invenzioni. Queste persone sono nostri fratelli, non possiamo accettare le decisioni di un regime oppressivo.

Al momento i rapporti diplomatici fra i due Paesi sono congelati e non sembra esserci alcun segnale di disgelo. Interrogato dall’agenzia di stampa ufficiale Anadolu, secondo Erdogan “il problema con l’Egitto riguarda la sua amministrazione, in particolare il suo governante”, mentre al-Sisi continua a chiedere che la Turchia riconosca la legittimità del suo governo per tornare a confrontarsi alla pari su un tavolo diplomatico.


6 giugno 2015

Dopo l’ondata rivoluzionaria portata dalla primavera araba nel 2011, l’Egitto ha faticato a trovare un nuovo equilibrio politico: da Mubarak a Morsi, dal golpe militare alla presidenza di Abd al-Fattah al-Sisi. Ripercorriamo brevemente le tappe fondamentali dalla caduta del dittatore egiziano ad oggi per cercare di capire meglio cosa sta accadendo oggi nel paese delle Piramidi.

Da Mubarak ad oggi

L’11 Febbraio 2011 Hosni Mubarak rassegna le proprie dimissioni dalla carica di Presidente della Repubblica, dopo aver governato il Paese da dittatore per trent’anni. Si insedia, così, alla guida del Paese il Consiglio supremo delle forze armate presieduto dal militare Mohammed Hoseyn Tantawi, che si assume l’incarico di traghettare il Paese verso la democrazia. A tale scopo, vengono proposti ed approvati tramite referendum emendamenti costituzionali per favorire la democratizzazione del Paese. A vincere le successive elezioni del 2012 è il partito Fratelli Musulmani che, per la sua natura radicale, non è ben visto né dai vicini Stati Arabi laici né tanto meno da Occidente ed Israele. Il loro candidato Mohamed Morsi viene eletto Presidente dell’Egitto il 24 Giugno e manifesta fin da subito l’intento di ricostruire il Paese su forti basi religiose, ispirandosi alla Legge del Corano. Durante l’anno rimasto in carica, Morsi cerca di concentrare su di sé buona parte del potere giudiziario e si dimostra incapace di gestire la forte crisi economica dovuta soprattutto dal crollo del turismo. Per questi motivi ma soprattutto per volontà dei militari, viene destituito con un colpo di Stato il 3 luglio 2013. Al suo posto si insedia il comandante delle Forze armate egiziane, il generale Abd al-Fattah al-Sisi. I Fratelli Musulmani vengono messi fuorilegge e vengono represse in maniera violenta tutte le manifestazioni o le iniziative in favore del Presidente deposto. Le proteste porteranno numerosi arresti e le successive condanne a morte dei dirigenti di Fratelli Musulmani, Morsi incluso. Durante la gestione dei militari viene approvata una nuova Costituzione al fine di reprimere le correnti islamiche dell’opposizione e garantire la laicità delle istituzioni. Nel 2014 Al Sisi si presenta come candidato indipendente alle elezioni presidenziali. Viene eletto Presidente dell’Egitto col un risultato plebiscitario del 96,91%.

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Cosa succede in Egitto?

Politica interna

L’ex-militare si presenta come promotore dell’integrazione delle diverse culture e religioni che sono presenti nel Paese. Sta cercando di affrontare la crisi economica e promuovendo una completa laicizzazione delle istituzioni. Sono forti però le denunce sulla mancata tutela dei diritti umani e la violazione delle più elementari regole democratiche da parte dell’amministrazione di Al Sisi. La comunità internazionale ha infatti aspramente criticato la decisione di applicare la pena di morte contro gli oppositori politici legati all’ex-dittatore Mubarak e ai fedeli di Fratelli Musulmani. Inoltre, secondo molti osservatori le disposizioni sulla legge elettorale volute da Al Sisi durante il suo primo incarico di transizione e la limitazione della libertà di stampa (a suo dire per contrastare l’arruolamento dei militanti fondamentalisti), hanno riportato l’Egitto verso un autoritarismo de facto molto vicino a quello di Mubarak. Nella sua lotta contro l’islamizzazione dello Stato, l’attuale Presidente ha eliminato dalla scena politica quelli che erano i suoi principali avversari (basti pensare alla condanna a morte del deposto Morsi), lasciando l’opposizione senza alcun leader. Malgrado l’evidente mancanza di democrazia nel paese, come denunciato da esponenti importanti del mondo della cultura egiziana, la comunità internazionale si è limitata ad ammonire Al Sisi poiché ritenuto un governo amico e per le posizioni apertamente anti-fondamentalismo islamico, che rappresentano una “garanzia” per l’occidente nei delicati equilibri del Medio-Oriente.

Politica estera e rapporti internazionali

Sul fronte esteri, l’amministrazione di Al Sisi presenta alcuni elementi di discontinuità rispetto al passato. Anche dopo la caduta di Mubarak, i Presidenti di transizione e lo stesso Morsi hanno mantenuto buoni rapporti con l’occidente consci del ruolo delicato dell’Egitto negli equilibri in Medio-Oriente e della propria debolezza rispetto alle pressioni americane. Il nuovo Presidente invece ha scelto di congelare i rapporti con l’America, trovando un nuovo interlocutore nella Russia di Putin. Malgrado questo spostamento verso oriente, molte posizioni di al-Sisi rimangono in linea con quelli che sono gli interessi occidentali (sopratutto americani) legati al Medio-Oriente. La ritrovata laicità delle istituzioni e il sentimento anti-fondamentalista del suo Presidente, hanno portato l’Egitto in prima linea nella lotta all’Isis: nei mesi passati, le forze egiziane sono state le prime cercare di limitare l’espansione dello Stato Islamico in Libia attraverso numerosi interventi di terra e Al Sisi in prima persona ha chiesto un intervento dell’Onu per trovare una soluzione corale con le forze estere. È evidente che al di là delle dichiarazioni, l’Egitto ha molto interessi nello scenario libico e non ha intenzione di stare a guardare che succede. Per quanto riguarda Israele e Palestina le posizioni del Presidente egiziano non sono in contrasto con quelli dei governi occidentali: la condanna di Hamas è chiaramente legata alla vicinanza del movimento ai Fratelli musulmani, da cui nasce. La preoccupazione della giunta per il destino incerto del popolo palestinese rimane a parole, vista la chiusura delle frontiere e l’accerchiamento di Gaza, a cui l’Egitto contribuisce. La priorità di Al Sisi è quella di mantenere buoni rapporti con Israele. Dal punto di vista della comunità internazionale, il nuovo ras egiziano non rappresenta quindi un pericolo per gli equilibri del Medio-Oriente e potrebbe diventare una risorsa preziosa per mantenere la stabilità della regione. Di quello che succede dentro il Paese e della democrazia, ai cosiddetti governi occidentali, importa poco: se sono governi “amici” basta voltarsi dall’altra parte.

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