Site icon Le Nius

Che dire quindi del reddito di cittadinanza?

Reading Time: 7 minutes

Dunque, è arrivato.

Fa sempre un certo effetto quando cose di cui si parla così tanto diventano effettive. Sembra che siamo talmente abituati a parlarne che non possano che rimanere per sempre così: cose di cui parlare. Invece, a volte, esistono anche: l’Italia ha una misura di reddito di cittadinanza.

Lo apprendo in una sera di gennaio mentre seduto sul tanto vituperato divano seguo la conferenza stampa del tridente Conte – Salvini – Di Maio, apprezzando la linea grafica delle “tavole di sintesi”, come il premier Conte ha romanticamente ribattezzato le slide.

Cerco di carpire, dalle slide e dalle parole di Di Maio, le logiche, le modalità, le possibili conseguenze di una misura del genere, e metto insieme quello che ne ho capito con alcune analisi che ho letto e con qualche mia modesta conoscenza precedente in materia per sottolineare alcune cose, che poi spiego ma che intanto riassumo così:

1. Bene, è una cosa buona e un’ottima notizia.
2. Un programma simile, il REI, però c’era già ed era meglio proseguire con quello.
3. Non sembra né troppo assistenzialista né troppo lavorista, ma chi può dirlo davvero.
4. Di certo il tono è molto paternalista, ma ce ne faremo una ragione.
5. Sembra poco credibile che lo Stato sia in grado di offrire milioni di posti di lavoro, cosa che si impegna a fare con i beneficiari del RdC.
6. Chissà che effetti avrà sul mercato del lavoro: le aziende vorranno davvero assumere i beneficiari del RdC? E se lo fanno, non è che altri resteranno disoccupati?
7. C’è una certa vena discriminatoria nei confronti degli stranieri, in quel criterio dei dieci anni di residenza.
8. Forse era il caso di differenziare i sussidi in base al territorio di residenza.
9. Le pensioni di cittadinanza vanno benissimo.
10. Non è ancora chiaro come si sostiene economicamente un programma del genere.
11. Comunque, vedremo.

Qualche nota sul Reddito di Cittadinanza

@Governo Italiano | Presidenza del Consiglio dei Ministri

È una cosa buona

Che l’Italia abbia una misura di sostegno al reddito delle persone in povertà, è una cosa buona. Va sottolineato in ogni dove, perché gran parte degli studiosi di welfare ha sempre evidenziato che era uno dei pochissimi paesi europei ad esserne privi e che era auspicabile che la introducesse. Si chiama reddito di cittadinanza per motivi puramente propagandistici, ma non è un reddito di cittadinanza bensì un reddito minimo garantito, come abbiamo spiegato qui. Ma va bene comunque.

Era meglio andare avanti con il REI

Dunque, bene, anche se in realtà una misura del genere ce l’abbiamo dal 2017, si chiama Reddito di Inclusione (REI) ed era stata introdotta dal governo Gentiloni dopo un periodo di sperimentazione avviato sotto i governi Letta e Renzi.

Ecco, la cosa migliore sarebbe stato proseguire con l’esperienza del REI. Ci vogliono mesi se non anni a costruire procedure e prassi condivise e formare tutto il personale impiegato nella filiera: dirigenti e impiegati di INPS, Centri per l’impiego, sindacati, servizi sociali. Ora che tutto questo personale ha sviluppato un certo know-how su come gestire il REI, il REI sparisce, e giù da capo con un nuovo know-how da apprendere.

Allo stesso modo, per valutare l’efficacia di misure del genere ci vogliono anni. A partire da marzo 2018 vengono pubblicati ogni tre mesi i dati sul funzionamento del REI, e sarebbe stato interessante utilizzare quei dati per migliorare quella misura, piuttosto che introdurne un’altra. Ma si sa, ogni governo ha bisogno di intestarsi qualcosa, soprattutto governi che vivono di retorica come questo.

Prevede percorsi diversi per profili diversi

Lo schema di reddito di cittadinanza (RdC) approvato dal governo è stato criticato da alcuni per essere troppo welfarista, cioè di essere un possibile incentivo a non lavorare e vivere di sussidi, da altri per essere troppo lavorista, cioè di avere un’ottica spinta di attivazione al lavoro come nell’approccio liberista al welfare state.

In realtà, a quanto pare lo schema prova a fare sintesi tra i due approcci in modo, almeno sulla carta, interessante. Stando alle ormai mitiche “tavole di sintesi”, ci sono tre tipi di percorso che possono essere attivati in base al profilo dei beneficiari del reddito di cittadinanza:

In teoria il Patto per il Lavoro risponde alle esigenze di chi viene ritenuto “pronto per lavorare” – certo va poi capito in base a quali criteri – il Patto per la Formazione per chi si ritiene che per essere occupabile sul mercato del lavoro abbia bisogno di ricevere formazione, il Patto per l’Inclusione Sociale risponde ai bisogni di chi non è ritenuto nelle condizioni di poter accedere al mercato del lavoro.

Tralasciando un attimo la confusissima questione delle otto ore settimanali di lavori socialmente utili, in questo modo viene garantito un sostegno al reddito diversificato in base al profilo dei beneficiari. Certo, il tono delle slide – e di Di Maio ogni volta che parla – appare fastidiosamente paternalistico, di chi ti tratta come un figlio un po’ sbandato e decide per il tuo bene, ma potremo passarci sopra se poi verrà fatta una valutazione seria e condivisa della situazione di ciascun beneficiario.

Rimangono aperte però questioni molto importanti: chi decide il tipo di patto e in base a quali criteri? Coloro che sottoscrivono un patto per la formazione ricevono comunque offerte di lavoro o prima devono formarsi? Chi sottoscrive un patto per l’inclusione riceve comunque il reddito di cittadinanza per 18 mesi oppure lo riceve a vita dato che non può accedere autonomamente a un reddito lavorando? Come si integra il RdC con altri sussidi già erogati dal sistema di welfare?

Dove troviamo tutto questo lavoro da offrire ai beneficiari del RdC?

Questo appare senza dubbio come il nodo principale del programma, nonché la grande scommessa di chi lo ha pensato. Secondo le elaborazioni di Svimez, dei circa 5 milioni di potenziali beneficiari del RdC 1,7 milioni sarebbero per diverse ragioni non in condizione di lavorare. Restano quindi 3,3 milioni di persone che, non potendo restare sul divano, dovrebbero ricevere almeno un’offerta di lavoro entro 18 mesi, anzi potenzialmente nei primi 12 mesi di adesione al programma.

Ma dove sono questi 3,3 milioni di posti di lavoro? Naturalmente è un numero simbolo, è probabile che saranno poi effettivamente di meno ma siamo comunque nell’ordine di milioni di offerte di lavoro che lo Stato è obbligato a trovare per ciascuno dei beneficiari del RdC.

Non è chiaro infatti cosa succederà se lo Stato non sarà in grado di offrire nessun lavoro nei 18 mesi di durata del RdC: continuerà ad erogare il reddito? Si interromperà comunque? E se le offerte di lavoro non si trovano per centinaia di migliaia di persone come si farà con i costi che lievitano?

Che effetti può avere sul mercato del lavoro?

L’altra questione riguarda i possibili effetti distorsivi sul mercato del lavoro. Non sono un economista né tantomeno un esperto di dinamiche del mondo del lavoro ma mi pare che l’applicazione di un programma del genere, che prevede anche incentivi fiscali per le aziende che assumono i beneficiari del RdC, possa avere tre conseguenze.

La prima: anche ipotizzando che le aziende rispondano positivamente e si mettano alla ricerca di beneficiari di RdC da assumere, non possono certo inventarsi il lavoro, soprattutto nelle aree d’Italia afflitte da altissimi tassi di disoccupazione e un contesto economico stagnante. Al massimo possiamo aspettarci che dalle regioni dove c’è più lavoro, nel centro-nord Italia, arrivino offerte di lavoro ai beneficiari di RdC del sud, che a quel punto potrebbero essere addirittura costretti ad emigrare magari per lavori mal pagati, dovendo accettare l’offerta per non perdere il reddito di cittadinanza.

La seconda: sempre ipotizzando che le aziende siano felici di assumere i beneficiari di RdC per godere dei benefici fiscali, gli altri chi li assume più?

La terza: non credo che le aziende saranno felici di assumere i beneficiari del RdC. Vero che ci sono gli incentivi per un primo periodo ma qui si tratta di assumere a tempo indeterminato una persona solo perché riceve il reddito di cittadinanza. Le aziende puntano sempre più su persone qualificate e specializzate, che difficilmente saranno nella platea del reddito di cittadinanza.

È discriminatorio verso gli stranieri

Il criterio dei 10 anni di residenza è una barriera molto elevata costruita apposta per escludere dalla platea di beneficiari molti cittadini stranieri. Un criterio che potrebbe anche essere oggetto di ricorsi, dato che l’Unione Europea aveva dato in passato indicazioni molto chiare rispetto al fatto che per i servizi e sussidi di assistenza sociale di base il criterio dovesse essere non superiore ai 5 anni.

L’Unione Europea è preoccupata in particolare del fatto che i cittadini comunitari possano godere dei diritti sociali di base anche in altri paesi UE, ma la questione riguarda anche gli extracomunitari e, in modo abbastanza grottesco, anche gli italiani.

Volendo infatti innalzare al massimo la soglia del criterio di residenza per gli stranieri, il governo ha alla fine deciso di innalzarla per tutti, italiani compresi, per non essere colto in palese discriminazione. Ne deriva che anche i cittadini italiani che hanno trasferito la residenza all’estero negli ultimi dieci anni sono esclusi dai destinatari del provvedimento.

780 euro non sono uguali ovunque

Capisco la necessità di semplificare qualcosa che già di per sé è complicatissimo, ma 780 euro a Milano non sono paragonabili a 780 euro nel borgo contadino delle province del sud ma anche del centro e del nord. Un criterio di adeguamento del contributo in base al territorio di residenza sarebbe forse stato più equo.

La pensione di cittadinanza ci voleva

Anche qui, abbiamo a che fare con una bella infornata di retorica propagandistica. Più semplicemente, sono state alzate le pensioni minime per i pensionati che vivono sotto la soglia di povertà. Che è una grande cosa, perché erano bassissime. Erano circa 500 euro al mese, ora il riferimento è la quota di 780 euro, variabile in base alla composizione del nucleo e al patrimonio immobiliare.

Ma quanto costa tutto questo?

Di Maio e Salvini nella conferenza stampa di presentazione dei provvedimenti su reddito di cittadinanza e quota 100 si sono affrettati a mettere a tacere coloro che, a detta loro, “dicevano che non si poteva fare”.

Ovviamente il fatto che queste misure siano diventate legge non cambia di una virgola quelle critiche, che non intendevano dire che non si poteva fare in termini assoluti, ma in termini di sostenibilità economica dei provvedimenti. Sostenibilità economica che è ancora tutta da dimostrare.

Come ci ricorda Cottarelli, infatti, al momento l’unica copertura economica certa è l’aumento dell’Iva nel 2020 nel caso in cui non si trovino altre strade che, se come pare la crescita economica prevista nella Legge di Bilancio non ci sarà, occorrerà individuare sempre e comunque in un modo: aumentando le tasse.

Comunque, si vedrà

Non è banale retorica, ma misure del genere attivano variabili complesse, solo parzialmente prevedibili e verificabili solo tra alcuni mesi, al massimo anni. Nel frattempo, godetevi lo show.

CONDIVIDI
Exit mobile version