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Cittadinanza, ius soli, ius culturae | 10 domande e 10 risposte

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Il 1 luglio 2017 abbiamo pubblicato un articolo che presentava i dati sulle acquisizioni di cittadinanza in Europa, articolo poi aggiornato ogni anno, spiegando i dati e mettendoli in relazione con la proposta di riforma della cittadinanza avviata nel 2015 per introdurre i principi dello ius soli temperato e dello ius culturae, che si è però poi arenata.

L’articolo ha raccolto diversi commenti, sia sul sito sia, soprattutto, sulla nostra pagina Facebook. Canali ottimi per aprire discussioni, meno per dare agli argomenti la giusta profondità. Per questo abbiamo pensato di raggruppare le principali questioni in 10 domande a cui diamo la nostra risposta con la profondità che merita.

Perché Le Nius si fa anche con il contributo dei lettori, in una relazione che cerchiamo di mantenere aperta e in continuo divenire. Per questo se alle 10 questioni volete aggiungerne altre fatelo nei commenti, e cercheremo di affrontarle.

1. Ma non è sufficiente la legge che c’è?

Molti commenti sottolineano che l’Italia ha già una legge sulla cittadinanza che consente a molte migliaia di persone all’anno di ottenerla. Lo abbiamo scritto anche noi, molti stranieri stanno effettivamente acquisendo la cittadinanza italiana con la legge attuale.

Non è quindi tanto una questione di numeri, ma di principi e profili, anche se i numeri non sono secondari: secondo le stime diffuse dalla Fondazione Leone Moressa, i potenziali nuovi cittadini con la riforma sarebbero circa 800 mila.

Ma chi sono questi potenziali nuovi cittadini? Sono bambini, ragazzi, giovani, giovani adulti che nascono in Italia, crescono in Italia, studiano nelle scuole e università italiane, spesso fanno da ponte tra la loro famiglia e la società italiana.

È un gruppo che fatica ad ottenere la cittadinanza con la legge attuale, perché i loro genitori non sono cittadini italiani oppure perché lo sono diventati “troppo tardi”, quando cioè il figlio era già maggiorenne e non poteva più acquisirla per trasmissione.

È il caso della famiglia di Mohamed, che racconta la sua storia alla giornalista Francesca Caferri nel libro-inchiesta Non chiamatemi straniero. Viaggio fra gli italiani di domani*. Quando il padre ha ottenuto la cittadinanza, il fratello minorenne l’ha acquisita per trasmissione ma lui no, in quanto maggiorenne. Ora parla della situazione in questi termini:

È cittadino lui che ogni volta che ha a che fare con la burocrazia mi chiede aiuto, ma io no.

2. I ragazzi possono già prendere la cittadinanza a 18 anni. Dov’è il problema?

All’obiezione appena posta, alcuni commenti rispondono evidenziando come i minori possono prendere la cittadinanza italiana senza troppe difficoltà al compimento del diciottesimo anno. È vero, così come molti minori stanno prendendo la cittadinanza per trasmissione dai genitori che a loro volta la ottengono. Ci sono però almeno quattro questioni da tenere in considerazione.

La prima: la cittadinanza a 18 anni la può prendere solo chi è nato in Italia, non chi è arrivato dopo la nascita, fosse anche un mese dopo la nascita. Questi ultimi devono seguire le normali procedure, ossia avere dieci anni di residenza, fare domanda, aspettare altri anni affinché l’iter si concluda.

Nel frattempo devono ricorrere a permessi per motivi di studio o lavoro, dimostrando di avere un reddito sufficiente a mantenersi, cosa non facile se pensiamo alle difficoltà di ingresso nel mondo del lavoro dei giovani oggi, che passano spesso per tirocini, apprendistati, impieghi precari.

Molte opportunità di studio e lavoro poi sfumano proprio perché non si è cittadini italiani: concorsi pubblici, carriere politiche e diplomatiche, borse di studio, partecipazione a congressi internazionali.

La seconda: la legge attuale richiede ai nati in Italia la residenza continuativa e legale fino ai 18 anni per poter ottenere la cittadinanza. Significa che il minore nato in Italia deve sempre aver avuto la residenza in Italia per tutti i suoi 18 anni di vita.

Non sono pochi i ragazzi che questo requisito non ce l’hanno, e non certo a causa di loro scelte. Perché hanno trascorso anche pochi mesi nel paese di origine seguendo i genitori rientrati nel loro paese salvo poi tornare in Italia. Perché, ancora, i genitori hanno tentato fortuna in altri paesi anche per un breve periodo.

Perché ci sono stati errori nella registrazione della residenza, o di cambi di residenza, o situazioni ai limiti della legalità. È il caso, riportato nell’inchiesta di Caferri, delle centinaia di ragazzi che a Napoli hanno vissuto buona parte dei loro 18 anni in abitazioni prive di idoneità abitativa, di contratti di affitto regolari, di certificati di residenza come capita a Napoli ma anche altrove, e che si sono visti per questo rifiutare la loro domanda di cittadinanza.

Questi disagi sono stati limitati, ma non certo eliminati, a partire dal 2013 con l’introduzione di una norma voluta dall’allora ministro Kyenge in base alla quale lo straniero a cui non sono imputabili inadempimenti riconducibili ai genitori o agli uffici della pubblica amministrazione può dimostrare il possesso dei requisiti con ogni altra idonea documentazione.

La terza: aspettare di avere 18 anni per diventare cittadino italiano comporta comunque dei disagi. Il cortocircuito identitario tra percezione di sé e status giuridico è il più immediato, anche se il meno misurabile.

Ci sono però anche piccoli e grandi ostacoli molto concreti. La presenza del minore sul territorio è sempre legata al destino dei genitori; se i genitori perdono il lavoro, o il contratto di affitto, o per qualsiasi altro motivo non riescono più a rinnovare il loro permesso di soggiorno, anche il minore ne subisce le conseguenze, fino all’estremo di dover lasciare l’Italia, dove è nato e sempre vissuto.

Il permesso di soggiorno è un documento che consente di accedere ai diritti sociali (come sanità e istruzione) e di spostarsi nell’area Schengen, ma è temporaneo e richiede tempi anche lunghi per il rilascio e il rinnovo, tempi durante il quale la persona non può viaggiare all’estero. Questo ha impedito in molti casi ai minori stranieri di partecipare, al pari dei loro compagni, a gite e viaggi di istruzione con la scuola, oltre a limitare la loro libertà di movimento nella vita privata.

Un altro ambito di discriminazione per i minori stranieri è quello sportivo; la cittadinanza italiana è infatti requisito non solo, ovviamente, per poter ambire a entrare nelle squadre nazionali, ma anche in alcuni casi riportati dalle cronache, per poter partecipare a tornei e manifestazioni sportive.

La quarta: il fatto che molti minori e neo diciottenni stiano prendendo la cittadinanza non significa che non ce ne siano molti altri che invece non la stanno prendendo, per i motivi e con i disagi appena riportati.

3. E se poi diamo la cittadinanza ai minori, la ottengono in automatico anche i genitori?

Un timore diffuso in alcuni commenti è quello che la riforma della legge sulla cittadinanza possa rappresentare una sorta di naturalizzazione di massa dal basso, che partendo dai minori passa direttamente ai genitori.

Non è così. Ad ottenere la cittadinanza italiana sarebbe solo il minore, senza alcuna trasmissione diretta ai genitori.

4. Quindi creiamo famiglie spaccate come nazionalità?

Sì, creiamo quelli che Gian Carlo Blangiardo su Neodemos ha definito i “minori scompagnati”, ragazzi e ragazze italiani che vivono con genitori e fratelli di altre nazionalità.

La cosa però non è di per sé un problema, come spiega Chiara Saraceno sempre su Neodemos. In fondo, scrive la sociologa, in paesi come Francia e Stati Uniti lo ius soli vige da molto tempo, e non risultano spaccature familiari tali da generare problemi sociali.

Peraltro, continua Saraceno, la legge attuale non è da meno nel creare disuguaglianze all’interno delle famiglie. Quando acquisiscono la cittadinanza italiana, i genitori la trasmettono ai figli minorenni ma non ai maggiorenni, che magari sono “italiani” allo stesso modo dei loro fratelli minori.

È il caso già raccontato della famiglia di Mohamed, l’unico in una famiglia di quattro persone ad essere rimasto marocchino, lui che è in Italia da quando aveva tre anni ma che era già maggiorenne quando il padre ha ottenuto la cittadinanza.

Va detto anche che in molte famiglie è già il minore che “guida” i genitori in Italia, che fa da ponte tra cultura di origine e di adozione, che traduce i documenti ai genitori, compila i moduli, li aiuta a fare la spesa, o a comprendere il funzionamento del sistema scolastico.

@Laurie Shaull

5. Ma non ci vorrebbe una verifica del livello di integrazione prima di dare la cittadinanza?

Questa domanda è spesso posta non in modo così edulcorato nei commenti, anzi non è nemmeno posta come domanda ma come affermazione: così diamo la cittadinanza a cani e porci, bisogna che prima dimostrino di essere integrati!

Questo genere di commenti è abbastanza paradossale, perché la riforma va proprio in questa direzione, puntando a riconoscere come cittadini coloro che sono più “integrati”, se proprio si vuole usare questa espressione.

La riforma infatti adotta il principio dello ius soli temperato. Questo significa che non tutti coloro che nascono in Italia possono diventare cittadini. Non basta, come dicono alcuni accaniti commentatori, “sbarcare da un barcone e fare un figlio in Italia” perché quest’ultimo sia cittadino del nostro paese. Non solo non basta, ma ce ne corre di strada.

Occorre infatti che almeno uno dei due genitori sia titolare del diritto di soggiorno permanente o del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo. Sono documenti che necessitano di tempi e requisiti non facili da avere: bisogna aver soggiornato legalmente nel paese per almeno cinque anni, dimostrare di avere un reddito pari almeno all’importo dell’assegno sociale, avere un alloggio idoneo, superare un test di conoscenza della lingua. Non uno scherzo insomma, a maggior ragione per il migrante “appena sbarcato dal barcone”.

Anche il nuovo principio dello ius culturae introdotto dalla proposta di riforma va esattamente in questa direzione: possono infatti chiedere la cittadinanza italiana coloro che hanno frequentato almeno cinque anni di scuola in Italia essendo residenti nel nostro paese da prima dei 12 anni.

Il senso dello ius culturae è proprio quello di far diventare cittadini i potenzialmente “più integrati”, che hanno studiato, respirato e vissuto la “cultura italiana” fin da piccoli, studiando la lingua e frequentando lo spazio di trasmissione di una cultura per eccellenza: la scuola.

Non sembra quindi che ci sia il rischio di dare la cittadinanza a chiunque, né di darla a persone “non integrate”, qualsiasi cosa questa espressione voglia dire. Casomai, c’è il rischio contrario, quello di generare sempre più dis-integrati, ragazzi che di fronte ai problemi identitari, sociali ed economici dati dalla condizione di non cittadini in cui vivono, non hanno le spalle abbastanza forti, e reagiscono con rabbia, isolamento, rifiuto.

Non che la cittadinanza risolva tutte le tensioni, come insegna il caso francese. È però un segnale politico importante, purché anche gli ambiti dell’integrazione sociale ed economica siano continuamente presidiati.

6. Ma poi agli stranieri siamo sicuri che interessa?

Qualcuno, non attraverso i commenti su questi sito, mi ha posto questa domanda, che effettivamente è una bella domanda. La risposta sembra che sia: “dipende dalla nazionalità e dai progetti migratori”.

Analizzando i dati scopriamo che ad oggi ad usufruire della possibilità di acquisire la cittadinanza italiana sono soprattutto albanesi e marocchini, sia in termini assoluti che relativi rispetto al numero dei residenti (circa 80 naturalizzati ogni mille residenti). Alto il tasso di acquisizione anche di persone provenienti da Macedonia, Pakistan e Bangladesh.

Spicca invece lo scarso interesse mostrato dalle comunità asiatiche, come i cinesi e i filippini, e la spiegazione è semplice: per loro acquisire la cittadinanza italiana significa perdere quella di origine, perché i loro paesi non consentono la doppia cittadinanza.

La scelta dipende anche dai progetti migratori delle comunità di stranieri e di ciascuno di loro. Poche donne ucraine, ad esempio, prendono la cittadinanza, perché il loro progetto di vita è di stare in Italia alcuni anni per guadagnare a sufficienza per poi tornare nel proprio paese di origine.

Altri immigrati addirittura decidono di prendere la cittadinanza per andarsene dall’Italia. Sembra paradossale, ma una volta ottenuto il passaporto italiano possono proseguire il loro percorso migratorio verso mete più agognate, come successo a circa 24 mila persone tra il 2012 e il 2016, oppure a ragazzi come Michael, cinese nato a Prato intervistato nel reportage di Caferri che, a differenza di molti suoi connazionali, intende prendere la cittadinanza italiana perché ritiene che questo possa agevolarlo nei suoi progetti di vita: studiare negli Stati Uniti e avere un doppio passaporto, italiano e americano, cosa che gli consentirebbe di “girare il mondo senza problemi”.

Certo, questi dati riguardano le acquisizioni di cittadinanza con l’attuale legge, ma è credibile pensare che le cose non cambierebbero con la riforma: semplicemente, a qualcuno interessa, ad altri no. Non importa comunque quanti degli 800 mila potenzialmente interessati dalla riforma chiederebbero effettivamente la cittadinanza, ciò che importa sono i principi e i diritti che vogliamo adottare come società, posta la libertà delle persone di esigerli o meno.

7. Come funziona negli altri paesi?

Ricorrono sul sito e su Facebook commenti relativi ai meccanismi di concessione della cittadinanza in altri paesi, soprattutto europei. Ne abbiamo parlato qui.

La legge italiana attuale è tra le più restrittive, su questo concordano praticamente tutti gli analisti, per almeno tre motivi. Il primo, i nati in Italia da genitori stranieri devono aspettare i 18 anni per fare domanda, hanno solo un anno per farla, devono dimostrare una residenza continuativa e legale; secondo, chi non è nato in Italia non ha corsie preferenziali a meno che i suoi genitori non vengano naturalizzati prima che diventi maggiorenne; terzo, occorrono dieci anni di residenza per ottenere la cittadinanza, mentre in molti altri paesi ne bastano cinque.

La legge, anche dopo l’eventuale riforma, non spalancherebbe certo le porte, adottando un principio di ius soli temperato che lega la concessione della cittadinanza ai nati in Italia da genitori stranieri al possesso di requisiti non facili da possedere in termini di anni di residenza, reddito, lavoro, casa.

8. Il Partito Democratico vuole fare la riforma per ottenere più voti?

Nonostante il Partito Democratico non si stia dimostrando così compatto nel portare avanti la riforma, in alcuni commenti si ipotizza che il Pd, e più in generale i partiti di sinistra, vogliano far passare la legge per allargare il proprio bacino elettorale, nell’ipotesi che la grande maggioranza di coloro che diventerebbero italiani grazie alla riforma voterebbe proprio Pd.

Questa tesi non è mai stata supportata da alcun dato. L’unica ricerca svolta in Italia sui voti dei nuovi cittadini è stata realizzata da Ismu in occasione delle elezioni provinciali di Milano del 2009, in cui votarono circa diecimila cittadini diventati italiani nei cinque anni precedenti.

Ebbene, secondo il sondaggio di Ismu la distribuzione del voto degli ex stranieri è molto simile a quella degli italiani, con differenze significative in base alla nazionalità di origine: più tendenti a votare a sinistra africani e sudamericani, più vicini alla destra filippini ed europei dell’est.

Naturalmente non possiamo trarre alcuna conclusione valida oggi da quell’unica ricerca di molti anni fa. Le variabili in gioco sono molte, e non dipendono certo solo dalla nazionalità di origine, ma anche dall’offerta politica e dalla condizione socio-economica di ciascuna persona e famiglia.

Non si può infatti pensare che le differenze di classe, età, genere, istruzione, reddito che influiscono sul voto degli italiani non lo facciano anche su quello degli (ex) stranieri. Nel tempo, il voto dato “perché ex straniero” si trasforma in voto “perché italiano” ed è dunque sempre più influenzato da fattori come la posizione sociale e il livello di istruzione, come è per tutti noi.

9. Gli italiani sono favorevoli o contrari alla riforma?

L’idea che “gli italiani non vogliono la riforma” serpeggia in molti commenti. Ma è davvero così? In realtà non lo sappiamo e, come al solito, dobbiamo rifarci all’imperfetto mondo dei sondaggi.

Nel 2012, secondo una ricerca Istat, ben il 72% degli italiani si dichiarava favorevole al riconoscimento della cittadinanza italiani ai figli di immigrati nati nel nostro paese, e addirittura il 91% riteneva giusto che gli immigrati potessero ottenere la cittadinanza dopo un certo numero di anni di residenza regolare.

Poi l’Italia ha visto aumentare in maniera importante il numero di stranieri in arrivo, trasformando l’immaginario della popolazione rispetto al tema, alimentato dalle solite strumentalizzazioni politiche e mediatiche. E poco importa che i nuovi cittadini non sarebbero certo i nuovi arrivati, né che i dati sulla presenza straniera in Italia rimangano a livelli più bassi che in altri paesi europei.

Cinque anni dopo, un sondaggio realizzato da Ipsos per il Corriere della Sera a giugno 2017 mostra una situazione ribaltata: la percentuale di italiani favorevole alla cittadinanza per i figli di stranieri nati in Italia scende al 44%, con una netta polarizzazione delle opinioni tra elettori del Pd (favorevoli per il 78%) e di Forza Italia e Lega (contrari per l’86%). L’elettorato del Movimento 5 Stelle risulta più diviso, con un 42% di favorevoli e 58% di contrari.

Va detto per correttezza che le due ricerche non sono paragonabili, per le metodologie diverse con cui sono state condotte: la ricerca Istat è stata svolta mediante somministrazione diretta di un questionario a 7.725 famiglie, dopo un’indagine pilota su mille persone per tarare al meglio le domande, mentre la ricerca Ipsos è stata svolta raccogliendo circa mille interviste telefoniche. Certamente la differenza tra i dati esperime comunque una chiara tendenza.

10. Siete una cooperativa rossa finanziata da Soros implicata nel business dei migranti??!???!???

No. Ma se vuoi finanziarci, George, non hai che da cliccare qui.

Leggi le nostre storie di italiani senza cittadinanza

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