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Secessionismo veneto: nessuno si salva da solo

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I soliti veneti. Prima si fanno notare per il tentativo di bandire i mendicanti dai centri storici. Poi mettono su un referendum fatto in casa con cui dichiarano che l’89% in regione è pro-secessione. Infine, non contenti, si fanno arrestare per avere macchinato ai danni dello Stato, con mezzi pittoreschi quanto potenzialmente inquietanti, sventolando la mai sfilacciata bandiera del secessionismo veneto.

Che disastro. Una regione egoista, isolazionista ed ignorante. Come sempre. Schei e basta. A questa rappresentazione pare aderire anche la più pensosa cultura locale, come nel cupo film Piccola patria di Alessandro Rossetto o, per la letteratura, in Cartongesso, romanzo di Francesco Maino, recente vincitore del premio Calvino.

Di tutto questo calderone che ribolle nel nord est italico mi vorrei soffermare qui sulla questione del secessionismo veneto e in particolare sui suoi effetti sull’idea stessa di Veneto (e di veneti).

Secessionismo veneto: inizi e sviluppi

A 5 chilometri da dove abito, a Noventa di Piave (VE), una vecchia casa colonica abbandonata porta ancora ben visibile la scritta “Fronte Marco Polo”, uno dei cento movimenti, gruppi e gruppuscoli che hanno sposato a vario titolo la causa del secessionismo veneto.

Ebbene, quella scritta è di almeno trent’anni fa. Questo per dire che il fermento localista o “venetista” ha radici lontane, che la crisi attuale ha riportato crudamente alla luce. Almeno a partire dal “miracolo Nord Est” degli anni sessanta e settanta il benessere economico, costruito per lo più con la forza del proprio lavoro e della coesione sociale, ben oliati dalle provvidenze acquisite per il tramite della Democrazia Cristiana, ha diffuso l’opinione che “si poteva farcela da soli, ostrega!“.

In particolare si diffuse l’idea che i veneti dessero allo Stato molto di più di quanto ricevevano, idea confortata anche dal dato recente (2011) sulla spesa in servizi pubblici per abitante divisa per regioni, che denota come Veneto e Lombardia siano le regioni a minor spreco di pubblici denari. E suffragata anche dalla quota di spesa pubblica che ogni regione riceve, in rapporto alle tasse pagate: ancora veneti e lombardi tra gli ultimi. I popoli della Lega Nord.

Già, la Lega. Doveva pensarci lei a coagulare il malcontento regionale e ad indirizzarlo verso una realistica autonomia. Si è visto come abbia fallito, in tanti anni di lotta e di governo. Così il secessionismo veneto, un brusio carsico mai spento, ha ripreso quota. La sua fiamma è tornata a bruciare, attizzata proprio dalla crisi.

In realtà non si era mai affievolita, anche per la delusione verso i leghisti e le loro promesse disattese. C’è sempre stato, nel Veneto degli ultimi decenni, chi voleva di più: più autonomia, la voglia di stare in pace, da soli. Se si era tanto bravi a condurre casa, capannone e orto, perché non ambire ad amministrare da soli anche l’intera regione?

Secessionismo veneto: dalle paure alle soluzioni

A questo punto è doverosa una distinzione. C’è il secessionismo grottesco, casereccio, che ricorda i marginali dei film di Mazzacurati, di molti degli arrestati a inizio mese, così come di coloro che nel 1997 assalirono Piazza San Marco con il ferrigno Tanko. E che un poco di armi le maneggiano, il che non mi piace troppo.

Costoro vogliono non l’autonomia del Veneto, ma addirittura il ripristino della Serenissima Repubblica implosa 217 anni or sono. Qualcosa fuori tempo massimo, valido al limite come richiamo simbolico, spinta culturale, radice identitaria. Le protettive ali del Leon de San Marco

Tuttavia sono una spia semiseria di qualcosa che invece è ben più reale, sostanzioso, concreto. Nel Veneto c’è ancora la voglia di fare, seppur fiaccata dalla crisi. C’è ancora un po’ di senso della solidarietà, come testimoniano i dati Istat sul non profit, che vedono la regione come una delle più attive. Certo, ogni pregiudizio nasconde sempre una parte di verità.

La verità è che la paura c’è. Di perdere il benessere. Del nuovo, anche. Di mettersi assieme, di far rete. C’è l’eterna fatica a dirsi, a rappresentarsi, a dar voce sensata ai propri problemi. Ma ci sono anche i fatti. E i fatti dicono che in una regione che soffre (anche) della concorrenza delle due a statuto speciale con cui confina (Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia), attigua all’Austria e vicina alla Slovenia con le loro sirene di burocrazia semplice e minor imposte, il vento secessionista soffierà sempre.

A meno che. A meno che non venga ripristinato un minimo principio d’equità per cui chi più coopera all’economia nazionale, più viene premiato a livello di spesa locale. Un principio di solidarietà interregionale che non vada a discapito di chi è comunque disposto al fare. La Commissione per l’attuazione del federalismo fiscale è ancora operativa. Si potrebbe studiare quindi, nel quadro di un nuovo riassetto delle competenze regionali, un’autonomia potenziata, differenziata per la regione.

E se la chiedono anche altre regioni? Bene, si aprirà un dibattito, su dati, numeri, opinioni. Ma stiamo lontani da armi improvvisate o proclami obsoleti, per favore. Rischiamo che qualcuno si faccia male.

Immagine | warrenski

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