Site icon Le Nius

Con la pandemia è aumentata la violenza sulle donne

pandemia e violenza sulle donne
Reading Time: 6 minutes

Sono passati 60 anni da quando le tre sorelle Mirabal vennero stuprate, torturate e uccise da agenti militari del regime di Rafael Leónidas Trujillo nella Repubblica Domenicana. Assassinate il 25 novembre 1960, dopo anni di resistenza all’interno del movimento clandestino 14 giugno, Patria, Minerva e Maria Teresa sono diventate il simbolo della lotta rivoluzionaria contro una delle dittature più efferate dell’America Latina, che abusava del potere anche per disporre dei corpi delle donne. In questa data l’ONU ha deciso di stabilire la giornata mondiale contro la violenza sulle donne.

A più di mezzo secolo da quel 1960, il 25 novembre è più importante che mai. La pandemia da Covid-19 ha infatti aggravato in tutto il mondo la condizione della donna, in termini sociali ed economici. Già alla fine di marzo, il quotidiano britannico The Guardian metteva in luce che in diversi paesi, tra i quali Regno Unito, Spagna, Germania, Stati Uniti, Cina e Canada, la convivenza forzata del lockdown aveva portato a un aumento delle violenze domestiche contro le donne.

Pandemia e violenza sulle donne: l’aumento durante il primo lockdown

Anche in Italia abbiamo assistito allo stesso fenomeno. Un’analisi Istat pubblicata a luglio 2020 (pdf) ha mostrato che il numero delle chiamate all’helpline 1522, linea nazionale antiviolenza e stalking, è più che raddoppiato tra marzo e maggio 2020 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

La rete D.i.Re – Donne in rete contro la violenza, che riunisce 85 Centri Antiviolenza (CAV) in tutto il territorio italiano, ha rilevato che nel periodo dell’isolamento le domande di aiuto da parte di donne vittime di violenze sono aumentate del 79,9%.

Marta Picardi, operatrice CAV Cosenza, e Mariangela Zanni, responsabile CAV Padova

“All’inizio del lockdown, tante donne non hanno trovato degli spazi di privacy per chiamarci o pensavano di non poterci contattare, dato che le strutture erano state chiuse” racconta a Le Nius Marta Picardi, che dal 2013 è operatrice al Centro Antiviolenza Roberta Lanzino a Cosenza, uno dei centri fondatori di D.i.Re. “L’inizio dell’isolamento a marzo è coinciso quindi con un grande silenzio da parte delle donne”, continua Marta Picardi. “Questo ci ha preoccupate perché sapevamo che il lockdown non poteva che portare a un peggioramento di molte situazioni familiari precarie”.

Dalla fine di marzo, la rete nazionale D.i.Re ha quindi lanciato una campagna sui social per far sentire la sua presenza e ribadire che, nonostante la chiusura delle strutture, le operatrici dei Centri Antiviolenza della rete erano a disposizione, via chat, telefono e per le emergenze. Ad aprile, il silenzio è stato rotto e molte donne hanno iniziato a chiamare i centri.

“Ma la vera ondata è stata a maggio con la fine del lockdown e l’apertura delle strutture” ci spiega l’operatrice del CAV di Cosenza, “tantissime donne si sono riversate nei centri e abbiamo avuto ‘l’effetto del lockdown’”. Quando si è ricominciati a uscire liberamente di casa è diventato chiaro quanto il confinamento avesse portato a un grave aumento delle violenze domestiche.

Il calo delle denunce e le lacune del sistema antiviolenza in Italia

Come emerge dai dati delle Forze di Polizia relativi al periodo marzo-maggio 2020, inclusi nel già citato rapporto Istat, la crescita delle violenze sulle donne è stata accompagnata da un calo del 43,6% delle denunce per maltrattamenti. Se le vittime non hanno denunciato, si legge nel rapporto, è per “paura della reazione del maltrattante” e per le “conseguenze negative che avrebbe avuto in famiglia”. Una paura giustificata, soprattutto durante un lockdown, quando per le donne non è possibile spostarsi e rifugiarsi in altri luoghi.

Durante i mesi di marzo e aprile, “le donne sono state costrette a rimanere nel nucleo domestico nonostante la pericolosità della situazione. Alla base del calo delle denunce”, continua Marta Picardi, “c’è una grave mancanza di misure cautelari: la donna raramente viene protetta subito dopo la denuncia e quindi, per paura della reazione violenta che potrebbe avere il maltrattante, spesso non si rivolge alle forze dell’ordine”.

Mariangela Zanni, responsabile del Centro Veneto Progetti Donna di Padova e membro dell’Ufficio di Presidenza della rete D.i.Re, sostiene che “la pericolosità e la responsabilità dell’autore della violenza sono spesso sminuite dai giudici e dalle forze dell’ordine: questo fa sì che il maltrattante sia più tutelato della vittima”.

Nel nostro paese, continua Zanni, “c’è un grande problema di riconoscimento del fenomeno, dovuto alla mancanza di conoscenza delle dinamiche della violenza, ma anche a una radicata cultura di discriminazione nei confronti della donna: la violenza di genere permea le istituzioni e la cultura e per questo va combattuta anche alla radice, attraverso l’educazione”.

L’iceberg della violenza di genere

L’inefficienza degli strumenti di protezione delle donne dagli autori della violenza nel sistema italiano è un problema messo in luce anche dal GREVIO, organismo indipendente del Consiglio d’Europa che monitora l’applicazione della Convenzione di Istanbul nei paesi che l’hanno adottata.

La Convenzione di Istanbul (2011), ratificata da 34 paesi, è “il primo strumento internazionale legalmente vincolante che crea un quadro giuridico completo per proteggere le donne contro qualsiasi forma di violenza”, e prevede i reati di violenza psicologica, stalking, violenza fisica, violenza sessuale (compreso lo stupro), matrimonio forzato, mutilazioni genitali femminili, aborto forzato, sterilizzazione forzata e molestie sessuali.

La Convenzione è stata convertita in legge in Italia nel 2013 (legge n.119, 2013) ed è stata un importante passo nel riconoscimento istituzionale della violenza sulle donne come violenza strutturale da affrontare a livello politico. Ma il primo rapporto del gruppo di esperte del GREVIO, pubblicato il 13 gennaio 2020, getta luci e ombre sul sistema antiviolenza italiano.

La precarietà dei Centri Antiviolenza

Oltre allo scollamento tra norme e applicazione delle stesse, il rapporto del GREVIO sull’Italia ha sollevato il problema della mancanza di risorse stabili e continue fornite dallo Stato ai Centri Antiviolenza, come richiederebbe la Convenzione di Istanbul. Gli ultimi finanziamenti pubblici assegnati ai CAV risalgono al 2018: “siamo a novembre e stiamo ancora aspettando l’arrivo dei fondi annunciato durante il lockdown dal governo”, racconta Zanni.

A settembre 2020, il Senato ha approvato una risoluzione relativa ai Centri Antiviolenza redatta sulla base di uno studio della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio. Il documento sottolinea ancora una volta l’insufficienza e l’instabilità delle risorse economiche fornite ai CAV in un settore costituito per più della metà del personale da volontarie (55,5%).

La risoluzione ha inoltre richiamato l’attenzione sugli standard di qualità dei Centri Antiviolenza e sull’importanza del rispetto dei requisiti stabiliti dalla Convenzione di Istanbul, tema che la rete D.i.Re solleva da tempo. Gli 85 CAV aderenti alla rete D.i.Re, che raccolgono quasi il 40% delle richieste delle donne vittime di violenza in Italia, hanno un personale esclusivamente femminile, una metodologia che pone al centro il punto di vista della donna e prevedono un percorso completo di fuoriuscita dalla violenza, dall’accoglienza telefonica all’autonomia.

Ma, come sottolinea anche il rapporto della Commissione al Senato, sono molti i Centri Antiviolenza che ricevono finanziamenti pubblici senza rispettare i criteri stabiliti dalla Convenzione di Istanbul, minando quindi il successo del servizio. Per questo D.i.Re richiede da anni una revisione dell’Intesa Stato-regioni del 2014, che dia una corretta definizione di Centro Antiviolenza e faccia in modo che le risorse siano ben distribuite.

Pandemia e violenza sulle donne: il secondo lockdown

Nel primo periodo di chiusura, in casi di emergenza le donne non potevano essere ospitate nelle case rifugio già abitate per via del rischio di contagio. I centri hanno quindi chiesto al governo di fornire adeguate strutture, ma in mancanza di una risposta hanno dovuto trovare delle alternative autonomamente. Nonostante il governo consideri i CAV “servizi essenziali”, a fine novembre le risorse economiche devono ancora arrivare, così come i dispositivi medici e disinfettanti: “senza le donazioni avremmo dovuto chiudere”, dice Marta Picardi.

Nel pieno del secondo lockdown, i Centri Antiviolenza devono affrontare gli stessi problemi di marzo. Anzi, sostiene Mariangela Zanni, “oggi la situazione è anche peggiore: tantissime donne sono diventate povere”. La crisi dovuta alla pandemia ha infatti danneggiato in particolare i settori del terziario, del turismo e del commercio, le tipiche occupazioni femminili.

L’aumento della povertà delle donne comporta in molti casi la perdita della loro autonomia economica e la maggiore esposizione agli abusi da parte degli uomini. Ecco perché, dice Mariangela Zanni concludendo il suo racconto, “oggi i CAV della rete D.i.Re talvolta forniscono alle donne seguite nei centri anche beni essenziali”. Nel pieno della crisi attuale, combattere la povertà aiuta a garantire una maggiore autonomia e protezione alle donne esposte alla violenza di genere.

CONDIVIDI
Exit mobile version