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Maternità a rischio: quando una donna è in lotta con se stessa

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Diventare donne adulte non è una passeggiata, e buone madri nemmeno. Nell’Italia di oggi la maternità a rischio non è solo un problema ginecologico, ma un concetto più esteso, derivante da un intreccio di fattori psicologici e sociali, che contribuiscono a creare la percezione che le donne hanno della maternità.

Molte donne italiane esprimono perplessità o timori riguardo alla maternità. Secondo i dati del 2013, il numero di nuovi nati nel nostro Paese ammonta a 515 mila, un numero ancora più basso del minimo storico del 1995. Secondo le statistiche UNECE del 2010, l’età media in cui le donne italiane hanno il primo figlio è 30,2 anni, con una media di 1,42 figli per donna.

@josemanuelerre

La rabbia e la paura

La maternità a rischio, prima che nei dati Istat, esiste nella mente delle donne, più che per egoismo o cinismo, per una serie di motivi in buona parte condivisibili.

Il caso più eclatante è quello delle donne che soffrono di disagi psicologici. Costoro sanno di correre il rischio di non avere un rapporto sereno con i propri figli. La paura è quella di non essere in grado di proteggere il figlio, prima di tutto da sé.

Si parla spesso di depressione post partum, ma la depressione può insorgere anche durante la gravidanza, se ci sono fattori di rischio come precedenti familiari o nella storia personale, e la carenza di sostegni sociali. Si ritiene che si presenti in un 10% delle maternità e che fino ad un 20% delle donne manifestino qualche sintomo depressivo.

Ovviamente, il blocco da ansia di protezione vale ancor di più per le vittime di violenze o abusi, dove mariti e conviventi sono un pericolo reale, non solo per le potenziali madri, ma anche per eventuali figli. Secondo l’UDI, solo nel 2013 si son verificati 130 casi di femminicidio.

Al di là dei casi limite, sono le politiche sociali italiane a sottoporre la maternità a rischio. Tutti conoscono il comportamento dei datori di lavoro, la scarsità di servizi, di risorse e incentivi per le madri in Italia. Per cui se una donna sa di non avere alla spalle una famiglia di supporto e le risorse economiche necessarie, è facile preda di una sorta di ansia da prestazione.

Inoltre, la società stessa mette il concetto di maternità a rischio a causa del modo semplicistico in cui tende a raccontare l’esperienza della maternità. Si propugna spesso la maternità come dovere: se non hai figli non sei una vera donna, a cui si aggiunge l’ansia da orologio biologico.

Non manca nemmeno lo spot pubblicitario della maternità come piacere: non puoi perderti una cosa così bella e unica, dato che siamo tutti uguali e non esiste niente di meglio per te. Spesso queste due visioni si fondono confusamente nelle pressioni di parenti e conoscenti, in un bizzarro connubio di raggiante buonismo masochista.

Come se la dimensione della maternità non potesse esprimersi, seppur in modo meno diretto e viscerale, anche in molti altri ambiti, tra cui quello creativo, o nell’accudimento altrui. Credo perciò che, per molte, mettere la propria maternità “a rischio” risponda a un sano bisogno di mettere in discussione la maternità per come viene spesso comunicata, cioè come una specie di irrinunciabile altalena tra idillio stucchevole e sacrificio medioevale.

Ogni persona ha la sua storia e i suoi tempi. È malsano procreare per ansia, per senso di colpa, per imitazione, o per altri motivi sbagliati.

Quante madri confondono l’amore materno con il desiderio di possesso per colmare un proprio senso di vuoto? Quante fanno un figlio per esorcizzare il proprio senso di frustrazione e sentirsi potenti? I loro figli saranno le loro vittime.

Essere madre significa rinunciare in parte a essere figlia, e se si è subita qualche penalizzazione nel percorso verso l’età adulta, ci si può sentire derubate della propria adolescenza e spensieratezza, e vincolate alla responsabilità. Dalla maternità non si torna indietro. Un figlio ti cambia la vita, in modo irreversibile, e questo può spaventare chi ama in modo particolare la propria libertà, o coltivare molti interessi.

Tutti questi conflitti interiori possono avere una proiezione sul piano corporeo, attraverso la percezione della gravidanza come malattia o il terrore di diventare brutte e grasse, che si riflette in atteggiamenti estremi: dall’ossessione per la magrezza e l’aspetto esteriore, a una specie di autoabbruttimento sacrificale, secondo cui diventare madre coincide con lo smettere di essere femminili.

Tuttavia per cogliere appieno la bellezza della vita ci vuole anche un po’ di quella sconsiderata follia che fa fare i salti nel buio, e che fa parte della sua poesia. Non si può avere sempre tutto sotto controllo, però meglio affrontare la maternità con un atto di coraggio e di fiducia nel domani, che con inconsapevolezza.

Troppo spesso si fa coincidere l’età adulta con una serie di tappe esteriori: il lavoro, il figlio … Ma queste non bastano in sé a rendere risolta una persona e a farne una buona madre. Raggiungere la maturità significa arrivare a un certo grado di saggezza e di pace interiore.

Alla luce di queste considerazioni, cosa succede se rimani incinta e ti sembra che la vita non ti dia il tempo per fare il tuo percorso? Forse quei chilometri mancanti potrai percorrerli con tuo figlio, crescendo insieme, ma avrai bisogno di sostegno.

La domanda che ogni futura madre in difficoltà si pone è: sarò in grado di proteggere mio figlio? E, se ancora cerca se stessa, si chiede: quali certezze potrò trasmettere?

Quando l’automedicazione e l’affetto delle persone care non bastano è meglio chiedere aiuto per te e, soprattutto, per chi dipende da te. L’aiuto può esistere sotto varie forme, alcune più note (come la psicoterapia), altre meno.

Per questo segnalo la realtà di Arché: un’organizzazione non profit di Milano, Roma e San Benedetto del Tronto, che si occupa di mamme e bambini con disagio psichico e sociale, anche attraverso un’ospitalità temporanea che li accompagni verso l’autonomia.

Continua a leggere: Maternità a rischio, la storia di Vale

Come blogger di Le Nius, decido di aderire alla campagna di raccolta fondi per la manutenzione della struttura di ospitalità di Arché, raccontando con parole mie una delle storie di queste mamme. Mi colpisce soprattutto la storia di Valentina, che racconto qui sotto (la chiamo Vale, come farebbe un’amica).

La storia: Vale in lotta con se stessa

Vale è una ragazza di Milano. Castana, non tanto alta, look un po’ alternativo. Figlia unica molto amata dai genitori e studentessa brillante, ha un sorriso contagioso e degli occhietti vispi e curiosi. Non vede l’ora di scoprire se stessa e il mondo. Così anche se a Bologna, dove va a studiare arte, l’ambiente la delude un po’, Vale non si perde d’animo. Nel bar dove lei fa qualche turno serale per arrotondare, appare Andrea, anche lui studente, ed è classico colpo di fulmine. I due vanno subito a convivere e lei è ipercarica.

Poi la notizia terribile: suo padre ha avuto un infarto e non ce l’ha fatta. Vale passa un periodo in semi-digiuno a piangere sul letto.

Un giorno fa per lanciarsi dal quarto piano, ma la vista del vuoto la blocca. Da quel momento decide che lei non è come le altre: è l’eroina di un film, e questo la fa sentire invincibile. Tuttavia, inizia a bere pesante. Inoltre, è spesso aggressiva, distratta, e si fissa su piccole manie, come pretendere che Andrea si metta a cambiare la disposizione dei mobili alle 3 di notte.

I due litigano sempre più spesso, lui sente che ha bisogno di aria e parte per l’Erasmus. Vale scopre di essere incinta, ma sceglie di non informare Andrea, e torna dalla madre, che nel frattempo ha dovuto lasciare il loro appartamento perché al verde ed è ospite da suo zio fuori Milano. Lì si fa coccolare, ma poi le manca la sua autonomia.

È ospite per un periodo da un’amica in città, che l’accompagna anche alle visite ginecologiche. Campa di una serie di lavoretti appena sufficienti a pagare il vitto per entrambe. Ma crolla quando inizia ad avere i classici disturbi da gravidanza. Non riesce più a alzarsi dal letto né a lavarsi. Si vede deforme. Non capisce come potrà avere la forza di crescere una figlia, di trasmetterle quel senso di speranza che lei ha perso. La sua le sembra una strada senza uscita.

Così Vale dice a sua madre che pensa di dare la figlia in adozione. La signora, allarmata, riesce a sbloccare una somma in banca, ottiene un prestito dal fratello e trova lavoro come portinaia: madre e figlia tornano a vivere insieme. Vale decide di tenere la bambina e dà alla luce Marta.

è tanto eccitata da non riuscire a dormire e fa shopping selvaggio per sé e per la bimba, che le sembra quasi destinata a cambiare il mondo.

Ma col tempo Vale inizia a lasciare quasi sempre Marta alla nonna, si licenzia da tutti i lavori che trova, esce quasi tutte le sere, ha rapporti seriali con sconosciuti, beve parecchio, e a volte non rincasa nemmeno. La nonna, non più giovanissima, si affatica a stare dietro alla nipotina. La stanchezza e l’apprensione per il comportamento senza controllo della figlia le provocano un ictus, per fortuna transitorio.

Durante l’attacco, Marta esce in strada dalla porta aperta della portineria. Un condomino che va di fretta la segnala a un vigile, che trova la nonna inizialmente in stato confusionale. Costui, dopo una rapida indagine sulla situazione familiare, chiama Vale spiegandole l’accaduto. In seguito, ritiene prudente contattare i servizi sociali. A Vale viene diagnosticato un disturbo bipolare piuttosto serio, emerso con la morte del padre.

Intanto i servizi sociali segnalano il suo caso ad Arché, che la accoglie temporaneamente per aiutarla a ricostruire la sua vita e il rapporto con sua figlia. Così, a 25 anni, Vale ricomincia, insieme a sua figlia. Ora sa che ha bisogno di aiuto per proteggere Marta dai suoi pericolosi alti e bassi. Grazie ad Arché, forse d’ora in poi potrà andare con Marta sulle montagne russe, ma solo al Luna Park.

Se vuoi sostenere questo progetto di accoglienza, che a causa dei tagli al welfare rischia l’estinzione, manda un sms solidale (di 2 euro) al 45505 fino al 5 ottobre 2014.

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