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La democrazia inglese è moribonda

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@Number 10

La scorsa settimana Theresa May ha annunciato elezioni politiche anticipate per l’8 giugno. La mossa della premier britannica ha sorpreso molti, ma non tutti.

Un passo indietro

Theresa May è diventata capo del governo inglese in seguito alle dimissioni dell’ex premier Cameron. Quest’ultimo aveva lanciato lo sciagurato referendum su Brexit e, avendo fatto campagna per il Remain, una volta registrata la batosta ha abbandonato Downing street con la coda fra le gambe. Passerà alla storia come il primo ministro che, per faide interne al suo partito, distrusse (o quasi) due unioni in un colpo solo: Regno Unito e Unione Europea.

Logica avrebbe forse voluto che già allora, dopo un voto di rilevanza epocale, il Paese fosse chiamato alle urne. Tuttavia lo shock di un risultato inaspettato ha prodotto esiti differenti: i conservatori, al Governo in coalizione con i Liberali democratici, si trovavano in una situazione inedita. Il voto e la campagna su Brexit erano infatti frutto di una improvvida disfida interna al partito, che Cameron si augurava di vincere con il voto Remain. Mal gliene incolse. A quel punto, l’ala conservatrice che aveva campeggiato per il Leave si è improvvisamente e inaspettatamente venuta a trovare in posizione di preminenza. Senza però sapere cosa fare. Non è un mistero, anzi è un’evidenza che ci accompagna da mesi, che il governo inglese non avesse nessun piano per Brexit. Lo stesso discorso vale per Farage e la sua armata brancaleone chiamata Ukip.

La soluzione, costituzionalmente legittima ma democraticamente discutibile, è stata quella di mantenere il governo in carica, seppure con un cambio al vertice. Tutti si sarebbero aspettati un vertice che rappresentasse i “brexiters Tories”, ma l’impresentabilità di soggetti quali l’ex sindaco di Londra Boris Johnson e affini, la loro campagna basata su fandonie e la loro impreparazione agli eventi da essi stessi causati, hanno consentito alla rampante ministro dell’interno di Cameron, Theresa May, di domiciliarsi al 10 di Downing Street. Nonostante la stessa May avesse fatto campagna per il Remain. E questa è solo la prima della contraddizioni che stanno rivelando al mondo di che pasta è fatta la signora May, nonché l’agonizzante stato di salute della democrazia inglese.

I primi mesi dopo il referendum sulla Brexit

Trattando Brexit come se fosse stato un cataclisma inaspettato, e non invece come un esito tanto disastroso quanto voluto dalle forze più reazionarie e liberiste del paese, i conservatori inglesi, in questo ben rappresentati da Theresa May, hanno iniziato a giocare al gioco che più loro piace: dare sfoggio di una saggia determinazione di mantenere il Paese a galla di fronte alle avversità, con un misto di britannica rassegnazione e fermezza, una sorta di riedizione patetica del piglio di Churchill di fronte ai nazisti e della fermezza della Thatcher di fronte ai dissidenti verso le sue politiche, fossero i sindacati, le Falklands, l’IRA. Problema: nessuno sta bombardando l’Inghilterra, non c’e nessuna emergenza nazionale, se non quella auto-inflitta da coloro che adesso si ergono a difensori della patria.

In questa situazione, Theresa May ha iniziato la giostra di bugie dalla quale, una volta partita, è impossibile scendere. Altro giro, altro regalo. Come una campaigner per il Remain sia diventata strenua anima del Brexit, è solo il primo passo. Ovviamente, e molto “britannicamente”, la May ha ritenuto che le due cose non fossero affatto in contrasto. Anzi, diventata primo ministro del primo Governo post Brexit (quantomeno post referendum), calvacando senza pudore il tanto sbandierato “volere del popolo” (quale volere, quale popolo, sarebbe da dire), si è subito lanciata in mirabolanti affermazioni il cui vuoto pneumatico è letterariamente meraviglioso:

Brexit means Brexit

una delle migliori. Proseguendo, al fine di mostrare ai suoi azionisti quanto anche lei sia Iron Lady, si è tuffata a capofitto nel concetto della hard Brexit (come se esistesse l’antitetico soft Brexit), senza ovviamente avere la minima idea di cosa questo significhi, non tanto a livello ideale, ma nel concreto per i cittadini e l’economia del suo Paese. Attenzione, perché si tratta di un crescendo.

Il passo successivo è da stato senz’altro l’attacco ai giudici della Corte Suprema, i quali dopo il ricorso di una comune cittadina hanno sentenziato che il Parlamento aveva la sovranità di pronunciarsi sull’operato del Governo in tema di Brexit. Theresa May ha pensato bene di esternare che i giudici, i quali avevano appena riaffermato un principio costituzionale che rimane l’unico vero caposaldo fondamentale dell’intera civiltà politica occidentale, erano contro il popolo. Altri due highlights della sua conduzione politica del Regno sono senz’altro il precipitoso volo a Washington come primo leader occidentale alla corte di Trump, nonché l’imbarazzante gestione dell’affaire Scozia. Dopo l’annuncio di Nicola Sturgeon, First Minister scozzese (non “Prime”, titolo riservato solo a chi guida il governo a Londra) di un nuovo referendum per l’indipendenza, la May ha sentenziato laconicamente che la cosa non si può fare e si è poi lanciata in un commovente discorso sull’unità, sugli interessi comuni, sullo stare insieme nelle diversità. Esattamente tutto ciò che calpesta a livello di Unione europea.

Penultimo passo, prima del gran finale, è stato l’attivazione dell’articolo 50 dei Trattati per attivare l’uscita del Regno Unito dall’Unione. La lettera consegnata ai vertici Ue contiene una commovente dichiarazione assimilabile a quella di un coniuge che chiede il divorzio e, contestualmente, afferma grande amore per il matrimonio che sta lasciando, e esprime la volontà di poter continuare a utilizzare la stessa casa, il regime di comunione dei beni e magari di fare sempre le vacanze insieme. A corollario, resterà memorabile il discorso della May al Parlamento inglese, un profluvio di dichiarazioni sui valori europei, al quale molti deputati hanno risposto con fragorose risate. Il problema è che nulla di tutto ciò sembra essere percepito come un rischio dalla maggioranza dell’opinione pubblica UK, ormai drogata da anni di bugie e pronta a serrare le fila dietro a un condottiero che li aiuti a superare le avversità. Lo schema è sempre lo stesso, solo che il nemico questa volta bisognava inventarlo. Detto, fatto: la terribile Europa.

Le elezioni dell’8 giugno

E siamo all’oggi. La stessa Theresa May che a più riprese aveva affermato che non ci sarebbe stata nessuna elezione generale fino al 2020, ha candidamente deciso di indire la tornata elettorale a giugno, praticamente dopodomani. La ragione è evidente.

La premier sa di avere un vantaggio schiacciante nei sondaggi perché, nonostante la patetica gestione di Brexit descritta sopra, agli occhi di molti cittadini britannici questo non appare. Anzi. La May offre l’unico appiglio in uno scenario politico disastrato e disastroso. Il resto dei Tories, gli ardenti Brexiters della prima ora, sono schiacciati dal peso delle fandonie raccontate in campagna referendaria (e a poco vale il fatto, purtroppo, che May incarni tutte quelle frottole). I libdem non hanno da soli la capacità di vincere un’elezione generale. Il labour, dal canto suo, è confuso e in costante lotta intestina.

Il leader laburista, Corbyn, ha condotto una campagna anti Brexit a dir poco velleitaria, se non imbarazzante, senza sapere bene cosa dire, senza alcuna convinzione o veemenza. Oggi è attaccato internamente ed esternamente. Giustamente si scaglia contro l’agenda di governo della May, lo smantellamento dello stato sociale, il neoliberismo sfrenato senza più limiti rappresentati dai diritti dei lavoratori portati dalle norme europee, banchierismo rampante anche qui senza i limiti delle regole UE, limitazione dei diritti dei migranti, tagli alla sanità, alla scuola e spinta verso norme fiscali che faranno dell’Inghilterra un paradiso offshore per ricchi. Un po’ troppo tardi, viene da dire, visto che Brexit significava fin da subito tutto questo e Corbyn non ha fatto nulla né per evidenziarlo, né per fermarlo. Il tentativo tardivo di “garantire un negoziato che salvaguardi i diritti degli ultimi”, perché questo va ribadendo il labour, sembra quantomeno risibile.

May sa tutto questo molto bene e veleggia verso un’elezione in cui punta a vincere con maggioranze bulgare, per ottenere un mandato incontestabile e inequivocabile alla conduzione di un negoziato di uscita dall’UE. Quest’ultimo si prepara ad essere da un lato un circo senza esclusione di colpi ai limiti dell’assurdo e dell’arroganza. L’ultima: usciamo ma vogliamo mantenere le agenzie UE che operano sul suolo inglese. La penultima: usciamo e non vogliamo più pagare quanto ancora dobbiamo al bilancio UE.

Dall’altro lato, e forse ancor più gravemente, il negoziato diventa solo uno specchietto per le allodole tramite il quale la May potrà farsi beffe dei principi fondanti della democrazia (checks and balances, la responsabilità di un governo davanti al Parlamento) e dirigere il Paese come le pare, approfittando di un fantomatico mandato a condurre la nave in mezzo alla tempesta, come una sorta di stato di necessità in cui il condottiero non si discute ma si segue e basta.

Questo è dunque lo stato moribondo della democrazia inglese. Assai più grave di quanto non appaia. I cittadini, ignari di cosa votavano quando hanno scelto Leave, si trovano ora in una catastrofe autoindotta da classi dirigenti destrorse senza scrupoli, tanto quanto da una sinistra imbelle che non ha capito nulla dell’Europa. I politici che ora gli stessi cittadini, disarmati quando non conniventi, sceglieranno per guidarli, sfrutteranno gli enormi problemi che Brexit causerà (perché ancora non si è visto nulla) e utilizzeranno le emergenze economiche e sociali per ridurre ancor più i diritti degli ultimi, provocando l’acuirsi delle disuguaglianze e del malessere della gente comune. Questo succede ad andar dietro ai pifferai magici. C’è da augurarsi che, in qualche modo difficile da immaginare, la elezioni del 8 giugno riservino qualche sorpresa, un rigurgito di sensatezza e capacità di analisi, che da almeno un anno, non abitano più nel Regno mai così disunito.

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