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Interstellar è una cagata pazzesca

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Su queste pagine è già stato recensito in termini entusiastici ma, come dicono gli anglosassoni, I beg to differ. Prendo in prestito le parole di un altro film, quello sì un capolavoro: per me Interstellar è una cagata pazzesca.

Crepi l’avarizia: tutto il cinema di Nolan mi è sempre sembrato un mezzo bluff. Per quanto mi riguarda la prova migliore del regista inglese resta The Prestige, che pure pecca un po’ di pedanteria nel ribadire la sua lezioncina sulla sofferenza dell’artista. E sì, Memento è un buon film, benché il suo interesse non vada oltre il mero gioco del montaggio invertito.

Ma la trilogia di Batman, parere mio, è un prodotto sgraziato, senza eleganza, troppo preoccupato di conciliare l’anima del noir con quella del giocattolo milionario per ricordarsi di essere anche divertente. Mentre il venerato Inception m’è parso solo un Matrix in giacca e cravatta, in ritardo di un decennio sul prototipo e raccontato peggio.

Per Interstellar critica e pubblico – più il secondo della prima, a dire il vero – stanno chiamando in causa termini di paragone da nulla come Kubrick, Tarkovskij e il Cuaron del bellissimo Gravity. A me invece è sorto spontaneo un parallelo meno immediato, quello con Fabrizio Moro.

Molti di voi se lo saranno già dimenticato, eppure nel 2007 questo signore stravinse Sanremo Giovani con un pezzo intitolato Pensa. Il messaggio veicolato da Pensa era che prima di puntare un’arma da fuoco contro qualcun altro e premere il grilletto è meglio rifletterci bene: un concetto non esattamente rivoluzionario, sul quale spero che anche il più incallito dei criminali si troverebbe d’accordo. Malgrado ciò, per il semplice fatto che la canzone non parlava d’amore ma di mafia, i quotidiani titolarono “A Sanremo vince l’impegno”.

Mutatis mutandis, per come la vedo io Interstellar è il Pensa di Nolan. La crisi ambientale! I cambiamenti climatici! Il destino dell’umanità! Le leggi fondamentali dell’Universo! La musicona di Hans Zimmer che si infila chiassosissima in ogni inquadratura! Davanti a questo popò di roba, avrai mica il coraggio di negare che sia un grande film, eh?

Eppure sotto non c’è granché, né concettualmente – un altro apologo sull’Omnia vincit amor? Nel 2014? Davvero? – né sul piano della narrazione: l’intero film, se vai a stringere, è solo l’ennesima variazione sul tema del paradosso dei gemelli, uno dei topos più abusati nella Storia della fantascienza. Variazione, peraltro, non delle più abili: il pubblico è obbligato a misurarsi con buchi – neri? – di sceneggiatura, misteriose reticenze – sovente il senso dietro alle azioni dei personaggi dev’essere intuito, o addirittura indovinato – e pesanti didascalismi. Su tutti il lungo sottofinale nel tesseratto, quando la sceneggiatura costringe Matthew McConaughey a spiegare punto per punto cose che qualunque spettatore minimamente smaliziato ha capito da un pezzo. Poi per forza viene fuori un film di due ore e mezza.

In Il cavaliere oscuro – che più che un film sembrava il riassunto di una serie televisiva – l’affastellamento di sottotrame creava l’illusione dello spessore; in Inception la confusione dei livelli narrativi creava l’illusione della profondità; in Interstellar la retorica e l’overdose di scene madri creano l’illusione del grande cinema. Nolan, come gli eroi di The Prestige, è un illusionista: è bravo a far credere alle platee di aver visto quello che non c’è. Ciò non toglie che quella cosa lì non ci sia.

Nei centosessantanove minuti di Interstellar c’è un solo momento di autentica sovversione delle aspettative: la scena nella quale scopriamo che nel futuro distopico dove è ambientata la vicenda i deliri dei complottisti sono diventati verità ufficiali, tanto da comparire sui libri di Storia. Il declino culturale va a braccetto con quello economico: spunto interessante, magari da sviluppare in un altro film, magari di un regista meno conformista.

In conclusione, perfino io devo ammettere che Interstellar ha almeno una virtù, la coerenza. Parlando di gravità e distorsioni temporali, adegua la forma alla materia: man mano che si procede col minutaggio, la visione si fa sempre più pesante e il senso di dilatazione del tempo sempre più marcato. Almeno, per me gli ultimi venti minuti sono durati due ore.

Un po’ come quando sei in coda sulla Saturno–Reggio Calabria.

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