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Cosa succede in Siria?

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@abbaskadhim.com

Da ormai sei anni la Siria è sconvolta da una guerra civile dal cui esito dipenderanno i rapporti di forza del Medio Oriente. Lo Stato Islamico sembra essere al termine della sua breve e sanguinosa storia, ma la guerra non è ancora vinta e gli interessi in gioco vanno oltre la lotta al terrorismo: basti pensare al regime di Assad e ai suoi appoggi internazionali.

Russia, Usa, Turchia, Iran, Israele e tutti gli altri paesi della Penisola Araba seguono con preoccupazione e interesse gli sviluppi della guerra, contribuendo a vario titolo in favore delle diverse fazioni. Vediamo di capire qual è la situazione attuale e quali sono le forze ancora in gioco.

Siria 2017: gli schieramenti attuali

Malgrado diversi anni di conflitto, sono ancora molte le forze in gioco per il controllo del territorio in Siria: da una parte l’esercito regolare siriano, guidato dal governo di Assad e sostenuto da Russia e Iran, che ha riconquistato il controllo di Aleppo e della parte occidentale del Paese strappandolo dalle mani dell’Isis; dall’altra rimangono diversi gruppi di ribelli che controllano la parte settentrionale della Siria. Fra questi, i più influenti sono le Forze democratiche siriane (sostenute dagli Usa), l’Esercito libero siriano (sostenuto dalla Turchia) e l’esercito dei curdi siriani che sta attualmente combattendo per liberare la città di Raqqa dal controllo delle bandiere nere. Assad, ribelli e curdi divisi sul campo da interessi differenti ma disposti a non intralciarsi a vicenda contro il nemico comune dello Stato Islamico. E questa precaria convergenza di interessi sta dando i suoi frutti: costretti a combattere da un lato contro Assad e dall’altro contro i ribelli a loro ostili, gli jihadisti hanno visto cadere una a una le loro roccaforti e la completa liberazione di Raqqa rappresenterebbe, di fatto, la sconfitta definitiva dell’Isis in Siria.

I fronti ancora aperti contro Isis

Raqqa è sotto un assedio congiunto dell’esercito curdo e delle Forze democratiche siriane appoggiate dagli Stati Uniti. Ormai più di metà della città è stata liberata e, secondo gli esperti, è solo questione di tempo prima che i miliziani dell’Is abbandonino definitivamente la città. L’esercito governativo tiene in scacco lo Stato Islamico anche nella parte sud-orientale nel Paese: dopo aver espugnato la cittadina di Sukhna, le forze di Assad hanno costretto i jihadisti alla ritirata nelle città di Deir ez-Zour, Mayadin e Abu Kamal, rimaste ormai le ultime vere roccaforti delle bandiere nere. In particolare, la liberazione della città di Deir ez-Zour chiuderebbe lo Stato Islamico in una pericolosa morsa: dalla parte siriana l’esercito lealista di Assad, mentre dall’altra quello regolare iracheno che sta respingendo lo Stato Islamico alla ritirata verso il confine siriano dell’Iraq.

Il ruolo di Russia e USA

Pur uniti nella lotta contro l’Is, gli Stati Uniti e la Russia appoggiano due schieramenti distinti nello scacchiere siriano: la Russia sostiene l’attuale dittatore Assad, mentre l’America fornisce supporto ai gruppi di ribelli intenzionati inizialmente a rovesciare il dittatore. Dopo la riconquista di Aleppo da parte delle forze governative, è risultato evidente che non sarebbe più stato possibile deporre Assad senza un intervento diretto degli Stati Uniti (scenario più che mai improbabile data l’ingerenza russa in Siria). Gli sforzi dei ribelli vicini agli americani si sono quindi concentrati nella liberazione del Paese dal controllo dello Stato Islamico, nella speranza di poter strappare diverse concessioni in un auspicabile futuro tavolo per la pace.
In quest’ottica, Usa, Russia e Giordania si sarebbero accordate per un cessate il fuoco nella parte meridionale del Paese. La decisione è stata annunciata a margine del G20 di Amburgo dopo il faccia a faccia fra Trump e Putin. La notizia è stata lanciata inizialmente proprio dal Presidente americano sul suo profilo Twitter:

Abbiamo negoziato un cessate il fuoco per alcune parti della Siria che salverà delle vite. Adesso è il momento di andare avanti e lavorare in modo costruttivo con la Russia!

Malgrado in passato altri accordi di cessate il fuoco siano stati infranti, c’è cauto ottimismo riguardo quest’ultima tregua. Le province coinvolte, al Quneitra, Deraa e al Sweida si trovano tutte nella parte sud-occidentale della Siria, vicino al confine con Israele e Giordania. Quella zona è attualmente sotto il controllo delle forze lealiste di Assad, malgrado la presenza fino a poco tempo fa di formazioni ribelli legate agli USA. L’obbiettivo è quello di distendere i rapporti fra Assad e i ribelli attraverso la mediazione internazionale proprio di Stati Uniti e Russia. Gli interessi in gioco, soprattutto fra i ribelli, rimangono comunque differenti e non è detto che l’influenza degli Usa sia sufficiente a convincere tutte le forze ostili ad Assad a una tregua duratura.

Gli interessi curdi

I curdi sono da sempre stati protagonisti in prima linea della lotta contro lo Stato Islamico. Soprattutto in Siria, i guerriglieri curdi si sono distinti per la loro tenacia e abilità: da prima, difendendo completamente isolati Kobane dall’assedio dell’Isis e poi respingendo le bandiere nere fin dentro alla loro ultima roccaforte della regione, Raqqa, mettendola sotto assedio. Le unità di protezione popolare (Ypg) comprendono i combattenti curdi della Siria settentrionale e ormai da mesi stanno liberando Raqqa quartiere per quartiere supportando i ribelli amici degli Usa. I curdi in Siria stanno giocando una partita tutta loro: da sempre abitanti della regione settentrionale, puntano a ottenere un riconoscimento internazionale per la propria identità culturale. Secondo le dichiarazioni dell’inizio 2017 di Ilham Ehmed, copresidente del Consiglio democratico siriano (organo che coordina diverse formazioni di ribelli):

I curdi vogliono un sistema decentralizzato in Siria. Un sistema decentralizzato garantirebbe i diritti di tutti i popoli che vivono in Siria e non solo quelli dei curdi. Tutti i popoli all’interno della federazione del nord si autogoverneranno e si discuterà sotto il controllo di un parlamento siriano federale. Un sistema di questo tipo unirebbe la Siria e garantirebbe i diritti del suo popolo.

Tale scenario non sarebbe ovviamente gradito all’attuale dittatore Assad e neanche alla Turchia, da sempre fortemente contraria a iniziative di autogoverno dei curdi. La paura più grande di Erdogan e dei vicini è che ottenuta questo primo riconoscimento, i curdi comincino a rivendicare la propria appartenenza e spingano per la creazione di un vero e proprio Stato curdo a scapito di Turchia, Siria e Iraq. La forte presenza sul territorio e l’efficienza bellica dei guerriglieri curdi li hanno per ora resi un alleato prezioso nella lotta allo Stato Islamico, sopratutto per gli Stati Uniti. Il fiancheggiamento degli Usa coi curdi non è però piaciuto alla Turchia e questo ha provocato forti tensioni fra i due Paesi.

L’apparente prossima sconfitta dello Stato Islamico in Siria sta già aprendo diversi scenari diplomatici: dopo sei anni di guerra incessante, la Siria è ormai un Paese devastato – almeno 500.000 morti– e, tolto di mezzo lo Stato Islamico, secondo molti sia Assad che i ribelli meno radicalizzati non hanno da trarre vantaggi dalla prosecuzione del conflitto. Sarebbe apparentemente possibile aprire un tavolo per la pace molto allargato per accogliere diversi interessi e trovare una soluzione diplomatica, evitando di continuare una guerra sulle macerie. Pur essendo la via più auspicabile, non è comunque detto che le parti in gioco siano disposte a scendere a patti dopo un conflitto tanto lungo e controverso: basti pensare agli omicidi e le torture perpetrate dal regime di Assad ai danni dei siriani “non allineati”. Usa e Russia intanto muovono i primi passi verso un tavolo di pace, ma le forti distanze interne e l’aperta ostilità della Turchia potrebbero compromettere la riuscita della soluzione diplomatica.


8 gennaio 2016

Il 2016 sarà l’anno di svolta per la guerra in Siria? Non è dato saperlo, ma l’anno si apre con un tentativo per arrivare alla pace attraverso la risoluzione Onu 2254. Basteranno la volontà e l’influenza delle Nazioni Unite a far cessare le ostilità?

Guerra in Siria: la risoluzione 2254

Il 18 dicembre scorso le Nazioni Unite hanno indicato la via di pacificazione per il conflitto siriano nella risoluzione 2254 approvata all’unanimità dal Consiglio di Sicurezza. La road map fissata nel documento prevede la convocazione di un tavolo per i negoziati fra il governo siriano ancora in carica e le opposizioni che sostengono i ribelli ed il conseguente cessate il fuoco in tutto il Paese. Entro sei mesi, le parti dovranno trovare un accordo per la formazione di un esecutivo di transizione che avrà il compito di organizzare le elezioni entro 18 mesi.

Secondo la versione dell’Onu, la stabilità ritrovata aiuterà la concentrazione di tutte le forze nazionali ed alleate su di un unico fronte contro Isis, al fine di respingere le cellule del Califfato fuori dai confini siriani. Malgrado sia stato fatto il primo importante passo per intraprendere una via diplomatica per il conflitto, la risoluzione è stata aspramente criticata in quanto non offre soluzioni ai punti più problematici relativi ad un eventuale accordo fra Assad ed i ribelli: primo nodo cruciale fra tutti è il futuro dello stesso dittatore una volta conclusa la transizione od ancora quali fazioni saranno ammissibili al tavolo delle trattative in quanto identificabili come opposizione e non come formazioni terroristiche.

Da non trascurare vi sono anche le enormi influenze di cui le grandi potenze dispongono fra le parti chiamate in causa: gli interessi di USA, Russia, Arabia Saudita ed Iran giocheranno un ruolo fondamentale nelle trattative e non è scontato che l’accordo finale sia soddisfacente per tutti i soggetti coinvolti. Del popolo siriano pare importare poco agli attori in gioco, Assad in primis, anche per questo previsioni tutt’altro che rosee sono state espresse anche dall’inviato delle Nazioni Unite, Staffan De Mistura, che ha dichiarato:

Dobbiamo aspettarci rifiuti, boicottaggi, accelerazioni del conflitto e gravi atti di violenza, per posizionarsi prima del cessate il fuoco. Ci saranno momenti nel futuro immediato in cui tutto sembrerà di nuovo perso. Bisognerà capire che ciò non rappresenta la fine del negoziato, e mantenere la pressione per sostenerlo

Russia, Iran e il destino di Assad

Uno dei punti più problematici relativi alla pacificazione siriana riguarda proprio il destino di Bashar al-Assad. Da una parte, Russia ed Iran auspicano un ritorno del dittatore alla guida del Paese: per Putin rimarrebbe un importante alleato per contrastare l’influenza degli USA nel Medio Oriente, mentre Teheran vuole scongiurare la nascita di una Siria sunnita che andrebbe ad aumentare la sfera di influenza dei sovrani sauditi.

Dalla parte opposta invece abbiamo proprio i l’Arabia Saudita e gli amici Occidentali che vogliono deporre Assad in maniera permanente: la caduta definitiva del regime sciita sconvolgerebbe gli equilibri di influenza della regione in favore dei sauditi e degli alleati americani. Iran e Russia perderebbero un importante interlocutore nella regione e non avrebbero più il controllo indiretto sullo snodo principale per il rifornimento di energia fossile per tutta l’Europa. Osservando bene la situazione, è evidente come la via delle elezioni di fatto potrebbe non accontentare nessuno. Se anche al dittatore fosse concesso di concorrere contro altri candidati ci troveremmo di fronte a due possibili scenari: qualora vincesse, provocherebbe la reazione dei sauditi che chiamerebbero in causa gli USA affinché non venga riconosciuta la legittimità delle elezioni, mentre se perdesse in favore di una formazione sunnita sarebbero l’Iran e la Russia a non riconoscere legittimo il risultato, puntando il dito contro i sovrani sauditi. Quando si esce da una situazione di guerra e in gioco ci sono gli interessi di importanti forze estere la sovranità popolare non è sufficiente come garanzia per dare legittimità internazionale ad un governo.

Per trovare una soluzione che possa andare bene a tutti i Paesi esteri coinvolti, è probabile che vengano messe sul piatto delle contropartite relative ad altri delicati scenari internazionali: ad esempio, per non ostacolare un’eventuale esclusione di Assad (che non comporti comunque la sua incarcerazione), alla Russia potrebbe essere offerta una riduzione delle sanzioni economiche a lei inflitte dopo i fatti dell’Ucraina, mentre all’Iran potrebbero essere offerte condizioni più vantaggiose riguardo l’accordo sul nucleare.

L’Arabia Saudita e i sunniti

Come abbiamo già evidenziato in altre occasioni, obiettivo piuttosto chiaro della monarchia saudita è quello di togliere il controllo dei Paesi Arabi dalle mani degli sciiti. Per questo l’esclusione di Assad dai giochi di potere siriani per l’Arabia Saudita non rappresenta una eventualità, ma un requisito fondamentale per trovare un accordo per la pace. A fiancheggiare questa linea intransigente ci sono tutti gli altri Paesi sunniti della regione, inclusa la Turchia di Erdogan. Anche se ad Assad non venisse concesso di presentarsi alle prime elezioni libere, tuttavia rimangono altri pericoli relativi al processo di pace. I freddi rapporti diplomatici fra i sauditi e gli Usa con l’Iran e fra la Turchia con la Russia stanno rendendo più difficile anche il dialogo fra le parti direttamente coinvolte nel conflitto.

Non considerando i terroristi dello Stato Islamico, nelle trattative verranno sicuramente coinvolti i rappresentanti del governo lealista che sostiene Assad (appoggiati da Russia ed Iran) e i portavoce delle formazioni ribelli anti-Assad (appoggiati da Usa e Arabia Saudita), molte delle quali sono di ispirazione sunnita. In vista dell’apertura delle trattative, si è già tenuto in territorio saudita un primo incontro proprio fra le frange ribelli per cercare una via comune da seguire durante l’eventuale transizione. Tuttavia, alcune di queste formazioni rientrano fra quelle classificate come “jihadiste” dall’Occidente e appare evidente come le fazioni moderate siano in netta minoranza. Non è ancora dunque chiaro chi fra i ribelli sarà effettivamente ammesso al tavolo delle trattative, ma l’esclusione delle frange più estremiste potrebbe provocare una violenta reazione ed addirittura spaccare l’ala ribelle.

L’Arabia Saudita vuole evitare un ulteriore indebolimento degli alleati sunniti, ma dall’altra parte né gli Usa né la Russia e l’Iran vorrebbero dare un ruolo influente agli estremisti nel processo di pace. Il pericolo più grande da scongiurare rimane la possibile vittoria alle elezioni di una formazione fondamentalista che porterebbe un inasprimento diplomatico ulteriore non solo con le realtà sciite, ma con tutto l’Occidente. Lo scopo è evitare che si ripeta lo stesso scenario dell’Egitto post primavera araba, dove a vincere le prime elezioni libere furono i Fratelli Musulmani. Alle difficoltà diplomatiche si aggiungono pure quelle belliche: l’instabilità politica ha finora giocato a favore dei miliziani dell’Isis presenti in Siria. Malgrado gli interventi russi e dell’Occidente si siano fatti più estesi, il Califfato è ancora presente in maniera massiccia sul territorio e continuano a radicarsi in maniera profonda nelle proprie posizioni. Fintanto che le fazioni siriane non giungeranno ad una pace stabile, Isis continuerà ad avanzare sfruttando anche la devastazione e il malcontento da loro provocati. L’imperativo sembra ormai diventato: fare la pace per vincere la guerra.

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