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Disoccupazione giovanile in Italia: la guerra delle cifre

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A quanto ammonta il tasso di disoccupazione giovanile in Italia? Perché la sua esatta quantificazione è oggetto di opinioni contrastanti?

Ci siamo già occupati delle distinzioni da compiere, nell’ambito del “non lavoro”, tra disoccupati e scoraggiati. Per rispondere alla domanda in tema di disoccupazione giovanile, che in queste settimane è stata più volte sulle prime pagine dei giornali, poiché pari a oltre il 40%, occorre introdurre un ulteriore concetto, vale a dire quello della forza lavoro: con tale concetto si intende la somma dei disoccupati e degli occupati.

Tale somma, per ciò che concerne le persone dai 15 ai 24 anni (è questa la fascia di età a cui gli Istituti di statistica europei si riferiscono quando parlano di giovani) è pari nel nostro paese a 1,6 milioni. Il tasso di disoccupazione è quindi definito come il rapporto tra il numero dei disoccupati e il totale della forza lavoro, ed è pari al 40 per cento: vale a dire seicentosettantamila su 1,6 milioni.

Tutto chiaro, tutto pacifico?

No, perché alcuni commentatori affermano che tale cifra è sovrastimata e propagandandola si corre il rischio di far percepire come drammatico un dato che è senza dubbio alto ma che va ridimensionato. È di questo avviso Dario De Vico, giornalista del Corriere della Sera, molto esperto del “mondo lavoro”, il quale ritiene che il dato molto pubblicizzato del tasso di disoccupazione giovanile al 40% sarebbe fuorviante, per un problema di base di calcolo.

Per orientarci in questi numeri occorre ricordare che la maggior parte dei 6 milioni di giovani italiani è infatti statisticamente definito fuori dalla forza lavoro, o perché studenti a tempo pieno o – più tristemente – perché non studia, non lavora e non cerca nemmeno un lavoro. Secondo De Vico il tasso di disoccupazione corretto sarebbe quello ottenuto dividendo il numero di disoccupati per il numero totale di giovani nella popolazione, arrivando quindi all’11 per cento circa da lui indicato (dato che non sarebbe lontano dalla percentuale “generale” di disoccupazione in Italia).

Non è del medesimo avviso l’economista Pietro Garibaldi, professore all’Università di Torino, il quale in un articolo sul giornale on line lavoce.it ha ribattuto che certamente il dato del 40% non è corretto ma non si possono nemmeno ignorare che tra la quota di inattivi vengono ricompresi anche i cosiddetti NEET Not (engaged) in Education, Employment or Training, vale a dire i giovani che non studiano, non svolgono tirocini né cercano lavoro. Un dato questo si drammatico perché – come rilevato in un altro studio sempre di Garibaldi, tra i paesi dell’OCSE, “l’Italia conta quasi il 20% di NEET, un livello inferiore soltanto a quello del Messico”.

E poi, ed è questo un punto su cui si concorda, il vero problema è che al di là delle modalità di misurazione, la percentuale è in costante aumento dal 2008 ad oggi. Insomma, anche i numeri non sono neutri e vanno saputi leggere. Quelli sulle statistiche occupazionali ancora di più perché si prestano a una pluralità di letture di non immediata comprensione.

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