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Diario olimpico: Rio 2016, tempo di bilanci

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Giorno 17

– Bilanci –

Con l’amaro in bocca e una maledizione che resta aperta.
Si è chiusa così l’Olimpiade italiana, col 3-0 del Brasile sull’Italvolley nella finale per l’oro, un punteggio che non spiega quanto vicini eravamo alla medaglia più pesante.

La pallavolo, sia indoor sia in versione beach, resta uno degli sport in cui più abbiamo impressionato a Rio 2016. 8 ori, 12 argenti e 8 bronzi sono un buon bottino, tutto sommato. In linea con quanto fatto a Londra e Pechino, distanti dai fasti di Sidney e Atlanta, di gran lunga i miglior risultati olimpici dell’Italia nell’ultimo trentennio.

L’obiettivo del presidente del Coni – 25 medaglie e 8 ori – è stato raggiunto, ma nel futuro l’Italia dovrebbe lavorare per avere degli obiettivi più elevati già alla vigilia, sulla scia di quanto fanno altre nazioni europee come Francia e Germania, per non parlare dell’incredibile Gran Bretagna, capace di togliere il secondo posto alla Cina.

L’Italia a Rio è stata salvata dalle discipline del tiro (a volo e a segno), dove siamo riusciti a conquistare 4 ori e 3 argenti. È un’eccellenza italiana e dobbiamo andarne fieri, continuando a lavorare per raggiungere risultati di alto livello. Ogni nazione ha la sue discipline serbatoio di medaglie, noi non dobbiamo fare passi indietro nella nostra. 

Passi indietro – piccoli ma evidenti – fatti dalla scherma: sono arrivate 4 medaglie (bene), un solo oro e tre argenti (vuol dire 3 finali perse su 4, male). Era da Seul ’88 che l’Italia vinceva almeno 2 ori e finiva nelle prime due posizioni del medagliere di disciplina, quest’anno dominato dalla Russia. Pesa l’alternanza delle gare a squadre, con l’assenza del fioretto femminile, ma il passo indietro c’è stato, soprattutto nel fioretto maschile, e andrebbe preso in considerazione.

Tra le discipline promosse anche il ciclismo, dove si è tornati a vincere una medaglia in pista (lo splendido oro di Viviani), e dove il buon lavoro dei tecnici ha mostrato la crescita di giovani promettenti. Bene anche il ciclismo su strada che ha preso un bronzo nella gara femminile e sfiorato una medaglia con lo sfortunato Nibali. Tra le discipline promosse, anche se i risultati potevano essere migliori, inseriamo il canottaggio, che ha visto un’evidente inversione di tendenza col passato più recente, così come il judo, che porta in dote un oro e un argento.

Preoccupa invece la situazione nelle due discipline regine dei giochi, soprattutto nell’atletica. Era addirittura da Melbourne ’56 che l’Italia non restava senza medaglie nell’atletica leggera. C’è un progetto giovane cui si spera possano seguire dei risultati, ma è da tanti, troppi anni che in uno sport così rinomato il nostro paese raccoglie soprattutto delusioni. L’infortunio di Tamberi, per non parlare del caso Schwazer, sono parziali scuse, ma va invertita la tendenza, continuando a far crescere quei pochi giovani futuribili.

Discorso diverso per il nuoto, che torna da Rio con lo splendido oro di Paltrinieri e il doppio bronzo di Gabriele Detti, che di fatto salvano una spedizione altrimenti insufficiente. Tra gli sport acquatici le due medaglie e il successivo ritiro di Tania Cagnotto, regalano sorrisi e dubbi sul futuro dei tuffi in Italia; bene anche il nuoto di fondo e la pallanuoto, per la prima volta a podio sia con i ragazzi sia con le ragazze.

Esistono ancora sport in cui l’Italia non è assolutamente competitiva: equitazione (dove spadroneggiano le vicine grandi nazioni europee), sollevamento pesi, badminton, pallamano, hockey, bmx; esistono sport dove stiamo perdendo quella che era una discreta tradizione olimpica: canoa, pugilato, ginnastica (maschile soprattutto); esistono, infine, sport che hanno semplicemente deluso le aspettative: taekwondo in fase preolimpica (nessun qualificato), tiro con l’arco e vela in fase olimpica (due-tre speranze di medaglia fallite).

L’Italia è rimasta tra le dieci migliori nazioni dello sport mondiale, per la sesta olimpiade consecutiva, e non era affatto scontato alla vigilia. La speranza, oggi, non è solo potersi confermare anche a Tokyo 2020, ma provare a migliorare davvero, lavorando per quattro anni in funzione delle Olimpiadi, provando a ritrovare una crescita reale che non avviene dai tempi di Atlanta ’96.

Noi saremo qui, in attesa di un nuovo diario olimpico.

Giorno 16

– Chiusura –

Avete presente quando state per vedere l’ultima puntata dell’ultima stagione della vostra serie tv preferita? Ecco, l’ultimo giorno delle Olimpiadi è un po’ la stessa cosa.

Le ultimissime gare in tv, l’ultima panoramica vista di Rio dall’alto, l’ultimo tg olimpico di Franco Lauro, gli ultimi commenti tecnici di Gianmarco Tamberi su qualsiasi argomento passi per la testa a Gianmarco Tamberi, gli ultimi refresh della pagina del medagliere per vedere se la Francia ha vinto un altro argento.

Mancano poche ore, e poi dovremo aspettare altri 4 anni, che sono sempre tantissimi.

Soprattutto quando contemporaneamente inizia la Serie A e tu fai il tifo per il Milan.


Giorno 15

– Epica –

Uno dei miei primi ricordi da bambino, un piccolo trauma della mia infanzia, è la finale olimpica del torneo di pallavolo di Atlanta ’96. Faceva caldo, c’era Italia-Olanda, eravamo favoriti e ricordo nitidamente che ci si aspettava solo una vittoria da una delle squadre più forti della storia del volley.

Andò a finire male. 

Delle già citate Olimpiadi di Atene 2004, una delle più belle pagine sono le cavalcate delle nazionali di basket e pallavolo. Più entusiasmante, anche perché contro pronostico quella degli azzurri di Recalcati, più decisa e convincente quella della pallavolo. Alla vigilia della finale con il Brasile, l’Italia arrivava da sfavorita, ma con qualche chance.

Andò a finire male. 

Quest’anno non mi aspettavo di ritrovare la nazionale di pallavolo in finale olimpica. Ci è arrivata con un cammino quasi perfetto, convincendo contro corazzate come Stati Uniti e Brasile nel girone di qualificazione per poi arrivare alla semifinale di ieri, di nuovo contro gli Usa.

Ecco, la semifinale di ieri è quella partita per cui potrai anche non essere così dispiaciuto, se poi andrà a finire male di nuovo. A conferma della bellezza indiscussa della semifinale, che da sempre si mostra il momento più alto di una competizione (Italia-Germania 4-3, Italia-Germania ai Mondiali del 2006, Olanda-Italia a Euro 20009, Milan-Manchester United del 2007, Inter-Barcellona del 20101), ha ricordato a tutta l’Italia di quanto possa essere avvincente una partita di pallavolo. Di più, epica.

Ci ha tenuti attaccati ai televisori, ci ha fatto urlare e disperare, gioire e saltare di gioia. Ci ha ricordato che quando il punteggio lo decidono i set vinti, si può spegnere la luce per un po’, e riprendersi quando serve. Ci ha esaltato con le battute di Zaytsev, un cognome russo e un’anima italianissima. Ci ha fatto conoscere Simone Giannelli, vent’anni di talento e un futuro di luce purissima. Ci ha fatto palpitare con le difese di Pippo Lanza, le schiacciate di Osmany Juantorena, i primi faticosissimi tempi di Buti e Birarelli.

Chiunque abbia visto Italia-Stati Uniti, ieri, ha lasciato un pezzo di cuore alla pallavolo. Questa è già una vittoria, ma c’è il Brasile – di nuovo – all’orizzonte.

Diario olimpico: Giorno 15


Giorno 14

– Umano –

Abituarsi alla normalità, quando sei sempre stato abituato a stupire, non deve essere cosa semplice. La normalità, per Usain Bolt, non è solo vincere i 100 e i 200 metri piani. È farlo mantenendo quello spirito sfacciato e burlone con cui l’abbiamo conosciuto 8 anni fa. È farlo con tempi che nessun atleta in precedenza poteva pensare possibili.

Quando Usain Bolt ha tagliato il traguardo dei 200 metri, ieri notte, si è lasciato andare a un insolito gesto di stizza. Il campione dei campioni, il più grande velocista della storia dello sport, l’unico a vincere per tre Olimpiadi consecutive i 100 metri e i 200 metri piani dopo essere stato l’unico a vincerli per due Olimpiadi di seguito, non era felice.

Usain Bolt è abituato a stupire, e per lui, 19″78 nei 200 metri piani non ha nulla di stupefacente. Dopo aver vinto i 100 con un tempo superiore a 9″80, soglia che in un certo senso ha diviso l’atletica della velocità da un periodo pre-Bolt, in cui valeva le migliori prestazioni di sempre, a un periodo post-Bolt, in cui diventava soglia necessaria per salire sui podi delle gare olimpiche e mondiali, Bolt voleva colpire nei 200, la sua vera gara, quella per cui il suo corpo lungo e la sua falcata ampia possono dare il meglio.

Non avendo avversari all’altezza, l’unico vero avversario era il cronometro. Certo, non il 19″19 stampato nei mondiali berlinesi del 2009, ma un tempo che potesse finire negli annali, insieme a una delle 10 migliori prestazioni di sempre, 5 delle quali a nome Bolt.

Complice la pioggia di Rio, complice la fatica degli ultimi 50 metri, Bolt ha chiuso con il suo miglior tempo dell’anno, ma era dal 2006 che il suo migliore non era così alto.
Appena tagliato il traguardo, l’uomo che aveva appena firmato uno dei record di vittorie più impressionanti di sempre, era un po’ stizzito. Per la prima volta nella sua vita, Usain Bolt aveva tradito le sue aspettative, non quelle del pubblico, non aveva raggiunto l’obiettivo che si era prefissato.

L’uomo che ha stracciato i record della velocità, l’uomo che ha sempre vinto negli ultimi 8 anni qualsiasi finale olimpica e mondiale a cui ha preso parte, l’uomo che è riuscito a difendere il titolo nei 100 ai mondiali del 2015 quando tutti lo vedevano battuto, per la prima volta, dopo aver tagliato il traguardo, non era felice.

In quei pochi secondi di quasi-rabbia, Usain Bolt si è mostrato per la prima volta umano, vincente senza strabiliare. Poi è ripreso lo show, con il pubblico e le telecamere.

Number one, number one

Ripeteva Usain. A se stesso, prima che al mondo.

Diario olimpico: Giorno 14


Giorno 13

– Adiós –

(a cura di Ennio Terrasi Borghesan)

Neuquén è considerata come la porta d’ingresso per la Patagonia. È un bel posto dell’entroterra argentino, circondato da bei parchi nazionali e meravigliosi laghi artificiali.
Allo sport, Neuquén, non ha dato poi così tanto come altre città argentine.
Son suoi figli Rubens Sambueza, centrocampista offensivo dell’América, e Mario Vega, centrale del Miami di Paolo Maldini.

Ma Neuquén, in realtà, qualcosa allo sport l’ha lasciato.
È stata il teatro della nascita di una squadra storica, di quel meraviglioso nucleo di uomini e amici nota al mondo come Generacion Dorada.

Tutto partì da lì.
Alla volta di Indianapolis, di quella bellissima cavalcata mondiale, della volta in cui quel gruppo di amici dimostrò al mondo che gli alieni erano battibili.
Poco importa se quella cavalcata non ebbe lieto fine, perché in realtà il lieto fine della nazionale argentina degli ultimi 15 anni è stato quello di saper sempre stupire, meravigliare, emozionare.

Come ad Atene, dove è stato riscritto il concetto di rivincita e di storia. Con un lieto fine, storicamente meraviglioso per loro, amaro per noi italiani. L’Olimpiade del 2004 fu, indubbiamente, il picco di bellezza di quel gruppo meraviglioso. Ma la storia continuò, incessante e incurante del peso dell’età: a Saitama fece seguito Pechino, ad esempio.

Nel frattempo il nucleo si rinnovava, figure cardine come Sconochini o Hermann o Oberto terminavano le carriere, ma le 4 colonne portanti rimanevano a sostenere l’intera struttura.
Manu.
Luis.
Andres.
Carlos.
Tutti insieme a Londra, per l’ultima avventura, per l’ultimo ballo.
Finito con un amaro quarto posto, nonostante un memorabile quarto di finale contro il Brasile e un’onorevole semifinale contro il rinforzato Team USA.

Ma non poteva finire così. La finalina per il terzo posto contro la Russia non poteva essere il degno finale per quel gruppo d’amici.
Doveva finire come a Neuquén. Sempre in Sudamerica. A Rio. Dai rivali di sempre. Con una partita for the ages.

Certo, poi ne han presi 46 in due partite dalle due squadre che a Londra si giocarono la medaglia d’oro e che a Pechino fecero loro compagnia sul podio, ma è irrilevante che l’Argentina abbia chiuso uno dei cicli sportivi più vincenti di sempre con un -27.
Perché la Generacion Dorada non è certo stata la squadra più forte di sempre.
È stata la più bella.

E quando hanno brindato a cena ieri notte, dopo la partita persa, mi piace pensare che abbiano levato i calici alla loro bellezza e alla loro unicità. Perché non ci sarà mai un’altra Generacion Dorada.

Diario olimpico: Giorno 13


Giorno 12

– Fenomeno –

La prima volta che ho sentito parlare di Simone Biles, da profano della ginnastica artistica, è stata per un video virale. Nel 2014, questa piccolissima (1,44) ginnasta americana, profanò un momento altissimo come la premiazione su un podio mondiale a causa di un’ape.

Fece appena in tempo a far finire l’inno nazionale americano prima di urlare impaurita per l’insetto che ronzava tra i fiori del suo bouquet. Fu una scena molto divertente, così iniziai a informarmi un po’ di più sulla diciassettenne che stava in cima al podio.

Da profano della ginnastica, scoprii che Simone Biles non era solo una simpatica ginnasta americana profanatrice di podi, ma era la nuova dominatrice assoluta di quasi ogni disciplina, “la più grande ginnasta di sempre” a detta dei poco imparziali media americani.

Come per molti altri grandi dominatori, lo sport ha rappresentato una rivincita sulla vita. Vita che non aveva sorriso nei primi anni di Simone Biles, abbandonata dal padre e in custodia di una madre tossicodipendente prima di essere adottata dai suoi nonni, con cui è cresciuta trasferendosi a 3 anni, insieme alla sorella minore, dall’Ohio al Texas.

Sono i nonni che vedendola saltare per la casa decidono che la ginnastica potrebbe essere il suo sport ideale, ed è qui che incontra Aimee Boorman, la sua allenatrice che ancora tuttora, a più di 10 anni di distanza, è sempre presente nel suo angolo durante le gare. 

Al suo esordio in un campionato del mondo, subito dopo le Olimpiadi di Londra, Simone Biles vince l’All-Around e conquista la finale in tutte le specialità. Ci aggiunge un altro oro (corpo libero), un argento (volteggio), un bronzo (trave) e un’uscita poco felice della ginnasta azzurra Carlotta Ferlito (“Se ci dipingiamo la pelle di nero vinciamo anche noi”). 

Di lì a oggi Simone Biles diventerà una delle più grandi ginnaste di ogni epoca, quella con più titoli mondiali conquistati (10) e l’unica a vincere per tre edizioni consecutive il titolo nell’All-Around.

A Rio, la sua prima Olimpiade, doveva solo confermarsi. Lo ha fatto vincendo 4 ori e un bronzo e guadagnando la fama incondizionata anche tra noi profani della ginnastica.

Diario olimpico: Giorno 12


Giorno 11

– Elia –

Ci sono medaglie che ti fanno un po’ più felice. E io Elia Viviani lo aspettavo da Londra 2012, quando fallì il podio olimpico nella corsa a punti dell’Omnium, una disciplina che racchiude tutta l’essenza della pista ciclistica in sei difficilissime gare.

Ieri Elia, che da 6 anni si allena in attesa di una gioia a cinque cerchi, ha vinto la medaglia d’oro.

Per l’occasione, dei ragazzi che del ciclismo sanno farne narrazione e romanzo, hanno scritto delle righe bellissime, come spesso gli capita.

Ecco, oggi non serve aggiungere altro a quanto hanno scritto loro. Andate su Bidon, e non ve ne pentirete.

Diario olimpico: Giorno 11

Giorno 10

– Ferragosto –

Potrei dirvi di Niccolò Campriani, il migliore italiano alle ultime due Olimpiadi, che dopo un oro e un argento a Londra ha vinto due ori a Rio. Freddo, calmo, mai sopra le righe, capace di commentare in modo obiettivo ogni aspetto del suo sport e delle sue gare. Una faccia onesta, colta e pulita per rappresentare lo sport italiano.

Potrei dirvi di Tania Cagnotto, la più grande tuffatrice della storia azzurra, che finalmente a Rio ha conquistato le due medaglie che le mancavano: l’argento nel sincro con Francesca Dallapè e soprattutto il bronzo nell’individuale da 3 metri, con un ultimo perfetto tuffo a chiuderle una splendida carriera. Tania mancherà, ma soprattutto mancherà a Stefano Bizzotto.

Potrei dirvi di Juan Martin Del Potro, uno dei più grandi tennisti dell’era moderna, per più due anni costretto a fare avanti e indietro tra ospedali e infermerie a causa di un polso maledetto e di un destino infame. Nel torneo olimpico di Rio ha eliminato Djokovic al primo turno, Nadal in semifinale, prima di finire secondo alle spalle di Murray, esausto e felice.

Potrei dirvi di Wayde van Niekerk, un corridore sudafricano allenato da una nonnina di 74 anni che ieri, nella finale dei 400 metri ha scritto una pagina dei libri di storia dello sport fermando il cronometro su un sensazionale 43″03. Record del mondo, partendo dall’ottava corsia: cancellato Micheal Johnson. Epocale.

Potrei dirvi di Usain Bolt, probabilmente l’atleta del millennio. Terza volta campione olimpico nei 100 metri piani, la gara simbolo dei giochi. Mai nessuno è stato come lui, mai nessuno sarà come lui.

Potrei dirvi tante altre cose, ma è Ferragosto e mia madre sta facendo i panzerotti.

Diario olimpico: Giorno 10


Giorno 9

– Greg non era stanco –

Aveva addosso il peso di tutta la spedizione olimpica italiana. Alla voce “ori certi”, nelle previsioni di chi poco sa dell’imprevedibilità dello sport, Gregorio Paltrinieri faceva compagnia a Rossella Fiamingo, Arianna Errigo, il fioretto maschile a squadre tra le medaglie pregiate che non potevano mancare. Nessuno di questi, finora, aveva rispettato le aspettative.

Sulle spalle di Gregorio Paltrinieri c’era poi il macigno della deludente nazionale di nuoto azzurro. Fino a qualche ora fa l’Italia aveva conquistato una sola medaglia, il bronzo di Detti nei 400, fallendo tutti gli altri obiettivi che si potevano fallire. Non solo speranze di medaglia come Federica Pellegrini, ma anche la delusione di Dotto fuori da entrambe le finali (50 e 100 stile), delle staffette tornate a decine di secondi dai primi, di una serie di prestazioni ben inferiori rispetto ai migliori tempi in carriera e stagionali dei nuotatori azzurri.

Gregorio si è tuffato in vasca con molto più dei 71 kq dichiarati dalla sua scheda in Federnuoto. Aveva addosso il carico di aspettative di chi non può fallire, di chi deve solo vincere.Sulle spalle di Gregorio Paltrinieri c’era poi il macigno della deludente nazionale di nuoto azzurro.

Un cambio di passo che nessuno ha avuto il coraggio di seguire, e il vuoto alle sue spalle che piano piano diventava sempre più ampio. Quando le telecamere stringevano un po’ l’inquadratura sulla corsia numero 4 di Gregorio, non si vedeva nessun’altro nuotare. L’unica avversaria sembrava essere la linea che segnava i tempi del record del mondo di Sun Yang, il solo obiettivo che manca, oggi, alla carriera di Greg.

Un paio di corsie più in là, un altro azzurro, Gabriele Detti, chiudeva la gara aumentando il ritmo, rimontando sull’americano Wilimovsky e andando a bissare il terzo posto dei 400, confermandosi una delle sorprese più belle di Rio 2016.

Il podio con due facce azzurre, il secondo nella storia del nuoto italiano alle Olimpiadi, è un’impresa eccezionale. Rio 2016 diventa automaticamente la seconda Olimpiade più vincente del nuoto azzurro, dopo Sidney 2000. Eppure restano ancora nelle orecchie le mille interviste del dopo gara di azzurri stanchi, di carichi di lavoro sbagliati, di picchi di rendimento non ottimizzati.

Gabriele e Greg non erano stanchi, per fortuna.

Diario olimpico: Giorno 9


Giorno 8

– Ispirazione –

Michael, stavolta, era contento di perdere.

Andatevelo a vedere, il podio dei 100 farfalla. Sembra disegnato per celebrare l’addio del più grande atleta olimpico di sempre. Phelps è arrivato secondo, ma non è stato l’unico. Con lui, con lo stesso identico tempo, sono arrivati secondi anche Laszlo Cseh e Chad Le Clos, due compagni di viaggio, avversari fortissimi, rivali leali.

Se da bambino Michael Phelps avesse scelto di giocare a baseball anziché nuotare, Cseh sarebbe stato il dominatore indiscusso per più un decennio. Laszlo insegue Michael da una vita, fin dai mondiali di Barcellona 2003: oro a Phelps e argento all’ungherese. E ancora un bronzo ad Atene, tre volte argento a Pechino e così via, sempre dietro, nei misti e nella farfalla. Questa volta, l’ultima possibile, Laszlo ha raggiunto Michael, appaiato, bellissimo.

Chad Le Clos, sudafricano di 24 anni, è stato il nuotatore che ha dato a Phelps il dispiacere più grande della sua vita da atleta: la sconfitta nei 200 farfalla alle Olimpiadi di Londra. La gara di Phelps, quella con cui esordì a 16 anni al mondiale di Fukuoka 2001, vincendo l’oro con il record del mondo, il secondo di 39 (trentanove, sì). Michael si è preso la sua rivincita pochi giorni fa, tornando a dominare sui 200, Chad ha risposto sui 100, riprendendo di nuovo il suo rivale per un’ultima volta. Appaiato, bellissimo.

In cima al podio, per la prima volta nella storia olimpica, sventolava la bandiera del Singapore. Su quel gradino è salito Joseph Schooling, ventunenne che come avrete letto e visto, nel 2008 scattò una foto in compagnia del suo idolo americano: Michael Fred Phelps.

Si dice che non si dovrebbe mai incontrare i propri idoli, per non perdere quell’aurea eroica che li circonda quando noi pensiamo a loro. Joseph Schooling è andato oltre, chiudendo la carriera del suo e finendogli davanti.

Ma Michael, stavolta, era contento di perdere.

Volevo insegnare ai bambini a credere in se stessi, di non aver paura di sapere che il cielo è il limite.

La vittoria di Schooling, il bambino che 8 anni fa gli chiese una foto e oggi gli finisci davanti, dimostra che Phelps ce l’ha fatta. Ha avuto ragione lui.

Dopo 22 ori olimpici il più grande della storia ha perso la sua ultima gara individuale. Ci lascerà, molto probabilmente, con un oro olimpico questa notte nella staffetta mista. Poi, a meno di un altro quasi impossibile ripensamento, il nuotatore più forte di ogni tempo smetterà di nuotare.

Ma stavolta sarà contento.

Diario olimpico: Giorno 8

Giorno 7

– Giornata nera –

È come perdere i preliminari di Europa League contro una squadra dell’Est Europa.
Come colpire con l’auto in retromarcia l’unico palo presente nel raggio di un chilometro quadrato (storia che potrebbe essere tratto da avvenimenti realmente accaduti, ma non confermo).
Come se qualcuno viene a dirti chi è Keyser Söze alla mezzora de I soliti sospetti, come se alla radio prendesse solo il segnale di M2o.
È come bere una birra prima di scoprire che è analcolica.

La giornata nera alle Olimpiadi arriva sempre, fa sempre male e non si è mai preparati.

È arrivata ieri – giovedì 12, per gli almanacchi – e poco importa se abbiamo comunque aggiunto un bronzo al nostro medagliere.

Il quattro senza pesi leggeri, quarto, era favorito e qualificato col miglior tempo in semifinale. Petra Zublasing, quarta, era in testa fino a 6 spari di carabina dal termine della finale. Fossi e Battisti, quarti, erano candidati a una medaglia. Stephanie Horn, ottava nella canoa slalom, aveva il miglior tempo delle qualificazioni. Clemente Russo, medaglia d’argento a Londra e Pechino nel pugilato, è uscito, ai quarti. La coppia Errani-Vinci, capace di vincere 5 titoli dello Slam in doppio, è stata eliminata. Ai quarti.

Se è una punizione per essermi lamentato dei troppi secondi posti, la lezione è chiara. Peggio i quarti.

Diario olimpico: Giorno 7


Giorno 6

– Argenti –

(Pagina di diario in versione breve perché anche noi diaristi olimpici abbiamo una vita sociale, qualche volta)

Nella giornata che ha visto la più grande delusione olimpica della spedizione azzurra (Arianna Errigo, che hai combinato), preoccupa la collezione di argenti nel medagliere italiano.

Con un fare simile alla Francia di Pechino 2008, più volte derisa dal sottoscritto in quanto rivale portatrice sana di sfortuna olimpica, l’Italia di Rio sta accumulando un consistente numero di secondi posti. Fastidiosi, per natura e ad oggi addirittura maggiori, in numero, rispetto agli ori e ai bronzi sommati.

Sono sei, ad oggi, e cinque di questi (Fiamingo, Giuffrida, Pellielo, Innocenti e Di Francisca) arrivano da finali a due perse.

L’argento è medaglia il più delle volte sgradita, almeno al sottoscritto, in quanto non sposta quanto un oro e tendenzialmente comporta una sconfitta nell’atto finale alquanto fastidiosa per il tifoso dal divano.

Un’inversione di tendenza sarebbe gradita, quantomeno per poter tenere dietro la solita Francia che incombe alle spalle.

Diario olimpico: Giorno 6


Giorno 5

– 12 anni –

Breve elenco di cose presenti e successe nel 2004:

– Il Governo Berlusconi IV è il sessantesimo governo della Repubblica Italiana
– Il diciannovenne Mark Zuckerberg, studente di informatica al secondo anno, crea un nuovo sito web che avrà un certo successo
– A Sanremo vince Marco Masini, intanto fa il suo esordio nel mondo della musica il rapper Kanye West
– Il sito di gazzetta.it è fatto in questo modo
– Un giovane tennista svizzero di 23 anni, Roger Federer, diventa per la prima volta numero 1 del mondo
– La formazione d’esordio della Nazionale italiana a Euro 2004 è: Buffon; Panucci, Cannavaro, Nesta, Zambrotta; Camoranesi, C. Zanetti, Perrotta; Del Piero, Totti, Vieri
– Lionel Messi, un fantasista argentino di 17 anni, fa il suo esordio nel Barcellona
– Katie Ledecky ha appena compiuto 7 anni
– 1’56″64 è il record del mondo dei 200 stile libero di Franziska Van Almsik
– Un americano 19enne, Micheal Phelps, vince il suo primo oro olimpico ad Atene 2004

Se dodici anni sembrano tanti a qualsiasi persona, nel nuoto rappresentano un’era geologica. Con i tempi del 2004, oggi, non ci si qualificherebbe neanche in finale alle Olimpiadi. Solo due dei nomi presenti nelle starting list di allora sono ancora in attività: uno è il più grande atleta olimpico della storia dei giochi, l’altra è Federica Pellegrini.

Nessuno prima di Phelps era andato a medaglia nella stessa gara a 12 anni di distanza dalla prima Olimpiade. Ci ha provato anche Federica, ma ha fallito. Semplicemente, come già le era successo qualche volta in passato, ha fallito.

A 28 anni, nella ricorsa lenta e affannata verso il terzo posto di Emma McKeon, probabilmente Federica ha accusato per la prima volta il peso dell’età. Quella nuotata un po’ goffa e meno ritmata non era la solita. Non era la solita ultima vasca di Federica.

Eppure lei era lì, anche quest’anno, 12 anni dopo la prima volta. A giocarsi una medaglia con le migliori teenager del nuoto mondiale.  Come ai tempi in cui Messi era un canterano e Facebook un sito per universitari di Harvard.

Diario olimpico: Giorno 5


Giorno 4

– Io e Federica –

Nella mia insana e spasmodica attrazione per le Olimpiadi, Federica è stata una compagna di viaggio fedele. Appena un anno più grande di me, ha rappresentato la prima atleta della mia generazione per cui ho fatto il tifo. Me lo ricordo bene, quel 2004, quella finale dei 200 stile e quella maledetta Camelia Potec che spunta dal fondo di una corsia esterna per soffiarle il primo oro olimpico a 16 anni.

Io ne avevo 15 di anni, allora. Era la mia seconda olimpiade da divanista seriale, ma la prima vissuta sul serio. Sidney 2000, maledetto fuso orario, andava in onda nelle mattinate settembrine dei primi giorni di scuola. Io tornavo a casa e guardavo la Rai che in un’epoca pre-social poteva ancora permettersi di mandare in onda le differite senza anticipare nulla sul risultato. Ma non era la stessa cosa.

Atene 2004, quella sì che fu diversa. Di fatto a pochi chilometri da casa, con il mio stesso fuso orario e una ragazza quanto me che iniziava una carriera da fenomeno. Da allora, ogni quattro anni, io sono sempre stato davanti alla tv, lei è sempre stata in finale dei 200 stile. Siamo un po’ cresciuti insieme, io con le mie avventure e disavventure universitarie, amorose e lavorative, lei tra una gara e l’altra salendo in cima al mondo e poi scendendo giù, diventando icona e personaggio universalmente riconosciuto, amata e odiata com’è ancora.

Io, 12 anni dopo, sono ancora il divanista seriale che prova a seguire ogni evento olimpico in multitasking. Un po’ sono cambiato, per lo meno nei capelli, più corti e con qualche sfumatura in grigio. Lei è ancora la stessa Federica Pellegrini del 2004, cocciuta e determinata, sorridente e a volte anche comprensibilmente arrogante. Ed ancora, per la quarta olimpiade di fila, in finale nei 200 stile libero.

È stata al passo con i tempi, quelli dei social e della cronaca rosa, ed è stata al passo con i tempi, quelli cronometrici di una generazione dieci anni più giovane di lei. Stanotte salirà ancora una volta sul blocco di partenza, corsia 3, con speranze e sensazioni diverse. La campionessa che puntava a dominare ora deve lottare per un podio, l’ultimo.

Oggi, per l’ultima volta, aspetto i 200 stile olimpici di Federica. E un po’ mi sento invecchiato.

Diario olimpico: Giorno 4


Giorno 3

– Viva la Rai –

Avrei preferito gli anni ‘80, un unico canale Rai a trasmettere le Olimpiadi e le gare in fila una dopo l’altra, alcune in diretta e alcune in differita, senza saperlo. Ma almeno una alla volta.

In una delle più belle giornate olimpiche della storia italiana, è successo tutto nell’arco di un paio d’ore, per lo più contemporaneamente. Ho chiesto aiuto a ogni task del mio reparto multitasking per poter seguire il ciclismo e il tiro a volo, la scherma e i tuffi, il judo e il tiro con l’arco. Un paio di tv, un pc e un ipad sono bastati.

Quando Elisa Longo Borghini arriva terza al termine di un bellissimo inseguimento alla povera americana Abbott, sono passate da pochi minuti le 21:00. Ci sono i primi tuffi di Tania Cagnotto e Francesca Dallapè, che ancora non sanno che stanno andando a prendersi il primo, meritatissimo argento olimpico dietro alle solite inarrivabili cinesi.

Nel mio reparto streaming – viva la Rai e la sua copertura olimpica, davvero – si seguono le semifinali di tre atleti che molti di noi non hanno mai sentito nominare, sprovvisti alcuni di una pagina Wikipedia per potersi fingere informati. Fabio Basile e Odette Giuffrida sono due judoka (sempre che judoka al plurale resti judoka) di poco più di vent’anni. Daniele Garozzo è un giovane spadaccino del fioretto, forse l’unica disciplina olimpica in cui siamo un po’ Cina anche noi.

Li abbiamo seguiti e accompagnati fino in finale, cercando di imparare regole di sport che non ci saranno mai troppo chiare. Provando a capire i punteggi del judo, abbiamo imparato che si può vincere anche con una mossa sola, come ha fatto il nostro Fabio. E siamo rimasti in bilico e in attesa, ogni volta che si accendevano contemporaneamente la lucina verde e quella rossa del fioretto, in attesa di capire se il punto era azzurro oppure no.

Poco dopo le 23:00 avremo due ori, due argenti e un bronzo in più nel medagliere, saremo momentaneamente davanti alla Cina e agli Stati Uniti, e potremo sentire finalmente l’inno di Mameli risuonare durante le premiazioni, ma anche nelle magnifiche e anacronistiche clip immediate di mamma Rai che pure se sta facendo un lavoro meraviglioso ci tiene a non dimenticare la sua anima anni ‘80.

Abbiamo vissuto una giornata che è l’essenza dei giochi olimpici. Cinque medaglie in un giorno, quasi tutte in sport poco conosciuti e da gente che fino a due giorni fa non conoscevamo. Sudate e inaspettate. Le più belle.

 

Diario olimpico: Giorno 3

Giorno 2

– Dare e Avere-

Se non avete mai avuto a che fare con la partita doppia e il concetto di dare e avere, ritenetevi fortunati.

Personalmente non è che mi si sia stata mai chiarissimo, e anzi credo che ai tempi dell’esame di Economia Aziendale abbia inventato un metodo alternativo ma comunque efficace per compilare la partita doppia. Provando a spiegare semplicemente, detto in un modo che spaventerebbe qualsiasi economista, la partita doppia mette a bilancio ciò che c’è nel lato del dare con ciò che c’è nel lato dell’avere.

Nello sport, solitamente è la fortuna ad andare a bilancio nel dare e nell’avere. Lo sa bene Vincenzo Nibali, che tornò in corsa per la vittoria dello scorso Giro d’Italia quando la maglia rosa, Kruijswijk, cadde rovinosamente nella discesa del Colle dell’Agnello. Fu il preludio alla rimonta dello Squalo siciliano, che poi riuscì a vincere il suo secondo Giro in carriera.

Il bilancio con la fortuna, però, era ancora in debito con il dare. Vincenzo l’ha saldato in quella curva in discesa mentre era in fuga verso una possibile medaglia, a una velocità tale che la moto ripresa non stava dietro ai ciclisti, tanto che non vedremo mai un frammento precedente all’immagine di un Nibali disperato a terra, pochi metri più avanti rispetto al compagno d’attacco Henao.

Sarà sempre in positivo, invece, il bilancio di Marco Galiazzo, tre volte a medaglia nel tiro con l’arco, in tre Olimpiadi differenti, una volta in singolo e due volte in squadra. Sarà stato per questo motivo che è stato selezionato a sorpresa dal c.t. azzurro, una sorta di amuleto con quella faccia bonacciona, il look un po’ retrò e l’immancabile cappello da pescatore.

Ha scelto l’ultima Olimpiade per riempire la casella del dare, fermandosi ai 6 e agli 8 quando gli avversari inanellavano 10 a ripetizione.

 

Diario olimpico: Giorno 2

Giorno 1

– Partecipare –

La cerimonia di inaugurazione delle Olimpiadi è un ottimo strumento utile alla memoria.

Guardando quei pezzi di mondo presentarsi davanti agli occhi, uno dopo l’altro in quel modo disordinato e con quel fare un po’ infantile, l’occhio si è fermato più a lungo su alcuni interessanti particolari delle delegazioni lettoni e montenegrine, la mente non ha potuto fare a meno di tornare a scavare tra i cassetti della memoria, in cerca di risposte.

Da piccolo, avevo avuto questa strana idea di voler imparare i nomi di tutti gli Stati del mondo, tutte le loro capitali, ogni colore e ogni forma delle loro bandiere. Il compito auto-indotto naufragò nel momento del passaggio dall’America latina all’Africa, rivelatosi molto più complesso del previsto.

A vederle uscire tutte e tre una dopo l’altra, ho capito un possibile motivo del fallimento della mia iniziativa fanciullesca. Non era ancora chiaro, allora, che le Guinee nel mondo sono tre, che c’è una Guinea semplice, senza aggettivi, una Guinea Bissau e una Guinea Equatoriale.

Tutte e tre hanno avuto colonizzazioni differenti: i francesi nella Guinea senza aggettivi, i portoghesi nella Guinea Bissau, gli spagnoli nella Guinea Equatoriale. Oggi, sono tutti lì, i nipoti dei colonizzatori europei e i figli guineani, e possono partecipare e sfidarsi nelle discipline dei Giochi, insieme ai coreani del nord e ai coreani del sud, insieme a israeliani e palestinesi, insieme al team dei rifugiati fuggiti dalle guerre di Siria, Sudan, Etiopia, Congo.

Che poi, come diceva un tale famoso un centinaio di anni fa, è l’essenza stessa dello sport, partecipare.

 

Diario Olimpico: Giorno 1

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