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20 album rock che compiono 50 anni nel 2017

album che compiono 50 anni nel 2017
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Per chi ama il rock il 2017 non è un anno qualsiasi. È l’anno in cui molti album che abbiamo ascoltato e amato raggiungono il rotondo traguardo dei 50 anni.

Le eredità sonore del 1967 sono rintracciabili fino ai nostri giorni e in quegli intensi dodici mesi debuttano artisti e band che segneranno i decenni successivi: Doors, Pink Floyd, Velvet Underground, Jimi Hendrix, David Bowie, Janis Joplin, Leonard Cohen, Cat Stevens, Van Morrison, Procol Harum.

È l’anno in cui, tra gli altri, i Beatles incidono un disco leggendario all’apice della loro creatività, gli Stones strizzano l’occhio al pop e alla psichedelia, Neil Young cerca ancora la sua strada musicale e Dylan ritorna sulle scene con sound acustici.

È l’anno in cui si affacciano molte tensioni politiche e sociali che esploderanno nel 1968 e che cominciano a pervadere anche la musica che, a partire dagli Stati Uniti, vive il passaggio da una stagione di sogni e speranze a una di violenza e contestazione.

In Europa il benessere acquisito e l’effervescenza della scena culturale londinese favoriscono la nascita e il consolidamento di una generazione di artisti unica e forse irripetibile.

In Italia si sono già fatti sentire i primi vagiti beat, e dietro alla moda dei “capelloni” in pochi intravedono il manifestarsi di una nascente consapevolezza politica. Nel 1967 tutto sembra ancora sopito, ma la musica comincia a muoversi in quella direzione, con l’esordio di due cantautori destinati a occupare un posto d’onore nella cultura italiana: Fabrizio de André e Francesco Guccini.

Proviamo a sintetizzare tutti questi movimenti, musicali, sociali, politici, in 20 album rock che compiono 50 anni nel 2017. Dischi che alla loro età ancora sanno parlarci ed emozionarci.

20 album che compiono 50 anni nel 2017

1. Between the Buttons – The Rolling Stones

https://www.youtube.com/watch?v=-YJXfcndyvU

Odio quel disco del cazzo

dirà vent’anni dopo Mick Jagger. Il tono smaccatamente pop di Between the Buttons lo ha sempre disturbato, ma è grazie a questi pezzi – e a quelli del disco precedente – che gli Stones diventano gli idoli di milioni di giovani fan.

Le canzoni vendono, i concerti sono sold out e a poco più di 24 anni i cinque ragazzi inglesi possiedono già ville e auto e flirtano apertamente con droga e alcool. Brian Jones è ancora la mente creativa del gruppo, ma la sua lucidità sta gradualmente svanendo.

Le sonorità dell’album ammiccano a quella fascia di pubblico in cerca di easy listening e melodie accattivanti: le canzoni sono effettivamente notevoli e orecchiabili, con riff e chitarre in stile Kinks, ma nulla a che vedere con il tirato rock-blues degli anni a seguire o con la complessità e i ricami sonori di Their Satanic Majesties Request, l’album che uscirà alla fine dello stesso anno e che aprirà e chiuderà l’esperienza degli Stones con la musica psichedelica.

Di fatto, Between the Buttons segna la fine di una fase della band: lo scarso controllo sulla produzione discografica e sulla carriera produce, per lo stesso album, due setlist differenti nel Regno Unito e negli Stati Uniti. La versione americana, contrariamente a quella inglese, contiene l’ammiccante e travolgente Let’s Spend the Night Together e Ruby Tuesday, una delle migliori creazioni pop della coppia Jagger-Richards.

2. The Doors – The Doors

La trasformazione di un timido e introverso studente universitario in un magnetico animale da palcoscenico. La fusione tra ricercati riferimenti letterari e rock psichedelico. L’invenzione di un sound unico, quasi un marchio di fabbrica, impreziosito dall’abilità con cui Ray Manzarek suona con una mano la linea di basso-tastiera e con l’altra l’organo.

Queste e molte altre sono le storie che stanno dentro a questo formidabile debutto. Dalle serate nei locali di Los Angeles, in cui Jim Morrison canta dando le spalle al pubblico per l’eccessiva timidezza, alla pubblicazione, nel gennaio del 1967 di The Doors, passano pochi mesi, e pochi anni passano dal primo al sesto e ultimo disco della formazione, nel 1971.

Quattro anni vissuti al massimo, calcando i più importanti palcoscenici, conoscendo il clamore della ribalta e il sapore odioso della repressione, fino alla fine, ingloriosa, del ventisettenne Jim in una vasca da bagno parigina.

Il 1967 è l’anno della Summer of Love a San Francisco, ma è anche l’anno in cui le violenze tra la popolazione nera e le forze dell’ordine raggiungono picchi allarmanti. La musica dei Doors si inserisce in questa rabbia strisciante, parte dalla California per penetrare nel ventre degli Stati Uniti, e oltre, parlando a schiere di giovani che non aspettavano altro che una scossa, un varco aperto, una porta attraverso cui intravedere un mondo diverso.

L’album parte subito fortissimo, Break on Through (To the Other Side) ne è l’apertura, un manifesto d’intenti. The End ne è la chiusura, ovviamente, ed è un capolavoro musical-poetico di undici minuti con ritmi ammalianti e inquietanti scenari edipici, quasi una dichiarazione d’amore verso la morte.

In mezzo tante citazioni, da Brecht (Alabama Song) a Blake e Celine (End of the Night), molto organo e naturalmente la hit Light My Fire. Divenuta un classico del rock, nella sua versione originale dura oltre sette minuti e tiene assieme un testo tutto sommato piatto e una parte strumentale di straordinaria efficacia e bellezza. L’intro è guidata dalla tastiera di Manzarek e il lungo intermezzo strumentale trascina l’ascoltatore in un flusso di sonorità ondeggianti e ipnotiche fino all’esplosione finale.

La furia creativa dei Doors è tale che, nello stesso anno, incidono e pubblicano il secondo LP, Strange Days, ma senza raggiungere la forza e l’immediatezza del primo.

3. Surrealistic Pillow – Jefferson Airplane

La Summer of Love del 1967 raccoglie a San Francisco hippie, sognatori e artisti da tutti gli Stati Uniti, dando vita a quel movimento che si ritroverà nei vari festival, Woodstock su tutti, e nelle esperienze di vita comunitaria all’insegna del ritorno alla natura, dell’uso creativo delle droghe leggere e degli acidi, del pacifismo e dell’amore.

Grace Slick è una giovane cantante e compositrice, suona con il marito nei Great Society e nella città californiana è conosciuta e apprezzata, ma è con il suo passaggio ai Jefferson Airplane che le sue performance passeranno alla storia.

L’album che a febbraio compie cinquant’anni è la colonna sonora di quei mesi colorati e surreali. Grace porta in dote al nuovo gruppo due pezzi da novanta che diverranno pietre miliari nella sua carriera, White Rabbit e Somebody To Love. La prima ha un ritmo marziale e un crescendo inarrestabile, ispirata ad Alice nel paese delle meraviglie e alle sensazioni procurate dall’acido lisergico; la seconda è un inno all’amore e mostra tutte le doti vocali della cantante.

Jerry Garcia, leader dei Grateful Dead, partecipa alle sessioni di registrazione e a una sua battuta si deve il titolo dell’album:

This music is as surrealistic as a pillow

La base musicale è ancorata al folk-rock, sdoganato anni prima da Dylan, ma su quella base si innestano intrecci acustici e atmosfere eteree che suggeriscono realtà parallele, sogni apocalittici e mondi possibili.

4. Younger Than Yesterday – The Byrds

Quella dei Byrds è un’avventura musicale strana, forse sottostimata, di certo spiazzante. Mai troppo famosi da poter sfondare anche in Europa, ma protagonisti indiscussi della scena californiana. Meno politicizzati di altre band, ma in grado di catturare lo spirito dei tempi e non sfigurare al Monterey International Pop Festival, l’happening musical-artistico del giugno ’67 che anticipa Woodstock.

Scossi da tensioni interne tra i membri, ma capaci di guadagnarsi la fiducia di Bob Dylan, che affida loro ben dodici suoi pezzi, tra cui Mr. Tambourine Man e Chimes of Freedom. Anche in Younger Than Yesterday c’è, immancabile, una cover di Dylan: la bellissima e riflessiva My Back Pages, qui impreziosita dai fiati. Una strofa del testo, leggermente modificata, viene addirittura scelta come titolo del disco:

Ah, but I was so much older then / I’m younger than that now

cantava Zimmerman guardando al suo passato (e aveva solo 23 anni!) con feroce autocritica. La critica, mischiata a della sana ironia, è presente anche nell’altro brano di punta, So You Want to Be a Rock’n’Roll Star. Prendendo di mira le nascenti ed effimere giovani stelle del rock, il testo sprigiona veleno sull’industria discografica alla costante ricerca di nuovi idoli musicali costruiti a tavolino da dare in pasto a folle adoranti. Un pezzo che ha qualcosa da dire anche oggi.

Lo stile dell’album è nel solco dei precedenti dei Byrds: polifonie vocali, canti corali e predominio sonoro delle chitarre, tra cui l’inconfondibile dodici corde elettrica suonata da Roger McGuinn che duetta con gli ipnotici accompagnamenti di David Crosby, più tardi pilastro dei Crosby, Stills, Nash & Young. È grazie a questo sound che Younger Than Yesterday continua a suonare fresco e giovanile.

5. The Velvet Underground & Nico – The Velvet Underground

https://www.youtube.com/watch?v=hugY9CwhfzE

A marzo compie cinquant’anni il debutto discografico più spiazzante di tutti. Una copertina entrata di diritto nell’immaginario collettivo e la prima nella storia del rock a raffigurare un simbolo erotico così esplicito.

Un suono brutale e cavernoso intervallato da dolci melodie come la prima delicata traccia Sunday Morning. Una formazione frutto di quelle congiunture astrali che fanno convergere nello stesso posto e nello stesso momento personaggi nel pieno della loro creatività.

Andy Warhol produce il disco e dirige quel carrozzone super cool che è la Factory, vera e propria comunità e fucina di talenti nella New York degli anni sessanta.

Lou Reed è un giovane chitarrista complessato reduce da elettroshock ma con lo sguardo ben focalizzato sulla realtà metropolitana che lo circonda e sulle sue creature notturne. John Cale spreme la sua viola elettrica e altri strumenti insoliti approntati per l’occasione fino a produrre suoni stridenti e ipnotici. Maureen Tucker è una delle prime batteriste donna del rock e pesta sui tamburi ispirata dal percussionista nigeriano Babatunde. Nico è la bionda modella tedesca che Warhol suggerisce di coinvolgere per rendere il tutto più accattivante e fuori dagli schemi: la sua voce, presente in tre tracce, è inconfondibile e scandisce con freddezza le liriche di Reed.

Sono almeno tre i protagonisti delle undici canzoni dell’album: New York con i suoi incroci, quartieri e strade, lo scenario dentro al quale prendono forma storie e incubi; l’amore, spesso cinico e disperato, anche comprato, e nelle sue varie forme, compreso il sadomasochismo di Venus in Furs; la droga, sublime sottinteso di I’m Waiting For the Man in cui un giovane bianco aspetta con ansia il suo spacciatore di fiducia nel cuore di Harlem, e apertamente citata in Heroin, dichiarazione d’amore verso l’eroina, con tanto di descrizione dell’ago in vena e delle sensazioni di annullamento conseguenti.

The Velvet Underground & Nico vende pochissimo nel 1967, ma traccia una strada alternativa tanto all’universo hippie della West Coast quanto a quello beat-pop londinese. Una strada più oscura e tormentata, ma fonte d’ispirazione per decine e decine di band a seguire, incluse quelle punk. Brian Eno, parlando del disco, affermò:

The first Velvet Underground album only sold 10,000 copies, but everyone who bought it formed a band.

6. Matthew & Son – Cat Stevens

È difficile immaginare di poter diventare un cantante di successo quando ti trovi doppiamente straniero in terra straniera, ma nella frenetica e creativa Londra degli anni sessanta tutto è possibile.

Steven Demetre Georgiou è figlio di padre greco-cipriota e madre svedese, vive a Soho sopra il ristorante di famiglia e sogna, come tanti, di poter cantare i testi che scribacchia nella sua stanzetta. Un’amica apprezza particolarmente gli occhi del giovane Steven, dicendo che somigliano a quelli di un gatto: da qui il nome d’arte, Cat Stevens, con cui si è fatto conoscere al grande pubblico.

Il debutto discografico avviene, anche per lui, nel fatidico 1967, ma passa abbastanza inosservato. Le influenze beatlesiane, gli echi dell’R’n’B d’oltreoceano e la fascinazione per Simon & Garfunkel rendono Matthew & Son un album poco originale e Stevens un prodotto pop commerciale tipico del periodo.

A ben vedere, tuttavia, la title-track contiene degli accenni di critica sociale tutt’altro che trascurabili. La ditta Matthew & Son – nome di fantasia – costringe i propri operai, e tra questi l’allora ragazza di Cat, a turni massacranti, concede loro pause ridottissime e paga stipendi da fame.

La carriera di Stevens decollerà qualche anno più tardi, dopo un periodo di riflessione e l’introduzione di sonorità più acustiche su cui modellare la sua calda voce.

7. Are You Experienced? – The Jimi Hendrix Experience

In primavera compie 50 anni il disco che fece entrare Jimi Hendrix nella storia del rock. Come altri della sua generazione, si brucerà molto velocemente, ma lascerà un’eredità musicale da cui attingeranno in molti.

Con sangue africano e cherokee nelle vene, il giovane Jimi lascia presto la natia Seattle per girare freneticamente da una città all’altra degli States e affinare sempre più lo stile chitarristico. Di band in band gradualmente si sposta verso est, prima a Nashville, poi a New York e nel 1966 a Londra.

La Jimi Hendrix Experience, il trio che mette assieme nella capitale inglese, è il primo gruppo che convince pienamente il chitarrista, mettendolo nelle condizioni di creare liberamente e fare uscire dal proprio strumento suoni e vibrazioni vicini a quelli del suo idolo Clapton intrecciati con la tradizione blues afroamericana.

Ma la pasta sonora degli Experience è un amalgama originale di distorsioni, percussioni aggressive e assoli mai sentiti prima. I potenti riff trascinano i brani e la voce da bluesman di Jimi snocciola avventure impossibili e visioni psichedeliche.

Are you experienced? esce nel maggio del ’67 e svela all’Inghilterra tutto il suo talento, con pezzi infuocati divenuti classici del genere come Purple Haze, Foxy Lady, Hey Joe, The Wind Cries Mary.

Per conquistare anche il mercato americano a Hendrix basta un’esibizione di quaranta minuti in California, durante il Monterey International Pop Festival nel giugno dello stesso anno. Prima di lui gli Who fanno a pezzi sul palco i loro strumenti al termine di un’energica setlist. Jimi spreme la sua chitarra ispirato dalle due tavolette di acido ingerite poco prima, la scuote, la suona con i denti e alla fine dell’esibizione le dà fuoco. L’incredibile anno di Hendrix continua con un altro disco memorabile, Axis: Bold as Love, e decine di altre incendiarie performance.

8. Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band – The Beatles

Alla fine di agosto del 1966 i Beatles, già famosi in tutto il mondo ma stanchi di essere assediati da frotte di fan e di essere considerati quattro bravi ragazzotti dalla faccia pulita, si ritirano dai concerti interrompendo la propria tournée americana. Ci sono momenti in cui, per non soccombere alla routine e per non girare a vuoto, occorre azzerare e ripartire.

Questa è stata l’idea di Paul McCartney dopo quell’estate, e questa è stata la linea condivisa e seguita da John, George e Ringo.

Ci eravamo stufati di essere Beatles. Non eravamo più ragazzi, ma uomini; artisti, non esecutori

dirà qualche tempo dopo McCartney, sottolineando la necessità di portare dentro le strofe e le melodie qualcosa di innovativo e di sfacciatamente artistico. Le oltre 700 ore in quasi 130 giorni di registrazione testimoniano la volontà dei Fab Four di lavorare su ogni più piccolo dettaglio utile a produrre un album epico e capace di sconvolgere i canoni della forma-canzone e le modalità di lavoro.

Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band riassume dentro sé l’estrema libertà creativa dei quattro, riscontrabile fin dalla copertina del disco, una delle più famose della storia del rock.

Costata quasi tremila sterline (un prezzo folle per l’epoca), ritrae oltre ai Beatles un insieme di personaggi in un collage surreale e colorato, tra cui Marlon Brando, Edgar Allan Poe, Bob Dylan, Stan Laurel, Marilyn Monroe, James Dean, Lawrence d’Arabia, Lewis Carroll e un’infinità di oggetti più e meno simbolici.

Inizialmente le canzoni avrebbero dovuto essere legate da un filo conduttore tematico (la nostalgia per l’infanzia a Liverpool), ma durante le sessioni di registrazione la fantasia e la sperimentazione testuale e sonora prendono il sopravvento. La qualità e la quantità delle creazioni è tale che persino due pezzi strepitosi come Penny Lane e Strawberry Fields Forever rimangono escluse dal disco, uscendo nel febbraio del ’67 come 45 giri.

Nell’album trovano invece spazio le sonorità orientaleggianti di Within You Without You, le visioni celestiali di Lucy in the Sky with Diamonds, le melodie eleganti di With a Little Help from my Friends e la potente suite A day in the Life. Solamente per produrre quest’ultima traccia i Beatles ingaggiano quaranta elementi di un’orchestra sinfonica e chiedono agli amici Mick Jagger, Keith Richards e Donovan di unirsi ai cori. Il pezzo è forse la summa della capacità compositiva della coppia Lennon-McCartney, mescolando elementi jazz, accordi di pianoforte, strofe nostalgiche e un frenetico crescendo.

9. David Bowie – David Bowie

La classica falsa partenza. Non è stata una grande idea fare uscire il proprio album d’esordio nello stesso giorno – e nella stessa città – in cui i Beatles invadono gli store e le radio con Sgt. Pepper’s.

Il giovane David Jones, dai sobborghi meridionali di Londra, ha già fatto un po’ di gavetta, studia mimica e teatro e dal 1964 prova incessantemente a sfondare nel mondo della musica con effimere formazioni e tentativi pop sullo stile di Who e Kinks. Ma il risultato è ancora acerbo e i testi girano attorno ad amori post adolescenziali, vita di provincia e storie di musicisti squattrinati.
David Bowie contiene sonorità vaudeville, sperimentazioni orchestrali, strimpellate folk e pochissimi indizi su quella che sarà la stupefacente carriera di mr. Jones.

Di lì a due anni avrebbe indovinato il singolo di successo, Space Oddity ed esplorato ben altri universi musicali. L’album di debutto passa quindi nell’indifferenza generale e Bowie trascorre la Summer of Love del 1967 da perfetto sconosciuto esibendosi per Londra e dintorni con un gruppo di mimi. Di questo disco, di cui negli anni a seguire il cantante dirà:

Che brividi… Non ho molto da dire in suo favore. Musicalmente è piuttosto bizzarro. Non ho idea di dove mi trovassi

ricordiamo Silly Boy Blue, il suo primo omaggio al Tibet e al buddismo, la nostalgica When I Live My Dream – che ebbe un certo successo come accompagnamento di uno spettacolo teatrale dell’epoca – e l’apparentemente frivola Love You Till Tuesday, pensata e promossa dai manager come singolo.

10. The Piper at the Gates of Dawn – Pink Floyd

https://www.youtube.com/watch?v=wbIMx2MYNXk

Secondo alcuni critici musicali è il miglior debutto discografico nella storia del rock, ma si sa, i gusti sono soggettivi e i Pink Floyd hanno spesso goduto degli apprezzamenti della stampa specializzata. Registrato negli stessi studi di Abbey Road dove i Beatles stavano incidendo Sgt. Pepper’s, il disco riesce nel tentativo di fissare su vinile le sonorità che caratterizzavano le prime esibizioni live della band.

Le jam session strumentali a cui Waters, Wright, Mason e Barrett avevano abituato il proprio pubblico londinese vengono trasposte nella più convenzionale forma-canzone, tranne Interstellar Overdrive, oltre nove minuti di viaggio sonoro ai confini dell’universo, con riff discendenti e code di rumori. Anche altri brani trattano il tema delle esplorazioni spaziali e delle percezioni extrasensoriali, suggerendo, nemmeno tanto velatamente, il parallelismo tra i viaggi cosmici e i viaggi della mente indotti dall’LSD.

I testi cercano di descrivere allucinazioni, visioni e personaggi fiabeschi (compreso il pifferaio del titolo) ispirati dalle esperienze lisergiche dei quattro e contribuiscono, assieme a quelli dei Beatles, a portare il pop inglese verso i territori inesplorati della psichedelia.

Syd Barrett è la vera mente di The Piper at the Gates of Dawn, ma l’eccesso di droghe e allucinogeni compromette seriamente la sua permanenza nel gruppo già prima dell’uscita dell’album, nell’agosto ‘67. Comportamenti sempre più enigmatici e folli e continue fughe da concerti e studi di registrazione rendono teso e improduttivo il rapporto all’interno della formazione.

Dopo l’album d’esordio, che raccoglie successi sia di critica che di pubblico, i Pink Floyd riescono faticosamente a registrare e pubblicare il secondo disco, ma le strade di Barrett e degli altri membri si separano poco dopo. Il 1967 è quindi l’anno dell’ascesa di un gruppo che saprà cavalcare sontuosamente il decennio dei settanta con LP leggendari, ma anche il canto del cigno di un artista tanto geniale quanto fragile.

11. Big Brother and the Holding Company Featuring Janis Joplin – Big Brother and the Holding Company

In agosto si celebrano 50 anni dal debutto in studio di un altro mito della scena rock anglosassone: la cantante – e aspirante sociologa! – Janis Joplin. Probabilmente ispirata dai canti e dai ritmi afroamericani, la giovane texana si avvicina al blues e incanala nella voce, sporca e struggente, le proprie inquietudini e i propri demoni interiori.

Dopo alcune fugaci esperienze californiane, la fortuna si presenta a Janis sotto forma di un impresario musicale che le propone di unirsi ai Big Brother and the Holding Company come vocalist. Il primo, omonimo, album esce qualche mese dopo la strepitosa performance della Joplin al Monterey International Pop Festival, con una versione di Ball and Chain. La sua voce non si risparmia, si spezza sulle note più alte e riempie strofe e ritornelli con calda sensualità.

La California diventa la sua base, i fan la consacrano paladina dei diritti delle donne e dei neri e la sua vita corre pericolosamente tra sbronze colossali, dosi di eroina e litigi furiosi con amanti, manager e forze dell’ordine. La continua ricerca della perfezione vocale e musicale la porterà a cambiare altre due formazioni con cui inciderà i successivi album, prima della morte, a soli ventisette anni, in una stanza d’albergo di Hollywood nell’ottobre del 1970.

12. Procol Harum – Procol Harum

Un altro folgorante debutto che nel 2017 compirà cinquant’anni tondi tondi: Procol Harum. Il disco, che esce nel settembre del ’67, è trainato dal famosissimo singolo A Whiter Shade of Pale, in testa alle classifiche inglesi per sei settimane, ma capace di imporsi anche nel resto d’Europa (nove settimane di permanenza al primo posto in Francia, sette in Italia, otto nei Paesi Bassi, cinque in Irlanda, due in Germania).

È, forse, uno dei primi casi di hit globale nella storia rock, in grado di conquistare milioni di ascoltatori e di vendere altrettanto bene in versioni coverizzate e tradotte, tra cui la mogoliana Senza luce interpretata dai Dik Dik.

Il brano è una felice intuizione del gruppo appena formatosi e fonde con furbizia musica classica e soft-rock. Le note introduttive suonate dall’organo Hammond, vero marchio di fabbrica dei Procol Harum, ricalcano l’Aria sulla quarta corda di Bach e invitano il pubblico a entrare in un mondo ovattato e sognante. Su questi accordi si innesta il ritornello che ricorda la classica When a Man Loves a Woman di Percy Sledge. Insomma, una canzone ben confezionata, dal testo criptico (e per questo universale e adattabile a tutto e tutti) e con un sound innovativo per l’epoca.

Il resto dell’album non è tuttavia un riempitivo – nella versione inglese A Whiter Shade of Pale non viene nemmeno inserita, ma pubblicata su 45 giri – e contiene pezzi notevoli come Conquistador e Repent Walpurgis, anch’essa con l’organo bene in evidenza a ricamare atmosfere dolci e accattivanti per cuori infranti e delusi di ogni sorta.

13. Blowin’ Your Mind! – Van Morrison

Artista schivo ma dall’enorme talento vocale e compositivo, il cantante e polistrumentista Van Morrison raggiunge nel 2017 il traguardo dei cinquant’anni di carriera solista. Tanti, infatti, sono gli anni trascorsi dalla pubblicazione di Blowin’ Your Mind!, prima tappa di un lungo e apprezzabile cammino nei territori del folk, del blues e del soul.

Dalla natia Belfast muove i primi passi nel periferico contesto nordirlandese, tra pub, scantinati e piccole sale di registrazione: con i Them, di cui è leader-cantante-armonicista-sassofonista, incide due LP e alcuni singoli, tra cui la hit Gloria, poi coverizzata anche da Doors e Patti Smith.

Nel 1966 Morrison lascia la band e nei primi mesi dell’anno seguente mette insieme il suo primo disco solista, spinto dal suo manager e dall’etichetta per cui è sotto contratto. Il risultato lascia insoddisfatto il musicista, che prima di tornare a registrare il successivo e sublime Astral Weeks (1968) passa un periodo di depressione e alcolismo e si trasferisce a Boston.

Tuttavia, Blowin’ Your Mind! va ricordato per almeno due pezzi magistrali e per le suggestioni blues e folk che “Van the Man” infonde per tutto l’album. Brown Eyed Girl è la perfetta canzone trascinante ma non banale con una base musicale accattivante e un cantato coinvolgente impreziosito da cori in stile soul. T.B. Sheets è l’altro colpo da maestro: oltre nove minuti e mezzo di struggente armonica, chitarra e organo per un blues che parla della tubercolosi e dell’inevitabilità della morte. Si narra che al termine dell’incisione Morrison sia scoppiato a piangere.

14. Chelsea Girl – Nico

https://www.youtube.com/watch?v=BKGigEzIBaY

Forse nessun personaggio del jet-set newyorkese ha incarnato più di Nico la creatività, la libertà e la voglia di sperimentare tipici di quell’anno magico. Quando nel 1960 Christa Päffgen arriva a New York si fa già chiamare Nico e ha alle spalle parecchie cose, tra cui l’infanzia con un padre pazzo a Berlino, il lavoro come modella in Germania e a Parigi e una breve parte ne La dolce vita di Fellini.

Negli Stati Uniti, oltre a una relazione con Alain Delon da cui avrà un figlio, frequenta gli ambienti più alternativi e avanguardisti di New York. Conosce Brian Jones dei Rolling Stones, con cui ha una breve liason, poi Jimmy Page dei futuri Led Zeppelin, Jim Morrison, Leonard Cohen, poi Bob Dylan e tramite lui Andy Warhol e quindi Lou Reed.

Scelta come cantante da accompagnare ai Velvet Underground, diventa una delle muse ispiratrici della Factory ed è in quel contesto culturale che incide, cinquant’anni fa, il suo primo album da solista. Chelsea Girl è un chiaro riferimento al film Chelsea Girls che lo stesso Warhol aveva girato poco tempo prima ed è un disco lontano tanto dai suoni psichedelici della West Coast quanto dai sussulti pop e R’n’B inglesi.

Si riscontra una certa continuità musicale con il sound dei Velvet Underground, i cui componenti suonano in alcune tracce, ma ciò che spicca maggiormente è la voce algida e avvolgente di Nico. La musica è priva di percussioni e bassi e alle chitarre e tastiere vengono aggiunti in post-produzione archi e flauti, senza il consenso della cantante.

Il risultato è un continuum sonoro a tratti spettrale e angosciante, ma con alcuni pezzi di struggente bellezza come la title-track, un lungo racconto dei frequentatori del leggendario Chelsea Hotel di Manhattan e Wrap Your Troubles in Dreams, entrambe composte da Lou Reed, The Fairest of the Season e These Days composte da un ancora sconosciuto Jackson Browne e forse la canzone più riuscita dell’album, I’ll Keep It with Mine, scritta anni prima da Bob Dylan, mai pubblicata ufficialmente e generosamente donata a Nico.

15. Buffalo Springfield Again – Buffalo Springfield

Me ne andai da Toronto a diciott’anni, assieme a Bruce Palmer. Avevamo un carro funebre nero Pontiac del 1953. Guidammo fino a Los Angeles perché era lì che c’era il sole.

È il 1966 e il sole ricercato da Neil Young e dal suo amico è quello della California colorata ed effervescente di quegli anni, il fulcro della controcultura hippie. Nascono in quell’anno i Buffalo Springfield, e oltre a Young nella formazione spicca il talento di Stephen Stills: il sodalizio tra i due prosegue con il super-gruppo Crosby, Stills, Nash & Young e con varie collaborazioni fino ai giorni nostri.

Dopo il primo album, una miscela di blues, soul e folk con testi ermetici composti da tutti i membri, e dopo il fortunato singolo For What It’s Worth ispirato ai violenti scontri tra manifestanti per la pace in Vietnam e polizia di L.A., nel novembre di cinquant’anni fa esce il secondo LP, Buffalo Springfield Again.

È il momento più alto della carriera della band, il picco creativo che permette di affinare sonorità e abilità compositive capaci di produrre pezzi freschissimi, potenti e profondi. L’unica pecca del disco è la sua eccessiva frammentarietà, come se ciascun componente avesse scritto dei brani seguendo il proprio stile personale e soddisfacendo le proprie necessità musicali.

Così si susseguono ballate folk e soul (Good Time Boy), blues elettrici (Mr. Soul e Bluebird) e patchwork psichedelici-sinfonici come i due capolavori frutto del solitario genio compositivo di Neil Young, già allora noto per il suo stile chitarristico sregolato e la sua voce nasale e tenorile.

Broken Arrow è un collage sonoro di grande suggestione e con continui cambi di tempo, tono e interpretazioni vocali. La “freccia spezzata” è un simbolo di pace dei nativi americani, indica la fine di una guerra con molte perdite; il brano è dedicato al bassista dei Buffalo che lascia la formazione proprio nel ’67.

Expecting to Fly è invece una delle prime confessioni in musica di Neil. Impreziosita da un ricco arrangiamento orchestrale, la canzone richiede più di tre settimane di registrazione e missaggio per raggiungere il “muro del suono” che il cantautore ha in mente. Il testo consolida l’immagine oscura e malinconicamente sfuggente di Young, con versi molto nostalgici:

I tried so hard to stand / As I stumbled and fell / To the ground / So hard to laugh as I fumbled / And reached for the love I’d found / Knowing it was gone.

È il brano, perfetto e puntuale, che si ascolta nelle scene finali di Paura e delirio a Las Vegas, quando Raoul Duke batte a macchina quello che potremmo definire l’epitaffio per quegli anni folli in cui tutto sembrava possibile.

16. Forever Changes – Love

https://www.youtube.com/watch?v=_X3HKEC68EM

Ho letto da qualche parte che, quando gli chiedevano quali fossero i suoi riferimenti musicali, Jim Morrison rispondeva sempre

Elvis e i Love.

Mentre il primo è un evergreen ultra-citato (e ultra-imitato), i Love sono una risposta per nulla scontata. Formatasi a Los Angeles nel 1965, all’inizio la band è un tipico prodotto dell’epoca, pur avendo – tra i primi nella storia del rock – una composizione etnica mista: il frontman e chitarrista Arthur Lee è afroamericano.

Dopo due dischi nel solco dei Byrds e del folk psichedelico, i Love incidono il loro capolavoro, che nel 2017 spegne cinquanta candeline. Forever Changes è un album pazzesco, intricato, ambizioso e grandioso. Lee e MacLean, i due leader, ingaggiano una sfida compositiva che sfocia in pezzi di altissimo livello, sia nei testi (malinconici e lontani dalla spensieratezza hippie) sia nelle sonorità.

Gli arrangiamenti sono curati minuziosamente, nonostante lo stato di costante tossicodipendenza dei membri, e la musica intreccia blues, jazz, note di flamenco e beat. Gli archi sono molto presenti e accompagnano le melodie, incredibilmente orecchiabili, a tratti ariose (Alone Again Or, You Set the Scene) a tratti freneticamente ritmate (Bummer in the Summer, The Daily Planet).

Il risultato complessivo è un album che trasuda malinconia e dipinge atmosfere oniriche. Arthur Lee è ossessionato dalla morte, canta quelle che lui stesso definisce “le ultime cose che avrei detto a questo pianeta” e il titolo del disco pare essere un sottile riferimento, appunto, alla morte e alla sua irreversibilità (“cambiamenti per sempre”).

Durante le fasi di registrazione i Love sono sull’orlo dello scioglimento, con i problemi di coesistenza tra i cinque componenti accentuati dall’abuso di LSD ed eroina, ma è forse questo stato di tensione e agitazione a produrre la magia stilistica ancora oggi apprezzabile.

17. John Wesley Harding – Bob Dylan

A 25 anni Robert Allen Zimmerman è un affermato cantautore. Ha già pubblicato sette LP, ognuno con una sua storia dietro, ognuno con un’energia diversa ad alimentarlo. Si è già esibito in centinaia di concerti, dagli oscuri café del Greenwich Village ai festival internazionali, passando per la storica performance del 1963 durante la Marcia su Washington in cui Martin Luther King pronuncia il suo discorso “I have a dream” e il ventiduenne Bob canta i suoi pezzi davanti a migliaia di manifestanti.

Ha già alle spalle la “svolta elettrica” con cui abbandona il folk innestandoci sopra potenti strumentazioni elettriche e ha già inciso il primo album doppio della storia del rock. Ha già riscritto i canoni della forma-canzone con Like a Rolling Stone e mandato al diavolo tutti quelli che cercano di etichettarlo e incasellarlo in tipologie per lui troppo strette e inadeguate, interpretando ogni sua canzone, frase o parola come un messaggio politico o religioso.

Nell’estate del 1966 Dylan in sella alla sua moto ha un incidente, sulla cui reale gravità ancora si sa poco. Disgustato dal jet-set e dai media che gli stanno addosso, sfrutta l’occasione per prendersi una lunga pausa e sparire dalle scene per quasi un anno e mezzo, rintanato nelle Catskill Mountains vicino a Woodstock.

Ha voglia di stare con moglie e figlio, leggere, comporre e suonare lontano dai riflettori. Poco distante dalla sua villa vivono e suonano i suoi amici della band, anche loro in cerca di nuova ispirazione e determinati a riscoprire le radici country e popolari più pure della musica americana. Dylan ritrova qui il piacere di scrivere e cantare, abbandonando chitarre elettriche e sposando suoni più asciutti e acustici.

È in questo contesto che nella seconda metà del 1967 prende forma John Wesley Harding, registrato a Nashville e pubblicato nel dicembre di cinquant’anni fa. Il disco prende il nome dal fuorilegge ottocentesco John Wesley Hardin e le atmosfere che Dylan tratteggia sono piene di derelitti, vagabondi, prostitute e furfanti. Rispetto ai flussi di parole delle precedenti composizioni i testi sono scarni, quasi essenziali ed evocano gli anni che lo stesso Zimmerman trascorse vagabondando e strimpellando per l’America rurale fino a New York.

L’idea è di trasmettere, attraverso gli ultimi e i diseredati, lo spirito di purezza e libertà che si avvicina alle esperienze mistiche e religiose. I brani sono disseminati di citazioni bibliche, in particolare dalla Bibbia di Re Giacomo, e spiccano tra gli altri I Dreamed I Saw St. Augustine, Dear Landlord, I Am a Lonesome Hobo e All Along the Watchtower, il cui testo è ispirato al profeta Isaia e che entrerà nell’immortalità grazie al riff rivisitato e aggressivo di Jimi Hendrix.

18. Songs of Leonard Cohen – Leonard Cohen

Leonard non festeggerà tra noi i cinquant’anni dall’uscita del suo primo e fondamentale LP, ma ci piace pensare che festeggerà in qualche angolo di cielo sussurrando So Long, Marianne alla vera Marianne, andatasene qualche mese prima di lui, magari ricordando la loro veloce ma intensa relazione su un’isola greca.

E forse ci sarà anche Nico a festeggiare, e lo prenderà in giro per quelle sue goffe e timide avances al Chelsea Hotel in quel pazzo 1967. E Janis? Di sicuro ci sarà anche lei, a ricordargli i momenti d’amore e di disperazione tra le mura amiche di quello stesso hotel. E ci sarà anche qualche critico musicale che gli dovrà delle scuse, per aver sottostimato e sbeffeggiato Songs of Leonard Cohen.

Certo, pubblicare un album denso di richiami biblici, nostalgia, morte e suicidio alla fine di un anno che ha visto trionfare, pur con molte voci dissonanti, la spensieratezza hippie è un azzardo che solo un caparbio antidivo come Cohen può consciamente concepire.

Il tempo gli darà ragione e il suo esordio, visto oggi, risplende ancora di una luce speciale. Il disco si apre con l’impressionante poeticità di Suzanne, zeppa di riferimenti alla vecchia Montréal e alla donna desiderata ma – forse – mai avuta e si chiude con il canto sgangherato e disperato di One of Us Cannot Be Wrong, delicata ballata sull’amore e le incomprensioni.

Songs of Leonard Cohen rappresenta ancora oggi un piccolo manuale per l’aspirante cantautore e racchiude, oltre a incantevoli accordi e melodie, un mosaico di parole perfettamente incastrate ma dal significato sempre molto aperto e mai univoco, come ha elegantemente sottolineato lo stesso Leonard. “C’è sempre una canzone che ha un significato per qualcuno. Le persone si corteggiano, si sposano, fanno figli, lavano i piatti, tengono duro fino a sera con canzoni che possiamo trovare insignificanti. Ma il loro significato è dato dagli altri. C’è sempre qualcuno che dà significato a una canzone prendendo una donna tra le braccia o passando in piedi la notte. È questo che dà dignità a una canzone. Non sono le canzoni a dare dignità alle attività umane, sono le attività umane a dare dignità alle canzoni”.

19. Vol. 1 – Fabrizio de André

https://www.youtube.com/watch?v=6FfMO1lO-2k

Esordiscono discograficamente nello stesso anno e percorrono carriere parallele per i decenni successivi, ponendo poesia e delicatezza al centro delle loro creazioni. Ma le vicinanze tra Fabrizio de André e Leonard Cohen non finiscono qui. Stilisticamente simili nella scelta delle melodie, entrambi puntano molto sulla voce, calda e profonda, e dimostrano fin dal debutto un’attenzione verso i paesaggi umani più periferici e dimenticati.

Prima del 1967 e di Vol. 1 sono già usciti alcuni singoli tra cui La canzone di Marinella, che incredibilmente passa inosservata. Grazie al successo di Via del Campo e Bocca di Rosa, contenute nel primo LP, e alla versione di Marinella di Mina (1968) il cantautore genovese irrompe finalmente sulla scena musicale italiana.

È qualcosa di completamente nuovo per il pubblico e per la critica, sia per i testi anticonvenzionali – dalla marginalità al sesso, dalla religione all’arroganza del potere – sia per la capacità di collegare cultura alta, ispirazioni d’Oltralpe e individualismo anarchico.

L’album, tra poco cinquantenne, contiene già molti dei temi cari a de André e passa con eleganza dal sarcastico racconto delle gesta amorose di Carlo Martello, scritto assieme all’amico fraterno Paolo Villaggio, al delicatissimo ritratto di Gesù Cristo, rifiutato dalla televisione di stato ma orgogliosamente trasmesso da Radio Vaticana. Con Marcia nuziale il giovane Fabrizio rende il suo primo omaggio al cantautore francese Georges Brassens cantando con dolcezza le nozze di una coppia non più giovane e di umili origini.

Ma è ascoltando la profondità di Preghiera in gennaio che possiamo comprendere la svolta che de André ha impresso alla musica leggera italiana. In quel 1967 Luigi Tenco muore in una stanza d’albergo di Sanremo, e il cantautore, toccato dal suo gesto estremo, vuole salutarlo così, chiedendo a Dio di accogliere il suicida tra le sue braccia e schierandosi, la prima di tante volte, dalla parte del perdente, del sopraffatto dalla vita.

Concepire un brano di questo spessore, dosando sapientemente le parole e sferzando l’Italia benpensante degli anni sessanta, ha permesso a Fabrizio de André di creare uno spazio che prima di allora non c’era nel panorama sociale e culturale nostrano.

20. Folk Beat n. 1 – Francesco Guccini

Cinquant’anni fa, primo maggio 1967. È un giovane e sbarbato Francesco Guccini, prossimo alla laurea e un po’ goffo quello che, introdotto da un’entusiasta Caterina Caselli su Rai1, imbraccia la chitarra ed esegue Auschwitz. La canzone è stata composta anni prima e interpretata con successo dall’Equipe 84, ma ora anche “Francesco”, come lo chiama la Caselli e come si fa conoscere nei suoi primi anni di carriera, la canta sfoderando una voce già matura e inconfondibile.

L’album, uscito nel marzo del ’67, dichiara fin dal titolo lo stile musicale a cui s’ispira, quel folk che parte dalle polverose strade dell’America rurale e arriva, grazie a Bob Dylan, alla ribalta globale. Guccini lo rielabora, ci aggiunge la fascinazione per la letteratura beat e su una scarna struttura sonora basata principalmente su chitarra e armonica a bocca innesta strofe toccanti (La ballata degli annegati, Venerdì Santo, la stessa Auschwitz) o più giocose e ironiche (Statale 17, Il 3 dicembre del ’39, la dylaniana Talkin’ Milano).

Noi non ci saremo e In morte di S.F., poi ribattezzata Canzone per un’amica, conosceranno maggiore successo nella versione dei Nomadi e in generale tutto il primo LP di Francesco Guccini non avrà grande successo: appena pubblicato vende poco più di cinquecento copie, ma quell’alto ragazzo dalla voce potente non demorde e su quello stile e quelle tematiche costruisce una lunga strada fatta di dischi, concerti, romanzi, saggi.

Gli ultimi due brani di Folk Beat n. 1 sono in qualche modo legati in un’unica traccia, ma mentre Il sociale è inedita L’antisociale è stata composta nel 1960 e anch’essa già incisa dall’Equipe 84. Si tratta di caricature divertenti e sarcastiche che tratteggiano i profili sociologici del conformista (attento alla rispettabilità dei propri comportamenti e ipocrita nei propri slanci ideali perché “la lotta delle classi sol mi va / per far bella figura in società”) e dell’anticonformista arroccato nel proprio nichilismo e nella propria apatia (“Sono un tipo antisociale / non ho voglia di far niente / sulle scatole mi sta tutta la gente”).

Guccini sbeffeggerà molte altre volte l’una e l’altra categoria, forse con più eleganza e sottigliezza, ma nelle semplici incisioni di cinquant’anni fa ritroviamo tutta la freschezza e il divertimento che il giovane “Francesco” sapeva già mettere nelle sue composizioni.

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