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Un sociologo all’Ikea

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All’età evangelica di 33 anni, decisamente in ritardo rispetto all’età biologica prevista, varco per la prima volta la soglia dell’Ikea. Nonostante ci siano quelle 3 o 4 persone che sarebbe meglio non sapessero (mi credevano al lavoro), decido di raccontare l’esperienza.

La prima cosa che mi colpisce è la gestione del traffico in entrata e in uscita, fatta di svincoli degni di un aeroporto. Segnalo su tutti un cartello con due indicazioni: a destra “Ikea” a sinistra “Tutte le direzioni”. Dà l’idea della portata che la catena svedese ha raggiunto.

L’impatto con l’edificio, in classico stile giallo su sfondo blu, è molto simile: un sistema di ingressi multipli e scale mobili conduce il flusso di persone verso il settore “partenze”. La gente qui per lo più cazzeggia, ancora fresca e vogliosa di godersi l’esperienza tanto agognata. Più si avvicina il traguardo più le persone si trasformano o in bipedi velocissimi che sognano un sonno ristoratore di 12 ore o in stanchissimi pachidermi che si trascinano esausti verso l’ultimo girone infernale: le casse.

In mezzo, tutto un fluire di persone di ogni generazione intente ad immaginarsi la miglior combinazione possibile tra il letto Fjellse e l’armadio componibile Stolmen. Incredibile che porta di accesso straordinaria abbia trovato la lingua svedese per incunearsi nelle nostre menti latine.

E non solo la lingua. I nostri amici gialloblù ci provano anche con le pari opportunità: il fasciatoio per bimbi è previsto, e ben segnalato, anche nei bagni degli uomini.

Ci fanno vedere, gli svedesi, quanto ci sanno fare anche con il welfare: inutile dire che potrai conciliare benissimo tempi di vita e tempi di shopping grazie ai servizi di cura dei bambini, che vanno dai classici giochi (attenzione: niente pacchianate gonfiabili ma idilliaci giocattoli di legno) ai più impensabili laboratori.

La colonizzazione continua nella pausa pranzo: tra salse, polpette e salmoni vien quasi voglia di portarsi via una cucina Faktum.

@Marcus Linder

Ma veniamo a me. La copertura del sociologo funziona sempre, così posso aggirarmi tra camerette e interi reparti di tende da doccia con la distaccata nonchalance di chi è lì per puro interesse professionale. Lo stesso che naturalmente mi obbliga, seppur controvoglia, a cazzeggiare quotidianamente su Facebook o a leggere le strisce di Zerocalcare.

Così, sotto copertura, mi aggiro con il secondo fine, che mai rivelerò, di godermi un pomeriggio all’Ikea, immaginando come potrebbe stare la libreria Billy nel mio salotto, che però dannazione si sovrappone per 2 mm al termostato dei caloriferi, peccato, perché non era poi così male… Aspetta però, se imposto prima una temperatura standard e la tengo fissa per sempre forse posso montarci sopra la libreria! E se poi devo cambiare le batterie? Dovrò sventrare la parete o accetterò l’effetto collaterale di trascorrere inverni a temperature artiche?

Mi aggiro infoiato a tal punto che a un certo punto dimentico la borsa al bar (ho consumato un banale caffè, il succo di aringhe sarà per la prossima volta).

Ha inizio un’avventura difficile da descrivere. Me ne accorgo dopo un po’, e mentre corro verso il bar (distante ormai 800 chilometri in senso contrario al flusso di famiglie felici) sento l’altoparlante scandire il mio nome.

L’Ikea mi chiama! Mi chiama e mi invita a recarmi al Servizio Clienti. Immagino sia per la borsa, ma dentro di me spero fortemente di aver vinto un comodino Musken come centomiliardesimo cliente.

Il Servizio Clienti dell’Ikea. Mi sembra come di esser stato fantozzianamente convocato dal Mega Presidente Galattico.

Ripresomi dallo shock, mi rendo conto che il Servizio Clienti è al piano terra, e dista circa 500 chilometri da dove mi trovo (reparto sedie da ufficio). Forse mi toccherà pernottare. Cerco la reception per prenotare la cameretta Stockholm per la notte.

La camera è già occupata da una coppia di Brindisi che, entrata due settimane fa per acquistare un copriletto, ha prima deciso di rifarsi la cucina, poi è stata contattata dai figli che magari ci fa comodo un letto nuovo, poi dai cugini uno dei quali si sta per sposare e ha bisogno di arredare casa e, infine, dalla sorella del nipote più grande, che da sempre sognava un set di lampade Ikea. I due, ormai affranti dal peso dei mobili e dall’alimentazione nordica, prevedono di uscire la prossima settimana.

Mi tocca così affrettarmi verso il Servizio Clienti. Dopo pochi passi compare l’indicazione, il che sulle prime conforta. Quando mi rendo conto che è come quei cartelli che a Melegnano segnalano un comodissimo centro commerciale a Caserta (senza però indicare la distanza) è troppo tardi e continuo imperterrito a farmi sfilare a velocità folle piumoni, orsacchiotti, appendiabiti, residui di divani decaduti dal piano di sopra, toilette per sole famiglie felici, tanto che quando arrivo effettivamente al Servizio Clienti cerco il cronometrista ufficiale per un riscontro sui tempi di percorrenza dell’intero capannone. Se è record, nessuno lo ha registrato.

Mi metto in fila ordinatamente con il mio numero. Quando mi dichiaro all’addetto, è passato talmente tanto tempo da quando mi avevano chiamato all’altoparlante che mi si è raddoppiata la barba e non mi si riconosce più dalla foto della carta di identità. Inoltre, la mia borsa è stata già recapitata al Servizio Sicurezza (si sa che la Svezia è un paese dove i servizi funzionano, ma non è che devi farne uno per ogni minchiata anche dentro l’Ikea!).

Il Servizio Sicurezza, manco a dirlo, è al secondo piano. Questa volta però mi fanno usare l’ascensore. Un ascensore enorme, che di solito viene utilizzato per trasportare 400 persone ciascuna con 250 quintali di roba, trasporta ora me solo, in una scena alla Terry Gilliam, verso un luogo sconosciuto al resto dei visitatori. Se bisogna fare un’esperienza sociologica, allora è bene farla fino in fondo.

Finalmente recupero la borsa, ma l’ascensore mi riporta a piano terra, oltre l’uscita del negozio. Ma io avevo bisogno di tornare dentro, a recuperare la mia ragazza che nel frattempo potrebbe aver comprato il mondo e a fantasticare ancora un po’ su quella libreria per provare se magari riguardandola con sguardo cattivo si accorciava di due millimetri.

Così rientro dall’entrata principale (un déjà vu degno di quei sogni/incubi dove continui a fare la stessa cosa e non riesci a uscirne) e mi tocca rifare tutto il giro: circa 1.200 chilometri con salite e discese. Supero armadi a 16 ante (ma riducibili a una semplicemente seguendo le istruzioni e avendo un mese di tempo a disposizione), un’intera collezione di circa 16.500 divani, due o tre cadaveri, un fossato di coccodrilli impagliati, e ritorno al piano terra.

Ritrovo la mia ragazza davanti alle casse, come in un ideale lieto fine non ha comprato niente, la libreria in fondo può aspettare, e così usciamo, trionfanti e mano nella mano, dall’Uscita Senza Acquisti.

@Marcus Linder

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