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Cosa succede in Burkina Faso?

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@Le Pays

Venerdì 15 gennaio 2016 Ouagadougou, la capitale del Burkina Faso, e il villaggio di Djibo, nel nord dello Stato africano, sono stati teatro di attentati e di un rapimento di due coniugi australiani, Arthur Eliot e Joséphine Kemeth.

Non è un caso che l’attentato e i rapimenti avvengano ad un mese dalle prime elezioni democratiche da 27 anni; gli atti del 15 gennaio sono stati rivendicati da gruppi armati legati ad Al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI). 32 persone sono morte al bar-ristorante “Cappuccino” e all’Hotel Splendid, nell’avenue Kwame N’Kurma, una delle più lussuose di Ouagadougou.

Dunque anche il Burkina Faso non è immune dalla spirale di violenza jihadista che sta inondando la regione sahelo-sahariana negli ultimi anni. Perché il Burkina? Come suggerisce un articolo del quotidiano nazionale Le Pays sono diverse le motivazioni.

Oltre a destabilizzare il Paese a pochi giorni di distanza dalle elezioni, l’attacco vuole punire uno Stato che ospita diverse strutture occidentali antiterrorismo tra cui le forze speciali francesi, al centro della guerra in Mali contro i qaedisti. Il precedente regime di Blaise Compaorè era stato spesso accusato di ospitare personaggi della galassia jihadista, se non addirittura di fare affari con loro spartendosi i riscatti dei sequestri di occidentali. E proprio la strana alleanza tra il regime dell’ex presidente e i gruppi estremisti potrebbe far pensare anche allo zampino dello stesso Compaorè negli attentati.

Abbiamo raggiunto Renato Bresciani, settantatreenne milanese in Burkina per visionare l’andamento dei lavori di un ambulatorio donato con 150 amici ad una comunità locale, che si trovava con la moglie Cristina a poche centinaia di metri dai tragici eventi e ha accettato di rispondere a qualche nostra domanda su quella notte.

P: Ciao Renato, grazie per la disponibilità. Ci racconti cos’hai vissuto, ma anche quello che hai sentito sul perché sia accaduto?
R: Ciao Paolo, grazie per la considerazione, ma mi sento solo di riassumere la nostra modesta avventura, senza profonde analisi.

P: Benissimo. Come mai vi trovavate a Ouagadougou il 15 gennaio, quando invece la vostra permanenza si svolge fuori dalla capitale, a Yalgò?
R: Cristina ed io eravamo a Ouagà per un weekend di turismo e di acquisti di souvenir: accompagnati dal Curè Clement, che ci ospita nella sua Parrocchia di Yalgò, abbiamo scelto l’albergo Eau Vive perché è in zona centrale, di fronte al Grand Marchè, e a due passi dal Centro degli artigiani e dell’arte, ha un bel giardino ed è frequentato anche da “bianchi” che si trovano in Burkina Faso per opere di solidarietà e cooperazione.

P: Intorno alle 20 c’è stato l’attacco all’Hotel Splendid: cos’avete fatto?
R: Alle 20,30 le suore che gestiscono l’albergo hanno abbassato le saracinesche ed è cominciata la lunga notte: nell’albergo non funzionava la televisione (accesa su nostra richiesta solo il mattino seguente!), le info le avevamo da Internet e dall’Italia, grazie alle telefonate con mia figlia. Conoscevo bene il Bar-Ristò “Cappuccino” perché c’eravamo stati varie volte l’anno scorso trascinati da un amico estimatore della pizza e dell’ambiente internazional-affaristico del locale. Ho saputo che oltre a diversi membri della famiglia proprietaria sono stati uccisi anche 2 dipendenti neri: spero tra di loro non ci sia anche il simpatico giovane che si affrettava ad aprire e richiudere la porta.

P: Avete avuto paura?
R: Ci sentivamo sicuri all’Eau Vive perché il bersaglio scelto dai terroristi era già stato definito ed occupato, lo Splendide, a 1,5 km da noi. La paura l’abbiamo dovuta vincere quando ci siamo imposti di uscire, di muoverci tra la gente non numerosa nelle strade: il nostro essere bianchi non aiutava a mimetizzarci. Dopo qualche minuto ci siamo sentiti più sollevati: i burkinabè ci salutavano e rispondevano al nostro saluto con la tradizionale cortesia e simpatia.

La formula “Bonne Journeè” era lo spunto per essere d’accordo sul fatto che, invece, fosse una cattiva giornata, anche o soprattutto per loro.

P: Non vi siete sentiti minacciati?
R: No, ma obiettivamente il rischio che un qualche fanatico “ispirato dal momento” decidesse di collaborare con il terrorismo islamico accoltellandoci o investendoci con il taxi non era da escludere: quando viene rapito o sgozzato qualche Cooperante o volontario di associazioni umanitarie, si legge sempre che “era amato da tutta la popolazione, non aveva mai subito minacce…”.

P: E ora?
R: Ora siamo tornati a nord-ovest, a 200 km dalla capitale e un centinaio dalla frontiera col Niger; anche qui le cose sono cambiate: ci chiedono di rinunciare alle nostre escursioni in scooter verso i villaggetti sparsi nel Sahel, di essere prudenti. La canonica che ci ospita è un po’ isolata, ad un km da Yalgò. Il silenzio della campagna non ci impressiona, ma il sonno è ancora agitato dall’eco degli spari. Passerà. Il 29 gennaio, fotografato lo stato avanzato delle costruzione dell’ambulatorio per una levatrice, opera donata da 140 amici, rientreremo a Milano.

P: Grazie moltissimo, Renato.
R: Ciao!

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