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Ricercatori precari, pensieri di un cervello non in fuga

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La giornata tipo di un ricercatore precario comincia presto. Devi essere sveglio, perché non hai orario di lavoro, ma lavori sempre. Sono circa quindici anni che studi e almeno dieci che eviti di rispondere alla quotidiana domanda “ma chi te l’ha fatto fare? Con tutti i ricercatori precari che ci sono”. Hai laurea e dottorato di ricerca con il massimo dei voti e snoccioli ogni anno una buona dose di articoli su riviste scientifiche di fama internazionale o pubblichi libri che si trovano anche da Feltrinelli. Tante soddisfazioni, ma nessun ruolo.

Per la comunità scientifica internazionale, che legge, commenta e cita i tuoi lavori, sei uno studioso a tutti gli effetti. Per l’università italiana non esisti. Eppure ogni giorno lavori in facoltà, porti avanti progetti di ricerca che senza di te neanche verrebbero concepiti, e ti capita perfino di fare lezione nelle aule universitarie o di fare gli esami agli studenti. Con che titolo? “Cultore della materia”. Con che retribuzione? Nessuna.

L’università ha bisogno di te, ma non ti può assumere. Nel frattempo però ti sfrutta, e tu ti fai sfruttare. Non molli, perché hai fatto tanto e perché qualcosa capiterà, vedrai. Non molli perché la ricerca la sai fare e perché se molli anche tu, quando tutti ci volteremo a guardare cosa resta, sarà uno scenario triste. Non molli, ma ne paghi le conseguenze. Prima tra tutte il tempo che passa, mentre tu resisti, in una faticosa apnea.

“Cosa pensavi di ottenere?” è la seconda domanda quotidiana a cui eviti di rispondere da una decina di anni. Eppure una risposta ce l’hai, ma non osi pronunciarla, perché detta a voce alta è patetica: “quando ho cominciato l’università il mondo era diverso, l’Italia era diversa”. Era patetica, l’avevo detto.

Eppure è vero. Allora, i tuoi genitori ti spingevano a scegliere di studiare qualcosa che ti piacesse per davvero, perché il lavoro ti occupa gran parte della vita e se fa schifo, una buona parte della vita farà schifo. Le facoltà umanistiche non erano un portone spalancato sulla tua futura disoccupazione, ma erano facoltà come le altre. La carriera accademica non era facile, ma era possibile. E nella tua testa di studente ambizioso era scolpita la massima un po’ anni ’80: “se sei bravo ce la farai”. E così sei stato bravo. Ora hai tutte le carte in regola, sei pronto, ma nel frattempo il tuo patetico scenario si è sgretolato.

Cammini per i corridoi del tuo dipartimento e vedi pochi coraggiosi aspiranti ricercatori, sempre meno. Le università italiane soffrono tutte di un progressivo calo di iscrizioni, ma le facoltà umanistiche di più. Del resto, non c’è peggior condanna per un genitore oggi che avere un figlio che studia materie umanistiche. I pochi fondi erogati dal Ministero contribuiscono a fare dell’università la scenografia sempre più ingiallita delle tue giornate: aule malmesse, stanze da dividere in dieci, materiale didattico d’antiquariato. Autorevoli docenti, che hanno dato lustro alla tua disciplina, insegnavano qui. Hanno fatto giusto in tempo ad instillarti la dannata passione per la materia e poi sono andati in pensione, uno dopo l’altro.

Nel mio dipartimento, ad esempio, su sette pensionamenti di professori associati e ordinari, c’è stata una sola sostituzione, e di un concorso nazionale per ricercatori, nemmeno l’ombra. Ogni tanto, mentre controlli stancamente la Gazzetta Ufficiale del Ministero, trovi una chiamata per ricercatore, magari a Cagliari o a Padova, ma chi cercano è uno specialista talmente specialista della tal materia che praticamente ce n’è solo uno veramente idoneo: quello per cui il concorso è stato indetto. E allora nemmeno concorri, sarebbe inutile. E se concorri ti scopri moralmente deprecabile perché l’unica possibilità che tu vinca è sperare che il concorrente designato venga investito da un autobus la sera prima dell’orale.

Il blocco del turn-over, che dura di fatto da oltre un decennio, è sempre più spesso agli onori delle cronache come causa della famosa fuga dei cervelli. Meglio che te ne vai, tanto nessuno entra nelle università italiane. Eppure tanti ne escono. L’ultimo rapporto (2011) del MIUR sullo stato dell’università italiana stima in 14.000 le previste cessazioni dal servizio del corpo docente nel periodo 2011-2015, con alcuni settori più penalizzati di altri, come scienze fisiche e scienze dell’antichità che perderanno fino al 32% dei professori ordinari.

A fronte di questo svuotamento, il “decreto del fare” del Governo Letta stabilisce che, a patto che non siano indebitati (il che non è così raro), gli atenei italiani potranno utilizzare fino a tutto il 2014 solo il 20% del calo di spesa del personale per nuove assunzioni. Il che significa in pratica che, poiché un pensionando costa in media il doppio di un giovane (per modo di dire) ricercatore, nel 2014 si potranno assumere 2 ricercatori per ogni 5 professori che vanno in pensione. Una speranza. Ma tenue, perché soggetta a mille variabili: chi ci assicura, ad esempio, che le università non preferiranno usare i pochi soldi finalmente disponibili per promuovere personale già in servizio piuttosto che assumerne di nuovo? E poi c’è la terrifica visione dell’imbuto. Quanti riusciranno ad entrare? A fronte di un lungo periodo di blocco del turn-over, schiere agguerrite di miei concorrenti aspettano di varcare a buon diritto le soglie dell’università italiana. È un popolo altamente competitivo, che si forma da più un decennio, che pubblica a rotta di collo e annovera esponenti di almeno un paio di generazioni, dai venticinquenni ai quarantacinquenni. E se ci pensi, l’imbuto diventa la cruna di un ago, e tu sei il cammello. Non entrerai mai.

“E allora che faccio?” è la terza domanda quotidiana che sei obbligato a farti. E la mia risposta finora è stata: “resisto”. Il lavoro diventa oggi un campo di resistenza, come se già non ti trovassi a praticare l’arte della resistenza in molti altri campi della vita, vedendo il mondo che ti circonda che va in una direzione, mentre tu ti ostini ad imboccare l’altra. Denti stretti, pazienza e ottimismo. E devi essere proprio convinto, quasi invasato, perché fare ricerca richiede una mente libera e creativa e, a queste condizioni, sfido chiunque a mantenere la mente libera e creativa.

Il precariato è una piaga di cui ancora non possiamo intuire le conseguenze a lungo termine, in termini di depressione sociale e di azzeramento della classe dirigente del nostro più prossimo futuro. Ma il precariato nel campo dei lavori intellettuali, ad esempio nel campo della ricerca umanistica, mostrerà anch’esso le sue tristi specifiche conseguenze. Calo di docenti, calo di offerta formativa, calo di studenti e il prolungato e insistito svilimento delle professioni culturali nell’opinione pubblica lasceranno ferite che ci vorrà tempo per risanare. Un medico, un ingegnere o un economista sono fondamentali nella società che abbiamo creato, ma continuo a pensare che senza un filosofo, uno storico o un sociologo finiremo schiacciati dall’ingranaggio senza nemmeno capirne il perché.

Infine, “Come fai a campare?” è la domanda che sorge spontanea a chi ti conosce. Fai altro. Impieghi una parte del tuo tempo a fare altri lavori, magari correlati, spesso piccoli, non continuativi e mal retribuiti, che ti consentono però di continuare a provare a fare il ricercatore, che ti consentono di non mollare la ricerca. E mentre li fai ti devi sforzare di pensare che la ricerca non è diventata il tuo hobby, ma continua a essere il tuo lavoro. A volte pensi di non avere nemmeno diritto al titolo di ricercatore, perché effettivamente è un titolo che ti sei attribuito da solo, e allora lo condisci con quell’aggettivo, “precario”, che smorza tutti gli entusiasmi. Eppure sei effettivamente un ricercatore, alla ostinata ricerca di un ruolo.

Immagini| Direttanews.it e ricercatori precari

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