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Prostituzione 3/5: le regole in Italia

regole in Italia
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Come si è accennato nella prima parte del reportage, in Italia la prostituzione dal 1958 è lecita quando esercitata autonomamente, mentre è considerata reato quando altri la agevolano, la sfruttano o in qualsiasi modo la tollerano. Sono vietati i luoghi chiusi dove altri si prostituisca. Pena minore per chi “in modo scandaloso o molesto” inviti al sesso a pagamento.

Una bella ambiguità. Praticamente le regole in Italia consentono la prostituzione in modo discreto e sommesso. Un modo come un altro di lavarsene le mani, e di tollerare lo status quo. D’altro canto, non essendo risolto a livello socio-culturale il nodo di fondo (si veda la seconda parte del reportage), la legge non può che accoglierlo e moltiplicarlo.

Il criminologo Andrea De Nicola parla in questi casi di “politica dello struzzo”: sopporto il fenomeno, e quindi non mi attivo per gestirne le conseguenze. Perciò lo subisco. Eppure nel 1980 è entrata in vigore anche in Italia una Convenzione internazionale contro la tratta delle prostitute, firmata nel lontano 1949, nel cui preambolo si definiscono la prostituzione e la tratta come “incompatibili con la dignità e il valore della persona umana”.

Descriveremo meglio questo modello proibizionista nella prossima puntata. Ora ci concentriamo sulla considerazione che questa ambiguità di fondo nelle regole in Italia ha come conseguenza un continuo girare a vuoto. Dal 1998, in contemporanea con la maggior autonomia concessa ai sindaci, fioccano le ordinanze comunali che combattono la prostituzione come effetto visibile, come disturbo all’ordine pubblico o alla “pubblica decenza”. Per alcuni anni si multano le prostitute, i clienti in macchina, le prostitute e i clienti. Poi passa la moda e la prostituzione resta.

Questo anche perché secondo le regole in Italia se qualcuno vuole esercitare in proprio l’attività tra le mura domestiche può farlo. E in questo caso eventuali condòmini non hanno alcuno strumento di contrasto a meno che – ancora una volta – non venga leso l’ordine pubblico o il regolamento condominiale.

Attività lecita e retribuita quindi, e perciò tassabile, in astratto. La prostituzione tuttavia non rientra in nessuna delle categorie previste dal fisco, rimanendo così una scatola senza etichetta. A dire la verità una sentenza del 20 novembre 2001 della Corte di Giustizia Europea riconoscerebbe l’esercizio della prostituzione come attività economica. Forti di questa sentenza molti sostengono che un’etichetta per quella scatola vada dunque trovata e, in mancanza d’altro, possa essere collocata nei redditi diversi, ossia quei proventi che la legge non riesce a chiamare in alcun modo.

Tesi che porta acqua al mulino dei legalizzatori, che vedono così soddisfatti tutti i loro sogni: avere ancora a disposizione il sesso a pagamento, regolarlo col duplice spauracchio della telefonata ai Carabinieri e – soprattutto – alla Finanza, e avere anche la propria coscienza civica immacolata, dal momento che i denari versati contribuiscono alle pubbliche spese come vuole la Costituzione (art. 53). È dunque tutto così pacifico?

Certo che no. Perché se così fosse non ci sarebbero, nella sola Europa, almeno tre modelli diversi di regolare il fenomeno, a evidenziarne ancora una volta la delicatezza, l’ambiguità e la complessità. Ma ne parleremo nel prossimo articolo.

Immagine | Michael Coghlan

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