L’autore si avvale dell’espediente narrativo della conversazione notturna tra Marco Polo e l’imperatore d’Oriente Kublai Kan – dialogo squisitamente filosofico – per additare al nostro sguardo delle città sorprendenti, paradossalmente proprio con lo scopo di renderle invisibili. L’invisibilità è ciò che guida lo sguardo oltre ciò che appare, che rivela l’essenza attraverso un’assenza fortemente percepibile, che in virtù di questo diventa più autentica del reale.
Calvino svela le sue città rendendole evanescenti, misteriose, utopiche, come donne amate da lontano (ogni città porta un nome femminile desueto e ineffabile). Le presenta una ad una, con una punta di ironico disincanto, senza tuttavia rinunciare allo struggimento contemplativo della magia insita nella vita e al potere lenitivo dell’immaginazione. Si assiste perciò alla trasformazione di quello che a prima vista potrebbe sembrare un’accozzaglia di strampalate fantasticherie nel multiforme collage di una grande città sottile, fatta di tante altre città. L’opera prende forma da un gioco di giustapposizioni di frammenti di racconto poetico e dal montaggio di piccole scenografie animate da tipi universali.
Se si immagina di entrare in un poliedro trasparente con molteplici entrate e uscite, sospeso nel vuoto, si possono intravedere oscillare nel vento gli scorci della città fatta di dolcezze e spigoli di Calvino, un posto fatto della consistenza dei sogni, dei ricordi, dei pensieri. Forse Le città invisibili possono anche essere semplicemente questo, un libro senza una trama precisa, fatto di entrate e uscite, un luogo della mente aperto, uno spazio aereo per vagabondare dentro e fuori di sé, tra la terra, gli occhi e il cielo.
(Photo credits: Yona Friedman, Ville Spatiale – visualizzazione di un’idea)