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Due giorni, una notte: l’ultimo film dei fratelli Dardenne

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@L’ultimo film dei fratelli Dardenne

Due giorni, una notte, la durata di un week-end: è questo il tempo che ha Sara, giovane operaia in un’impresa di pannelli solari e madre di due figli, per convincere i suoi colleghi a rinunciare al bonus di mille euro che otterrebbero con il suo licenziamento. Reduce da un periodo di depressione che l’ha costretta a casa, Sara deve raccogliere tutte le sue forze per mantenere il posto di lavoro.

Dopo l’esperienza della (definibile) tetralogia familiare (iniziata con Il figlio e conclusasi con il recente Il ragazzo con la bicicletta), nel loro ultimo film i fratelli Dardenne ritornano ai temi cardine delle loro prime opere (La promesse e Rosetta): ossia il lavoro e la disoccupazione. Continuano pertanto la riflessione sulla condizione umana e sulle difficoltà di affermazione nel mondo del lavoro.

Tuttavia, sembrano essersi affievoliti la crudezza e il realismo (discendenti dall’esperienza di documentaristi) che sostanziano i primi film: la miseria umana è infatti attenuata dalla rappresentazione di un ambiente piccolo-borghese, tendente all’autotutela e prevalentemente chiuso a forme di solidarizzazione. All’instancabile decisione di Rosetta  subentra l’indecisione, la demotivazione di Sara (“Non esisto, non sono niente, non sono proprio niente”) che, timorosa di nuocere agli altri e di riceverne il rifiuto, stenta ad avanzare le proprie richieste.

Se apparentemente il film sembrerebbe negare i presupposti tanto ideologici quanto tematici della loro opera, quest’ultima è maturata: la precarietà lavorativa non è più estesa solo a coloro che vivono nella povertà, ma anche a coloro che godono di stabilità. La prospettiva quindi si ribalta: l’indigenza può ormai colpire chiunque, dal più forte al più debole.

E se i percorsi dell’africana de La promesse e di Rosetta erano destinati al fallimento, nonostante un barlume finale di riscatto, il tentativo di Sara, pur nell’insuccesso, è positivo. Venendo in contatto con le altre persone, non  approfondisce solo la conoscenza delle condizioni altrui, ma soprattutto riesce a riconquistare la fiducia nel mondo: l’empatia degli altri, la loro solidarietà la riempiono di speranza, dandole la possibilità di riemergere dal buio nel quale si era smarrita. Sara chiede e riceve solidarietà; il suo camminare è simbolo della riconquista dell’autostima, della fiducia in sé e negli altri.

La storia non è una lotta per il lavoro, ma per la vita: per potersi sentire vivi e reagire. Non trionfa l’individualismo, bensì il riscatto. “Ci siamo battuti bene. Sono felice”.

Impeccabile l’interpretazione di Marion Cotillard: posata e autentica nella rappresentazione del dramma di una lavoratrice che ha perso tutte le certezze e che fatica a reagire, nonostante le continue sollecitazioni del marito (il bravo Fabrizio Rongione).

Inappuntabile la regia: fedeli al loro stile, i fratelli Dardenne ricorrono ad una macchina a spalla molto mobile e a lunghe sequenze capaci di restituire il ritratto intimo di una donna e il cinema a misura d’uomo quale è il loro.

Ultima ma non per importanza, la fotografia del fedele Alain Marcoen: delicata e tenue nei colori fra cui prevalgono il rosa e il verde, i colori della vita e della speranza.

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