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Cos’è il retrogaming, un viaggio semantico

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Immagino che con l’avanzare degli anni si viva sempre meno di progetti e sempre più di ricordi: è forse questa anabasi nella dimensione della memoria l’aspetto caratterizzante della terza età della vita dell’essere umano.

Da circa due anni è iniziata la mia deriva verso la terza età della mia esistenza di videogiocatore: gioco con maggior piacere con i vecchi titoli di quanto non attenda quelli nuovi o sia coinvolto dall’hype che precede la loro uscita, inevitabile nella pervasività osmotica di social media e internet nella comunicazione contemporanea.

Gli ultimi titoli che ho giocato sono Final Fantasy X, Super Metroid e Grandia e da qualche giorno sto sbrigando preparativi per poter iniziare al meglio un playthrough di Earthbound insieme ad un amico. Il più recente di questi titoli è stato pubblicato nel 2002. Nel frattempo The Last of Us attende impaziente che io trovi del tempo da dedicargli e se la prospettiva è più che allettante – essendomi stato raccomandato dalle persone più disparate deve essere veramente straordinario – quella di rigiocare Earthbound mi fa infinitamente più gola.

La nostalgia è parte integrante dell’esperienza: in cumuli di pixel a 16-bit oltre al divertimento cerco la mia infanzia, come Astolfo cerca il senno di Orlando sulla Luna in una montagna di oggetti dimenticati.

Anche quando non ho giocato un titolo al tempo della sua pubblicazione originale entro in risonanza con un’intera epoca, recupero un po’ di innocenza di sguardo e mi approprio un po’ della vita degli altri, della vita di un ragazzino giapponese che a 12 anni scelse proprio quella cartuccia durante una passeggiata domenicale da Yodobashi Camera con i suoi genitori.

Ultimamente ho preso anche l’abitudine di guardare su YouTube gli spot televisivi originali del gioco in questione prima di iniziare la partita: le pubblicità sono un’incredibile capsula del tempo e indugiare un po’ sulla soglia dell’esperienza vera e propria mi permette di calarmi meglio nello spirito del tempo per cui fu pensata.

Cos’è il retrogaming?

Retrogaming è il termine linguisticamente economico con cui chiamiamo questo rivisitare giochi del passato e la stessa esistenza di un significante così specifico non è priva di interesse: se stasera attaccassi a leggere o rileggere un caro romanzo italiano di una dozzina di anni fa, diciamo Tutto il Ferro della Torre Eiffel di Michele Mari, non mi sognerei mai di dire che sto facendo retro-reading.

Questo termine non sfiorerebbe la mia mente neppure rispolverando un canto della Divina Commedia o – diamine – un libro dell’Iliade, trascrizione (presumibilmente) di una tradizione orale che precede di parecchi secoli non solo l’invenzione della stampa ma l’idea stessa di libro e lettura. Eppure rigiocare un gioco dell’epoca 32-bit, fine anni ’90 – inizio secondo millennio, è già inequivocabilmente retrogaming.

C’è sicuramente un aspetto tecnologico strettamente collegato ai videogiochi: le macchine che utilizziamo per giocare e le tecniche di realizzazione dei software cambiano continuamente e ciò che sbalordiva a livello audiovisivo una decina di anni prima è assolutamente superato nella contemporaneità.

Nessuna era videoludica più di questa ha visto il proliferare di ripubblicazioni e versioni in alta definizione di vecchi successi.

Nei migliori dei casi, in operazioni curate come il remake di Ocarina of Time per Nintendo 3DS o quello di Final Fantasy X per PS3 e Vita, l’obbiettivo dei programmatori è manifestamente quello di rendere i titoli “belli come li ricordavamo”: giocandoli, ingannati dai ricordi, abbiamo l’impressione che non sussista una grande differenza con l’originale ma un rapido confronto di screenshot o video rivela inequivocabilmente che la nostra mente, più che aver registrato meccanicamente immagini, suoni, colori e poligoni, ha preservato anche parte dell’impatto che la realizzazione tecnica del titolo aveva all’epoca dell’uscita, parte della meraviglia degli occhi dello spettatore.

Anche la produzione cinematografica e quella televisiva sono strettamente correlate all’innovazione tecnologica: la maggior parte dei lettori di queste righe negli anni avrà visto avvicendarsi nella propria casa VHS, DVD e Blu-ray, tubi catodici in 4:3, schermi piatti in 16:9, teleschermi ad alta definizione. Ed oltre questo tangibile e piuttosto rapido cambiamento di supporti fisici e apparecchi, un più lento ma puntualmente tracciabile cambiamento delle tecniche di ripresa e realizzazione dei film attraversa la storia del cinema.

Se guardassi Shining di Stanley Kubrick – il primo film in cui fu largamente utilizzata una tecnica oggi scontata e abusata come la staedycam – direi che sto facendo del retro-watching? Lo direi forse guardando un film in bianco e nero come Hiroshima Mon Amour di Resnais? Eppure di questi film, proprio come di molti videogiochi, esistono versioni rimasterizzate che tentano in qualche modo di ottimizzare la visione per l’occhio moderno e consentono di riprodurre correttamente questi vecchi titoli sui moderni dispositivi di riproduzione.

Che l’asse diastratico di opposizione popolare – colto abbia qualcosa a che fare con l’esistenza di un termine specifico come retrogaming? L’eventualità di coniare e utilizzare un neologismo come “retro-reading” o un suo equivalente può sembrare meno stridente parlando di rilettura moderna di prodotti editoriali commerciali studiati per le circostanze di mercato del loro tempo di pubblicazione come un romanzo di Liala, un vecchio numero di Tex o di un manga anni ’80 come Maison Ikkoku? Rivedendo Guerre Stellari di George Lucas in una delle tantissime edizioni e riedizioni disponibili o un vecchio telefilm “pre-Sopranos” come La famiglia Addams o X-Files – produzioni che appartengono alla cultura pop proprio come i migliori videogiochi – non sto ancora facendo “retrowatching”.

Ma forse con i vecchi telefilm l’idea di utilizzare un termine simile inizia a non apparirmi più così astrusa.

Nell’episodio 18 (Speak Like a Child) dell’anime sci-fi Cowboy Bebop, uno dei protagonisti riceve un misterioso oggetto che si rivela essere un’ obsoleta e rarissima cassetta betamax e si mette alla ricerca di un lettore in grado di poterla riprodurre. Questa quest lo conduce, tra vari luoghi, nell’antro di un collezionista ossessionato dalle serie televisive del ventesimo secolo – introdotto in una scena in cui pochi, abbozzati elementi ci bastano per capire che sta guardando un episodio di Beverly Hills 90210 su un antichissimo videoregistratore. Questo individuo del 2071 sta facendo un qualcosa che definire “retro-watching” ci appare istintivamente abbastanza ragionevole. Perché?

Si tratta della distanza temporale o dell’obsolescenza della tecnologia utilizzata? Utilizzare un giradischi per ascoltare Vivaldi non è certo un’operazione che ci sentiremmo di associare mentalmente ad un termine come “retro-listening”. Ma utilizzare un mangianastri per riprodurre un mixtape di canzoni pop veramente terribili regalatoci dalla nostra cotta del liceo già di più, non è vero?

La discriminante mi sembra rintracciabile nelle coordinate di “aura artistica” e “riproducibilità tecnica” delineate da Walter Benjamin nel suo celebre saggio. Più ci avviciniamo ad oggetti che hanno un’aura artistica poco pronunciata e caratteristiche tecniche strettamente dipendenti dal tempo di produzione, più sfioriamo, sul piano di fruizioni non videoludiche, delle esperienze concettualmente accostabili, ma non sovrapponibili, a quella di retrogaming.

La letteratura, il cinema, la televisione e la musica sono condizionati in modi assai diversi tra loro dalla tecnologia con cui furono originariamente prodotti e dalla modalità di riproduzione. Tuttavia anche le derive più popolari in questi campi sono associate – anche alla lontana – ad archetipi e discipline canonicamente riconosciuti come arte.

I videogiochi sono strettamente condizionati dalla tecnologia con cui sono realizzati e riprodotti e non sono considerati arte, nonostante suoni, immagini e storie siano parte integrante dell’esperienza che offrono. Quando facciamo retrogaming, rimettiamo in moto un gioco, un trastullo definito e limitato dalla tecnologia del tempo in cui fu realizzato: una lanterna magica, un vecchio carillon.

L’eventualità di considerare i videogiochi, o alcuni di essi, arte è una questione estremamente dibattuta.

Quali giochi dovremmo prendere in considerazione? Titoli con un forte afflato artistico o una vena lirica molto pronunciata quali Journey o Shadow of the Colossus? Titoli che utilizzano nella loro estetica elementi derivati da discipline canonicamente artistiche come Transistor con l’iconografia di Gustav Klimt o Max Payne con il noir? O forse ancora titoli che utilizzano funzionalmente strumenti nati in discipline artistiche come il narratore inaffidabile – Dragon Age 2 o Silent Hill 2 – per rendere l’esperienza possibile?

Potremmo semplicemente operare dei confronti qualitativi? La trama di alcuni videogiochi – pensiamo a Braid o Bioshock Infinite – è migliore di quella di tanti romanzi. La narrazione della vecchia avventura grafica Indiana Jones e il destino di Atlantide è infinitamente superiore a quella del film del 2008, la colonna sonora di Final Fantasy è più memorabile ed evocativa di quella di tante produzioni televisive e cinematografiche o ancora i personaggi di Mass Effect 2 o Persona 4 sono scritti in modo più avvincente e convincente di quelli di molte serie tv.

Può essere un elemento costruttivo come quello del level design considerato, se non arte, fine artigianato, arte applicata? In tal caso titoli come Super Metroid o Sonic 2 sono indiscutibili capolavori.

Il concetto di retrogaming esiste proprio in virtù della sfuggente denotazione di un’aura artistica nelle produzioni videoludiche e alla relegazione dei videogiochi al di fuori del campo delle arti, anche nelle forme più popolari.

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