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Assistere un malato di Alzheimer: intervista a un OSS

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Assistere un malato di Alzheimer sta diventando esperienza quotidiana per molte persone. Il sinistro nome indica la forma più comune di demenza invalidante, che colpiva già più di 35 milioni di persone nel mondo nel 2010. Un morbo spietato, che getta un’ombra pesante sull’incremento dell’età media della popolazione in Occidente e, dato ancor più significativo, sulla concreta qualità di vita di molti anziani.

Si tratta di una malattia dagli enormi costi socio-economici: per la sua imprevedibilità, l’arretratezza della ricerca medica, il declinare degli investimenti pubblici nella sanità, è una patologia che travalica la situazione del singolo malato che, oltre che da personale medico specializzato, dovrebbe essere seguito anche da un caregiver. Si tratta solitamente un parente stretto su cui viene a pesare il carico psicologico, umano ed affettivo di una persona che, all’improvviso, non riconosce più di essere al mondo, e che assai difficilmente potrà migliorare.

Assistere un malato di Alzheimer è disagevole, comporta un disorientamento ed un senso di frustrazione costanti. Ecco perché sono così ingenti i costi sociali complessivi, perché si riverberano pesantemente sulle famiglie dei pazienti, nonostante il meritorio lavoro di organizzazioni come la Federazione Alzheimer Italia e l’Associazione Italiana Malattia di Alzheimer.

Noi abbiamo scelto di avvicinarci alla malattia andando sul campo, raccogliendo il punto di vista di un OSS, Operatore Socio-Sanitario che lavora proprio in una struttura ad hoc. Un modo per capire da vicino cosa vuol dire assistere un malato di Alzheimer, cosa si fa in concreto contro questa patologia, e per dare giusto rilievo ad una professione sanitaria poco conosciuta e valorizzata, ma divenuta rilevante nel nostro panorama sanitario.

Massimo, tu lavori in una nota casa di riposo di Treviso come operatore socio sanitario (OSS) e nello specifico lavori con persone con l’Alzheimer.

Per l’esattezza lavoro con persone con demenza. In realtà non tutte le demenze sono Alzheimer, ne esistono di tanti tipi. Le differenze consistono, a livello di sintomatologia, nel fatto che gli effetti compaiono con una sequenza diversa e non ci sono tutti; mentre a livello fisiologico le differenze sono estremamente sostanziali, ma non mi sembra il caso di entrare nello specifico. La gente di solito non è in grado di fare le necessarie distinzioni, questa è competenza di chi diagnostica, cura e assiste queste persone; è altresì competenza, per diritto, dei familiari o caregiver della persona interessata. Le residenze per persone con demenza accolgono tutte le persone che hanno diverse demenze e differenziano per ciascuno non solo il tipo di terapia farmacologica ma anche l’approccio alla persona nelle varie faccende della quotidianità.

Si parla di Alzheimer come male del secolo, è davvero così? C’è davvero da aver paura?

Come per tante altre malattie in passato, ad un certo punto scoppia il panico generale. In realtà l’Alzheimer è sempre esistito, solo che non era ancora stato identificato. Grazie ai progressi della scienza solo ora è una malattia conosciuta e riconosciuta, per lo meno un po’ di più di qualche anno fa. Ci sono comunque ancora molta confusione e paura a riguardo. Solitamente si ha paura di ciò che non si conosce… La soluzione è una sana e serena informazione, intanto. Poi, per chi dovesse assistere un malato di Alzheimer, ad oggi l’Asl in cui lavoro, in collaborazione con l’Istituto che regge la casa di riposo e varie associazioni di volontariato, offre una ampia gamma di servizi ad hoc per ogni tipo di esigenza, e anche occasioni di informazione e conoscenza. Esperienze del genere ci sono anche in altre parti d’Italia. A tutto ciò, va aggiunto un accompagnamento psicologico da parte di personale qualificato: non si entra in terapia, per carità! Ma c’è bisogno di metabolizzare ciò che sta succedendo.

A che punto è la situazione in Italia e in Europa secondo te?

In Europa all’avanguardia ci sono Gran Bretagna, Olanda e paesi scandinavi, a livello sia di ricerca scientifica sia di welfare e di opportunità per chi soffre di demenza. Anche gli stipendi di chi lavora nel socio-sanitario sono molto più consistenti. Perché lì il welfare è un investimento, non un problema come si crede da noi. In Italia, comunque, Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna sono più avanti rispetto ad altre regioni, quelle del sud in particolare. Ma c’è in ogni caso tanta strada da fare a questo proposito, e purtroppo questo momento economico non ci aiuta.

Tu, come OSS, come operi con queste persone?

Oltre ai LEA, i livelli essenziali di assistenza (igiene personale, alimentazione ecc.), cerco, insieme ai colleghi, di far vivere queste persone nel miglior modo possibile, di dar loro una qualità di vita discreta, attraverso attività che li facciano sentire a loro modo realizzati, li rendano partecipi della vita comune, li facciano sentire utili, indipendenti, vivi, li lascino liberi di agire e muoversi, anche quando sbagliano e fanno solo pasticci. Il tutto con ampi margini di sicurezza: nostri compiti sono anche il controllo e la sorveglianza.

Come ti rapporti a queste persone e alla loro malattia da un punto di vista umano?

Il mio è un approccio professionale, che parte dalle conoscenze acquisite e dall’esperienza decennale che ho a riguardo. Mi rapporto con un alto rispetto della persona e della sua storia, anche se in quel momento l’individuo in questione non sembrerebbe nel suo momento di massima dignità. E proprio quest’ultima è una parola chiave: il rispetto della dignità di una persona, che potrebbe non sapere nemmeno chi è e cosa sta facendo in quel momento, è la mia legge assoluta. Ho a cuore le persone, i loro familiari e mi lascio coinvolgere ma non fino in fondo: la lucidità e il distacco sono fondamentali per l’obiettività nel servizio. Diverso sarebbe se fossi un familiare: probabilmente vivrei gli stessi sentimenti di fatica, non-accettazione, sofferenza che vedo in molti familiari.

Ma che figura è quella dell’OSS? Ne abbiamo così bisogno nel nostro sistema socio sanitario?

È una figura che esiste da parecchio tempo ma è ancora poco conosciuta e riconosciuta. Parte dal sostituire l’infermiere generico ma in realtà lo supera e lo porta a perfezione. Secondo me, negli ospedali resta una figura di collaborazione nei reparti, ma in strutture e servizi socio-sanitari l’OSS è quella figura trasversale che non è né infermiere né psicologo né fisioterapista né educatore ma è un po’ tutto allo stesso tempo (e anche di più!). È una figura ancora poco conosciuta, sfruttata, valorizzata, anche poco accettata in alcuni ambienti. Pensa che lottiamo da anni per avere un nostro albo professionale e ancora non l’abbiamo ottenuto!

Un’ultima battuta: Berlusconi sta facendo servizio in una casa di riposo con persone con demenza…

Mi fa molto piacere! Non per la persona in sé, quanto per il fatto che un politico toccherà con mano ciò che per noi è pane quotidiano. Lui non farà gran che di concreto ma finalmente capirà (forse) il ruolo degli operatori, capirà (forse) che cosa significa con assistere un malato di Alzheimer e capirà (forse) cosa vuol dire fare questo lavoro per poche centinaia di euro!

Immagine | Ulrich Joho

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