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The Wolf of Wall Street

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Sullo sfondo della locandina di The Wolf of Wall Street, con titolo in giallo, si intravede un parapiglia carnevalesco, che contrasta con l’abito scuro di un Di Caprio in primo piano con un sorrisino da furbetto pieno di sé.

Verrebbe subito voglia di dargli due sberle, ancora prima di sapere che si ispira alla storia vera di Jordan Belfort, truffatore finanziario (una specie di gangster più socialmente accettabile) finito in manette negli anni ’90. Il vero costume di carnevale è l’abito scuro, travestimento di rispettabilità sociale, e il colore dominante è il giallo delle pepite d’oro dei nuovi pionieri americani: gli yuppies da anni ’80, per cui il toro di Wall Street è il nuovo vitello d’oro.

Questi elementi e il titolo suggeriscono che siamo molto lontani da una versione didattico-interattiva di Cappuccetto rosso o de I tre porcellini fatta per spiegare la finanza ai bambini. Le scene ossessivo-compulsive di pantagruelici banchetti di sesso e droga confermano questa intuizione.

[quote align=”center” color=”#999999″]Tuttavia, ipotizzo che uno degli scopi di Scorsese sia spiegare dal di dentro un certo mondo della finanza a bambini assai più cresciuti (specialmente di sesso maschile). L’espediente appetibile è l’intrattenimento adrenalinico dal ritmo vorticoso-dopante, non troppo distante da quello offerto da James Bond, ma con coloriture orgiastiche stile Caligola.[/quote]

Nel pirotecnico e folle intruglio c’è molto grottesco (all’apice nel lancio dei nani) e un certo black humour anglosassone, amaro e ironico, forse non del tutto compreso dal pubblico italiano. Molti si aspettavano una condanna morale del personaggio, non una disorientante alternanza di scene che lo fanno passare in tre minuti da cool a verme strisciante in preda agli stupefacenti.

Nel film tutto è eccessivo, bipolare come il protagonista. Tuttavia, a ben guardare, il black humour fa da esorcismo e il grottesco svaluta il personaggio, che non si riesce a prendere del tutto sul serio per una specie di moralismo al contrario, attuato secondo il principio carnevalesco nel ribaltamento: Belfort è smontato dal caricaturismo della sua stessa auto-celebrazione. Sottile ed esuberante l’interpretazione di Di Caprio, che gli ha fruttato il Golden Globe come migliore attore protagonista.

Scorsese ci porta nella tana del lupo, in una spedizione antropologica dove il vero oggetto di studio auto-ironico è il testosterone, declinato secondo una ritualità tribale che sfocia in un onanismo autarchico, animale, superomistico, che provoca un delirio collettivo. Gli animali feroci evocati, come il leone e l’orso, si collocano tra il totem e la mascotte.

Molti uomini, che lo ammettano o no, vorrebbero vivere almeno un giorno come Belfort, perché è una questione di immaginario maschile e del lato oscuro di ciò che è stato abituato a erotizzare: “lo sballo” fatto sempre da quelle due cose (che poca fantasia). L’uomo qualunque ama trasgredire un po’ ma non troppo, assaggia ma non osa andare fino in fondo alle proprie fantasie, e questo non per reale saggezza, ma per codardia e amore delle pantofole. Cioè, l’uomo medio difende lo status quo ed evita buona parte degli eccessi di Belfort, facendo la scelta giusta per i motivi sbagliati.

Tuttavia, anche l’immaginario di Belfort è molto limitato. Per ben tre ore si assiste alla rappresentazione della benzina che alimenta tutti: un godimento corporeo puramente chimico, per cui tutto è strumento macchinico di piacere facile, pornografia che obbedisce a un istinto conchiuso in sé, infantile, regressivo, che non si allarga al mondo e alla vitalità piena, perché non conosce l’empatia, che è un moltiplicatore.

Piuttosto, quello che rende Belfort tragicomico, ma pur sempre eroe, è proprio il suo andare fino in fondo nella sua mancanza di redenzione: il lupo perde il pelo ma non il vizio. L’asservire il suo carisma alla causa sbagliata (il dio denaro) lo rende un Lucifero fallico e fallace, un osceno angelo caduto, divorato dentro dal suo stesso desiderio insaziabile.

Il piccolo mondo creato da Belfort è una corte dei miracoli fatta di disperati, un ingranaggio che funziona perché si basa su pochi dogmi, compensato dallo spregio dei limiti in tutto il resto. Nessuno si preoccupa del motivo o delle conseguenze di un’azione. È l’eclissi della consapevolezza, un accecamento individuale che la retorica del self-made man rende virale.

Una donna che non sia un trofeo a forma di Barbie (con tanto di pube depilato) sa che un vero uomo “selvaggio” è un vincente, perché ha tutti i recettori attivi: fiuta, intuisce, capisce, protegge, si dà ed è generoso. Il protagonista e i suoi amici invece sono dei perdenti, perché settoriali: si privano del piacere supremo del dono in nome di un vitalismo coatto che sa di eiaculazione precoce condivisa.

Non c’è vittoria nell’essere il re di una bolla separata dalla realtà, un castello di sabbia dove l’intensità di vita è solo apparente, urlata a nascondere il vuoto: tutto il film è pervaso da un barocco horror vacui. C’è solo posto per l’euforia che nasce dalla disperazione, non per la felicità.

[quote align=”center” color=”#999999″]Caro lupo di Wall Street, non mi incanti, né mi scandalizzi, né mi fai paura: sei un esserino ottuso, fragile e prevedibile. Mi hai fatto ridere di un riso amaro, tra il disgusto e la tenerezza materna.[/quote]

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