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7 pensieri 7 sulla vittoria di Trump

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Mentre inizio a scrivere questo articolo sono le 8.30 del 9 novembre 2016, e Donald Trump gracchia alla radio. Parla di unità, dei reduci, del talento americano. Cerca di rassicurare il mondo. Di rendersi presentabile.

E mentre Trump parla, e cerca una via d’uscita al personaggio pittoresco che ha costruito, mi si affastellano un sacco di pensieri, che sono un po’ ragione e un po’ sentimento, un po’ del me stesso persona umana che vive il mondo e un po’ del me stesso sociologo, che spinge sempre per analizzarlo e comprenderlo.

Passo l’intera mattinata a cercare di isolare, separare e dare una priorità a tutti questi pensieri (nel frattempo faccio anche altre cose, eh). Alla fine, sono le 13, decido che adesso non importa fare una scelta.

Sento più che altro il bisogno di fare ordine nei pensieri, di metterli nero su bianco. Lo faccio. Ci sarà tempo per approfondire una ad una queste questioni, e qualcuno certo più abile e rapido di me lo sta già facendo.

Mi limito a proporne 7, che mi sembra un buon numero da cui partire.

1. Benvenuto nell’establishment, Donald

Trump fa il suo attesissimo discorso della vittoria, e io dentro di me mi chiedo se non sia il discorso dell’inizio della sua sconfitta. È il suo discorso di ingresso nell’establishment, è il discorso con cui l’antisistema diventa istituzionale.

Il nuovo gioco della politica sembra essere questo. C’è qualcuno, o qualcosa, che si presenta, o viene percepito, come dalla parte dell’establishment, cioè di quell’insieme di persone e strutture a cui si attribuisce un potere politico, economico, culturale dominante e, sempre più spesso, dominante a spese di chi di quel sistema non fa parte.

Viceversa, c’è qualcun altro, o qualcos’altro, che si presenta, o viene percepito, come una forza contraria a questo insieme di forze dominanti. E poco importa che lo sia davvero, che a paladino dell’anti-establishment venga eletto una figura apicale di quel sistema stesso, come il ricco e potente Trump.

È un gioco che possiamo applicare a molti degli ultimi eventi: dal risultato del referendum sulla Brexit all’ascesa, e ora forse discesa, di un Renzi che già è diventato faccia di quell’establishment che si proponeva di rottamare.

2. Ma che cazzo di sondaggi fate?

E tutti a dire che avrebbe vinto Hillary. La storia recente è farcita di fallimenti dei sondaggi, sia negli Stati Uniti che in Europa. Eppure, ogni volta ci caschiamo. Scambiamo i sondaggi per un pre-voto e li trattiamo come se fossero già il risultato elettorale.

Lo facciamo anche perché ci viene detto che i sondaggi sono sempre più sofisticati, quelli americani figurati. E allora cosa succede? Che in realtà vengono fatti in fretta e furia per riempire i palinsesti dei media? Che fanno le domande a un campione non rappresentativo, che considera poco certe categorie sociali? Oppure che chi risponde risponde una cosa diversa da quello che poi voterà? Lo fa apposta, o davvero poi cambia idea?

3. E che distanza tra la società e chi la analizza!

Raramente le schiere di sociologi, scienziati politici, economisti, giornalisti e tutta la schiera degli analisti riescono a cogliere appieno questi movimenti. O meglio, sì magari li colgono ma non fino in fondo nella loro portata.

Perché? Perché siamo tutti negli uffici davanti a uno schermo invece di andare in giro “fra la gente” a coglierne gli umori? Perché gli analisti appartengono a una classe sociale ben definita, medio-alta per così dire, e non capiscono un cazzo delle classi sociali più basse, per così dire, meno istruite e che non frequentano i loro giri intellettuali?

E ancora: come colmare questo gap?

4. Certo che balzo da Obama a Trump…

Già, è pazzesco. Veniamo dal presidente più giovane e progressista della storia, oltre che naturalmente dal primo presidente nero, e guarda te dove ci ritroviamo. Ma come è possibile che lo stesso elettorato possa eleggere figure così diverse?

È possibile, è sempre possibile, e vale la pena ricordarselo.

5. C’è una grossa frattura tra città e campagna?

Per dirla con parole da dopoguerra. E ancora è presto per dirlo, sentivo alla radio questa ipotesi, che poi in realtà c’è da sempre, ma forse non siamo riusciti a lavorare, su questa frattura.

Le città viaggiano in un mondo a parte, che non è (solo) quello dello stato dove si trovano, ma è il mondo globale di cui sono gli snodi principali. Nelle città “ha sede l’establishment”, potremmo dire, o almeno questa è la percezione. Tutto da verificare, comunque, questo spunto.

6. È una vittoria o una sconfitta per la democrazia?

Certo, è un bel paradosso. L’idea che, la dico brutalmente, il destino di un paese (del mondo?) possa essere deciso dai poveri, i meno istruiti, i più anziani, quelli delle periferie o delle zone rurali è una vittoria dell’esercizio della democrazia.

Ma siamo sicuri che sia il metodo migliore? È una domanda cha serpeggia, e che dall’ambito dei referendum, dove è nata e si è rafforzata, si espande a quello delle elezioni, soprattutto in caso di risultati come questo.

Io credo che sia l’unico modo possibile, far votare tutti, farli votare il più possibile. Il lavoro da fare, se vogliamo che le persone che votano siano informate e consapevoli, è sull’informazione e la formazione.

7. E adesso cosa succede?

Naturalmente non lo so, né lo posso ipotizzare. A me sembra, a caldo, un brutto colpo. Una direzione divisiva, degli Stati Uniti e del mondo, di cui le forze più violente possono approfittare, e creare ulteriori divisioni che chissà se e quando saranno risanate.

Chissà se invece si genera una qualche forma di reazione della società. Un compattarsi di forze sociali consapevoli ma umili allo stesso tempo, in grado di contrastare, socialmente prima che politicamente, questi movimenti di pancia che sembrano prevalere e non promettere nulla di buono.

Rispettare e proporre alternative, questa mi sembra la strada, alle 13 del 9 novembre 2016.

Immagine | people.com

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