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La ragazzetta dello sport: la mia difficile infanzia

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Se mi incontraste per la prima volta in occasione di una cena in cui si parla di calcio, probabilmente pensereste che io sia una donna che segue con una certa continuità lo sport più bello del mondo.

Questo perché conosco chi è Rumenigge: ex calciatore tedesco biondo che all’incirca negli anni Ottanta ha militato nell’Inter. Potrei addirittura sorprendervi nel citare Rijkaard, olandese, meno illustre dell’omologo Gullit ma decisamente più carino, stella a treccine dell’altra metà del cielo calcistico di Milano.

Ma il mio è puro nozionismo, privo di qualsiasi trasporto personale, per il quale peraltro ho meriti piuttosto esigui. In realtà tutto quello che so sul calcio nasce da un apprendimento passivo, direi addirittura coatto, a cui la mia volontà si è arresa tanto tempo fa. Io non so come funzioni nelle altre famiglie, ma nella mia, se siamo seduti attorno allo stesso tavolo, si può star certi che, più prima che poi, qualcuno parlerà di calcio. E la conversazione durerà ore.

Ciò che rende le suddette discussioni particolarmente accese e articolate (quindi interminabili) è il singolare fatto che noi abbiamo il derby di Milano in casa, anche se abitiamo in provincia di Brindisi: mio padre e mio fratello piccolo tengono per il Milan; mio fratello più grande è un tifoso sfegatato dell’Inter.

Vivere in un contesto del genere, capite bene, è stato drammatico sin da bambina.

Sono abbastanza certa che nei primi quattro anni della mia vita fossi una tifosa dell’Inter. Come si diventa tifosi di una squadra, non l’ho mai capito. Mio fratello grande con me ha usato il metodo del martellamento intensivo. Sul seggiolone, nella culla, mentre guardavo la tv, mi ripeteva a mo’ di mantra: “Tu sei dell’Inter, tu sei dell’Inter, tu sei dell’Inter”. Questo almeno finché non fui pronta alla variante: Di che squadra sei tu? E io: dell’Inter. Di che squadra sei tu? Dell’Inter. Eccetera.

Altrimenti non si spiega la mia esaltazione quando mi raccontò che Rumenigge in persona aveva giocato con lui al campetto di calcio in terra battuta del quartiere periferico della remota provincia di Brindisi in cui abitavamo, durante un afoso pomeriggio di agosto. Io ci credevo, ovviamente.

Da un giorno all’altro però mio fratello grande ha mollato la presa e, in quell’abbandono improvviso si è inserito subito mio padre. Fece leva su un metodo di apprendimento diverso: appese nella mia camera un poster del Milan e iniziò a insegnarmi i nomi dei giocatori. La vista di quei polpacci e quei calzettoni provocava in me una certa irritazione estetica, perché erano poco in armonia con lo stile sobrio ma inequivocabilmente da signorina della mia cameretta, ma quel poster rimase appeso e forse sarei diventata una vera esperta di calcio, se, di lì a poco, non fosse successo l’imprevedibile, ovvero la nascita del secondo fratellino che, prima ancora che mio padre avesse anche solo tentato di iniziarlo alla sua stesse fede calcistica (un figlio interista può essere stimolante, ma due diventano un supplizio) nacque milanista. Credo che fosse milanista già nell’utero di mia madre.

E così, io finii abbandonata a me stessa: il poster si staccò dalle pareti, la mia identità di tifosa restò confusa e, soprattutto, non arrivò mai il giorno in cui qualcuno mi spiegasse per bene cosa cazzo fosse un fuori gioco.

Da allora sono rimasta in questa zona di grigi, e da qui vi racconterò una delle mie poche certezze: puoi ignorarlo, puoi schifarlo, ma prima o poi anche tu farai i conti con il folle mondo del calcio.

 

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