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Sacro Gra. Un grande raccordo da attraversare

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@andrea

Immagini pure, precise, ficcanti. Poi medaglioni di quotidiano, persone con le loro vite sdrucite, oblique, ma vissute con fierezza. Il Grande Raccordo Anulare esce dal suo apparente vuoto di significato per divenire tempio, ricettacolo del sacro laico che ospita e nutre. Il non-luogo per eccellenza si fa iper-luogo, recinto infinito di storie, traiettorie, destini. La cintura che strizza il corpaccione della capitale si trasfigura nella sua aureola.

Sacro Gra di Gianfranco Rosi, vincitore a Venezia, ci stupisce per il suo rigore e la sua pietas, perché racconta in un unico abbraccio pensoso ciò che la realtà sembra disperdere, svilire, segregare. L’anguillaro che accarezza il fiume con preromana dignità. Il botanico ostinato nella guerra contro il punteruolo palmivoro (come non vedere nella palma Roma o l’Italia tutta, divorata ogni giorno dagli stessi italiani). La boria postmoderna eppure strapaesana dell’albergatore. L’immensa pazienza dell’infermiere che si porta il lavoro a casa quando assiste la mamma anziana. Il distacco ironico e ancora capace di stupore del nobile decaduto.

Ma Sacro Gra è un documentario, vive nelle e delle sue immagini, nei flussi paralleli delle greggi e delle infinite auto; nelle luci notturne dell’ambulanza, quasi un faro mobile nel grande oceano del traffico; nel taglio sghembo con cui pudicamente condivide le vite di condòmini mai, in realtà, anonimi.

E quando esplora addirittura (cosa rara nel cinema d’oggi) la realità banale e pratica della morte – le scene della traslazione delle salme – ci fa trattenere il respiro, ci chiediamo: cosa ci sarà dopo?

Dopo, il gelo azzurrino della tormenta di neve, con le auto simili a tanti loculi. Ma dopo, un po’ sollevati, siamo di nuovo vivi, quasi allegri, sul fiume a caccia d’anguille. Il GRA sopra di noi ora è lontanissimo.

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