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Sorrentino, la bellezza era già grande

Sorrentino
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@aeneastudio

[quote align=”center” color=”#999999″]Sorrentino ha vinto, evviva Sorrentino. Ora tutti lo adorano, lo amano, riconoscono la sua faccia mediterranea, da attore.[/quote]

Ma lui esisteva anche prima dell’Oscar. E il suo stile non passava certo inosservato, dato che prima della mitica statuetta aveva già raggranellato un sacco di premi.

Voglio parlare del regista prima, e dei tre film che ho visto di lui. Partendo dalle fonti cui ha dichiarato d’ispirarsi: Scorsese, i Talking Heads, Fellini e Maradona.

Le conseguenze dell’amore (2004) è durissimo. C’è Titta, questo elegante stipendiato della mafia, praticamente un portaborse (ma piene di denaro sporco), una vita (vita?) tra eroina, asettici e silenti hotel di lusso, la sola insonnia, pestifera e inesorabile, a spiarne il disagio. Si innamora. E cambia.

Si mette in gioco, rompe il suo contratto di lavoro. Va controcorrente, e pagherà col massimo (la vita!). Durissimo perché è l’amore – l’apertura, il rischio – a farlo perdere, ad annientarlo. Un apologo stringente, illuminista: l’amore va preso sul serio, e non sai dove ti porterà. Anche alla morte forse. Ma si contrappone a una vita-nonvita, già assediata dall’olezzo della morte. E le grottesche ombre mafioseggianti, di cui si circonda l’elegante Titta, attinte a piene mani dal cinema di Scorsese, lo ripetono a ogni inquadratura.

Nel 2008 appare Il divo: Sorrentino sfonda parlandoci di Giulio Andreotti. Cioè qualcuno, di cui ogni italiano crede di sapere, ipotizzare e immaginare già tutto. Brusii di accordi sussurrati nel silenzio delle sagrestie. Un immenso potere gestito con una vita sobria, quasi dimessa (non viene in mente la vita frugale di certi vecchi capomafia?).

Ebbene, il regista partenopeo trasfigura quest’immane materia con uno stile personalissimo, turgido, spiazzante. Raffigura i personaggi con cifre (ancora una volta) grottesche ma biograficamente plausibili. Irride al potere, lo decostruisce, ma nel contempo lo riconosce  e anatomizza nella circolarità spietata della sua necessità, del suo dover essere così e non altrimenti. Potentemente felliniano nella passione per i volti, i corpi, le vite strozzate dai ruoli. Un altro modo di dipingere il politico, non meno feroce del cinema cosiddetto civile dei Rosi, Petri e compagnia.

Ho apprezzato un po’ meno, tre anni dopo, This must be the place, ma è un mio limite. In realtà la pellicola è di ampio respiro, il primo volo internazionale del regista fuori della grande (e spesso inutile) bellezza italiana. È un road movie ma anche un romanzo di formazione tardiva: il cantante anni ’80 rimasto prigioniero di un successo troppo precoce e superficiale, che lo ha reso ricco ma lasciato immaturo.

Una sorta di maschera grottesca, pittata a cristallizzare il tempo. Ma, come recita il titolo, che  è anche una canzone di David Byrne (ex leader dei Talking Heads, ed ecco il terzo richiamo), ”questo dovrebbe essere il posto”: è la tensione verso la casa sempre mancata (il padre che non vede da anni) e ora faticosamente cercata (il viaggio, la messa in discussione) a smuovere Cheyenne, a spingerlo a cercare il ”posto” della sua anima in maturazione. Sorrentino confeziona un racconto morale senza morali, fatto di sguardi, rimpianti e conati di vita. Perfeziona la sua visuale etica con la sola maestria dello stile, ed è sicuramente molto.

Mancherebbe Maradona. Ne L’uomo in più si parla di calcio, di cocaina, di destini dualmente contrapposti. Ma purtroppo non l’ho visto.

Penso comunque che il nostro regista, anche al netto del premio americano, sia un Diego Armando del nostro cinema.

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