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Un (poco) saggio sul viaggiare

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Io non amo viaggiare, a me piace viaggiare. Ho viaggiato per lavoro e per piacere, ed è stata una fortuna poterlo fare. Credo, però, sia sopravvalutato il bagaglio sapienziale che può derivare da un buon viaggio.

Digitando su Google “chi viaggia”, il completamento automatico prova a venire incontro con “vive due volte” e “resterà piccino”, mentre scrivendo “chi non viaggia” lo stesso software mi anticipa con “non conosce il valore degli uomini”, “legge solo la prima pagina” e “non muta prospettiva”.

Mi guardo bene dal ricondurre la sapienza degli uomini alla Big G: anche senza essere un informatico suppongo che il completamento automatico derivi soprattutto dalla ricorrenza con cui una stessa ricerca è effettuata. Però se ne può trarre un indicatore di una fantomatica riflessione globale: in qualche modo Google registra tutto ciò di cui i navigatori vanno in cerca (sono andati, andranno) e l’analisi scientifica di quei dati rivela informazioni su noi stessi (insieme di utenti Google) che neanche noi conosciamo.

Per questo mi soffermo: “vivere una volta” e “non restare piccini” non sono necessariamente dei mali; “leggere solo la prima pagina”, “non conoscere il valore degli uomini” e “l’incapacità di mutare prospettiva” lo sono con maggiore facilità, ma non credo sia corretto ricondurle alle Persone Sedentarie.

Un detto dogon recita: “Gli occhi dello straniero vedono solo ciò che già conosce”.

Viaggiare non è sempre sufficiente ad entrare nella prospettiva altrui: turisti in un Paese estero dalle orecchie tappate dagli auricolari e la mente rivolta a vicende personali vivono un’esperienza non sempre più significativa di chi nel proprio salotto di casa legge con attenzione un saggio sulla storia di quello stesso Paese, o ne vede un documentario che ne tratteggia gli aspetti culturali più rilevanti o, ancora, si confronta vivacemente con una persona che a quella cultura appartiene. Non si nasce imparati a viaggiare.

Tutti noi siamo cresciuti tra letture e visioni di film e partite a videogiochi che ci hanno in parte istruito sul vivere frangenti emotivi o politici o sportivi o di sopravvivenza. Non è la realtà: pochi tra noi hanno avuto in mano lo spaccio di sostanze stupefacenti di un intero quartiere, ma grazie a Grand Theft Auto e a Weeds in molte persone saprebbero compilare parzialmente la “to do list” per fare le prime mosse: durante la nostra vita, per motivi differenti, intraprendiamo, grazie ai media, viaggi mentali con una frequenza che nessuna altra epoca storica ha conosciuto.

In cosa consiste il viaggiare?

Quando si viaggia capita di arrivare. L’arrivo è il secondo limite del viaggio, giacché il primo è la partenza. E se lì il viaggiatore incontra il viaggio, alla fine il viaggiatore (r)incontra se stesso; si procura uno specchio, ci riflette assieme: ramato dalla stella solare, una vescica sul tallone, quella barbetta selvatica che non si capisce poi perché.

Il termine del viaggio restituisce dalle ferie alla ferialità un protagonista cambiato: se questo riesce a dare nome alle crescite incontrate, allora le equipaggerà; altrimenti ammuffiranno nell’amalgama dell’inconscio per fuoriuscire a sorpresa. O mai.

Il termine “viaggio” in inglese è travel; passando da travede (viaggio nell’inglese classico) proviene dal latino volgare tripalium; poi andrà al trabajo (lavoro in spagnolo) e al travaglio, ma l’origine è da rintracciarsi nel tripalo, strumento di tortura che nel sistema penale giudaico cristiano sostituì la croce: una struttura a tre pali, uno verticale e due a “x”, cui veniva legato il condannato.

Il viaggio è tale se taglia, se incide. La nostra carne o, per chi si accontenta, le nostre cervella.

E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.

Itaca, di Costantino Kafakis

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