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Perché voterò no al referendum sulla riforma costituzionale

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Renzi contro tutti. È questo lo scenario con il quale si apre la lunga campagna elettorale che porterà al referendum sulla riforma costituzionale. A volerlo è soprattutto lui, il premier, che ha messo sul piatto non solo la sua permanenza al governo ma la sua stessa esistenza politica, ben conscio di come l’effetto plebiscito su un quesito unico (un sì o un no a tutto il pacchetto di riforme) potrebbe avvantaggiarlo.

Le opposizioni. A voler evitare questo meccanismo sono invece le opposizioni, a cominciare dai Cinque stelle, che vorrebbero invece “spacchettare” la legge, ovvero porre più quesiti agli elettori permettendo loro di pronunciarsi in maniera differente su ciascuno di essi. Questo consentirebbe loro di non dover votare no, ad esempio, alla riduzione del numero dei parlamentari, da sempre un loro cavallo di battaglia.

Spacchettamento. Lo spacchettamento permetterebbe anche ai malpancisti del PD, come già ammette Miguel Gotor, di fare addirittura campagna elettorale per il No su alcuni temi specifici della legge da sempre indigesti alla maggioranza del PD senza che questo comprometta il passaggio dell’intero pacchetto e quindi la stabilità del governo e l’integrità del partito.

Renzi sì Renzi no. La consultazione del prossimo autunno, comunque, non può e non deve trasformarsi esclusivamente un referendum sulla persona e sul politico Renzi, in ballo c’è infatti molto di più: l’idea stessa della partecipazione politica nel nostro Paese nonché la tenuta delle nostre istituzioni. Per capirlo basta fare un esempio pratico.

Governo eletto da pochi. Alle ultime europee il secondo partito (il Movimento 5 stelle) superò di poco il 21% dei consensi. Se, come è possibile, se non probabile, il PD (ammesso che arrivi primo) non raggiungesse il 40% al primo turno, potremmo avere un partito (M5S, Lega o chi altri) che accede al ballottaggio, e cioè alla concreta possibilità di conquistare il 54% dei seggi disponibili e quindi di governare il Paese, avendo convinto poco più di un elettore su cinque.

Democrazia a senso unico. Se consideriamo poi che alle politiche del 2013 votò circa il 75% degli elettori quel partito avrebbe convinto, al primo turno, solo uno ogni sette aventi diritto al voto. Ma questo gli garantirebbe comunque (una volta vinto il ballottaggio) di avere il totale controllo dell’unica camera che conterà nel sistema Boschi, con l’aggravante che in un epoca di partiti personalistici il leader del partito avrà deciso praticamente da solo il nome e il cognome dei deputati che garantiranno la sua maggioranza.

Perché voterò no. È chiaro, quindi che il problema non è un sistema monocamerale e nemmeno una legge elettorale maggioritaria a doppio turno, anche senza quelle preferenze che spesso, in effetti, alimentano le clientele, soprattutto nel sud Italia. Un abbassamento del numero dei votanti non è poi una tragedia in una democrazia matura che, se lo è veramente, sa anche gestire l’insorgere di movimenti populisti e xenofobi o il personalismo dei suoi leader. Quando però tutti questi elementi (monocameralismo, maggioritario, liste in gran parte bloccate, bassa affluenza, populismo e personalismo) convergono nello stesso Paese nello stesso periodo storico è più facile che si scateni la tempesta perfetta. Votare no al referendum d’autunno potrebbe quindi significare prolungare di un altro inverno il letargo del Leviatano.

@thefielder.net

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